Pan ibi dum teneris iactat sua sibila nymphis
et leve cerata modulatur harundine carmen
ausus Apollineos prae se contemnere cantus,
iudice sub Tmolo certamen venit ad inpar.
Ovidio, Metamorphosĕon libri XV, XI, 153-156[1]
E io: «Se nuova legge non ti toglie
memoria o uso a l’amoroso canto
che mi solea quetar tutte mie doglie,
di ciò ti piaccia consolare alquanto
l’anima mia, che, con la sua persona
venendo qui, è affannata tanto!».
Dante, Purgatorio, II, 106-111
Sono solo canzonette?
— Maestro, – lo interruppe il cameriere. – C’è qui il signore che mi avete chiamato. Scrittore che vi può servire la canzone…
Il maestro volse gli occhi a Masino e bonariamente: – Lo vidi all’entrare ch’era lui. Be’, cosa mi dite, giovanotto?
[…]
— Canzonette? ’A canzone! – lo fermò il maestro. – Noi non facciamo canzonette, so’ roba commerciale: cerco no poeta che mi sappia fare la grande canzone, la canzone italiana… Siete poeta?
— S… s… sí, ma bisogna intenderci sul genere e su che cosa dobbiamo lavorare. Se musica e parole son d’un diverso stato d’animo… voglio dire, sentimento… Bisogna che la musica risponda alle parole –. Masino che cercava di parlar popolare era uno spettacolo ghiotto.
Replicò il grassone: – Come? So’ le parole che debbo’ rispondere alla musica, giovanotto! Generi poi, si sa, ce n’è due, la canzone e la macchietta, ma u sentimento è uno solo, u sentimento…[2]
Scriveva così Cesare Pavese tra il 1931 e il 1932, in uno dei racconti, rimasti per lungo tempo inediti, aventi per protagonisti il giornalista Ciau Masino e l’operaio Masin; Masino e Masin percorrono e vivono con intensa assiduità la città di Torino, dandone un ritratto efficace e complesso. Nel racconto citato, Masino incontra un musicista in un bar e gli espone la propria intenzione di scrivere canzone, suscitando poi quella risposta veemente che mette a tema la distanza tra la canzonetta e la canzone, e la vicinanza di quest’ultima alla letteratura poetica. Pavese, complice forse l’influsso di una città viva e ben connotata come la Torino dell’epoca, vede in largo anticipo un tema che diverrà di grande interesse due decenni dopo e che costituisce il nucleo del saggio di Giulio Carlo Pantalei Una lingua per cantare. Gli scrittori italiani e la musica leggera, frutto di quattro anni di ricerche e riflessioni, e recentemente pubblicato da Einaudi.
Lo evidenzia anche questo uno stralcio tratto da un’intervista concessa all’autore da Dacia Maraini:
…fino agli anni Sessanta c’era un distacco netto fra la musica colta e quelle che venivano chiamate canzonette. Poi, con l’avvento dei cantautori, sono nate le contaminazioni. Non si trattava più di canzonette da trattare con un certo disdegno, ma di canzoni impegnate, intelligenti, che spesso rivelavano una visione del mondo consapevole e sapiente, al posto della solita banalità basata sulla combinazione di amore, cuore, lacrime, desiderio, gelosia, ecc.
Qui dunque si innesta il lavoro di Pantalei che esamina, attraverso il vetro di una lente di ingrandimento, quel periodo di transizione a cui le parole della scrittrice accennano e che si caratterizza per la trasformazione del panorama musicale leggero italiano, che passa dalla dimensione delle “canzonette”, fatta per la maggior parte di una retorica trita e immaginificamente povera, a quella più varia degli anni Settanta, dove trova cittadinanza una canzone impegnata, colta, attenta alla costruzione del testo e votata a un impegno anche civile, anche politico. È l’epoca del cantautorato italiano di De André, Guccini, De Gregori, Gaber, Lolli, e di molti altri i quali riescono a uscire alla ribalta e pensare possibili i propri lavori anche grazie alle esperienze degli anni precedenti; e proprio queste esperienze sono raccontate per la prima volta da Pantalei, in un testo che mescola la sapienza sia musicale sia letteraria dello studioso, sia la conoscenza e l’amore del musicista e dell’appassionato lettore.
Scrittori parolieri
La natura del racconto di Pantalei è storica e geografica: dà conto della diversità e della specificità del fenomeno della scrittura colta prestatasi alla musica in un disegno che segue una direttrice temporale, dal 1955 al 1975, e quattro fuochi spaziali: Sanremo, con la episodica esperienza di Giorgio Caproni; Torino, con la riflessione e la composizione coagulatasi attorno ai Cantacronache e che vede agire Calvino e Fortini (che ci arriva per il tramite di brecht, autore studiatissimo, amato e tradotto); Roma, con la verve carismatica dell’attrice Laura Betti capace di coinvolgere in un progetto teatrale a tutto tondo dapprima l’amico Pasolini, da poco trasferitosi nella capitale, e poi Moravia, Parise, Flaiano e Arbasino, che in tempi, modi e impegni diversi, mettono a servizio le loro proteiformi indoli creative; Bologna, dove si incontrano, per intelligente lungimiranza altrui, il giovane musicista e cantante Lucio Dalla e il poeta Roberto Roversi, capaci insieme di dare alle stampe tre sontuosi album di puro cantautorato.
Proprio quest’ultimo caso ci dà modo di sottolineare come il libro di Pantalei guardi a un fenomeno – quello, come detto, del rapporto tra scrittore letterario e forma canzone – che non era ancora stato trattato raccontando anche, di passaggio, come valga per l’Italia quello che in Francia è acclarato e (ben)accetto da tempo:
…sarebbe dunque legittimo rivendicare una radice letteraria alla base del cantautorato, con un peso ben diverso da quello riconosciutogli finora, in modo simile al fenomeno di intersezione che in Francia è stato invece da sempre avvalorato quanto alla relazione tra poeta – Prévert, Eluard, Vian, Aragon, Queneau – e chansonnier.
Uno degli aspetti più interessanti che emergono dalla lettura del libro riguarda il ruolo che lo sconfinamento nel territorio della canzone da parte degli scrittori analizzati ha all’interno della loro più generale produzione letteraria; in alcuni casi si comprende che non si tratta di un semplice divertissement, ma che funziona come stanza aggiuntiva dell’officina creativa, permettendo di tornare su immagini già usate (è il caso del corvo in Calvino, ad esempio); su temi e storie già scritte (si veda Una donna sulla testa di Moravia e ancora Calvino, con la coppia alle prese coi ritmi dettati dal nuovo mondo industriale), o di riprendere il lavoro di ricerca già elaborato in poesia o in corso d’opera in un differente linguaggio, come quello cinematografico (e qui vale su tutti l’esempio di Pasolini, al quale andrà anche riconosciuto il ruolo di capofila di questo fenomeno essendo l’autore della canzone più famosa tra quelle di cui qui si tratta e tra le più belle ed eseguite dell’intera nostra storia musicale: Cosa sono le nuvole).
Pasolini è l’artista più completo tra quelli (ri)letti da Pantalei, sia per la proficuità di scrittura, sia anche perché possedeva una vera formazione musicale giovanile. E grazie a Pasolini l’autore condensa in poche righe una riflessione chiara e distinta che ci propone un secondo motivo di interesse evidente del saggio, e cioè quanto di quello che viene raccontato di un tempo lontano dal nostro presente mezzo secolo e più, possa avere molto da dirci, qui e ora:
A distanza di tanto tempo, di fronte a un inarrestabile inebetimento generale scandito a colpi di foto sui social e di distratti streaming musicali, finalmente scevro dalle etichette di «episodio minore» o di «pot-pourri paraletterario» che certa critica accademica non ha smesso di apporre nel tempo, l’esperimento romano tra letteratura e musica capeggiato da Betti e Pasolini sembra avere ancora qualcosa da insegnare.
Il verso si dice in molti modi
Come abbiamo accennato sopra, la competenza dell’autore è trasversale: letteratura e musica; e complessa: da studioso e da praticante. Ne viene un libro che offre al lettore più strati di analisi, senza perdere in leggibilità e interesse e anzi, che è forse la cosa che più si chiede a un saggio, suggerendo e stimolando nuovi autonomi approfondimenti. Tra questi, conta mettere in luce l’attenzione che Pantalei dedica alla natura letteraria dei lavori scritti per essere musicati, la quale indica spesso riferimenti ad altri parolieri o cantautori, ma anche testi poetici appartenenti alla tradizione colta: da Cavalcanti e Petrarca a Neruda, passando per Shakespeare, Keats, Pascoli, Palazzeschi. Così, al di là delle indicazioni eminentemente letterarie che interessano la produzione dei singoli autori, il lavoro di Pantalei aggiunge un altro tassello e molto sostanzioso alle valutazioni sulle interazioni esistenti tra linguaggio alto e linguaggio popolare, aiutando a misurare come quello, attraverso questo, abbia effetti sull’italiano reale[3]. Guardando non solo al cosa della canzoni, ma anche al loro come, è possibile accostare con nuove consapevolezze e migliori strumenti la questione della qualità letteraria dei nostri autori di canzoni, rivalutandone alcuni, smascherandone altri, nell’idea che si possa – si debba – smettere i panni dei polemisti arroccati nelle proprie torri, e affrontare il rapporto tra canzone e arte (letteraria, poetica) con onesta ed esperta sollecitudine.
Intervista a Giulio Carlo Pantalei
Una lingua per cantare affronta un tema tanto interessante quanto scotomizzato dalla precedente critica, letteraria o musicale che si voglia. Qual è il bisogno che ti ha mosso, come è nata l’idea generatrice?
Il bisogno era quello di raccontare un’avventura che, sia da musicista sia da studioso di letteratura, percepivo come un tassello mancante nella storia della cultura italiana dal dopoguerra a oggi. È stato infatti piuttosto sorprendente, ammetto, realizzare a un certo punto del mio percorso tra letteratura e musica che i principali scrittori del secondo Novecento italiano – Pasolini, Calvino, Caproni, Fortini, Moravia, Arbasino, Flaiano, Parise – avessero scritto canzoni. Testi perlopiù messi al margine dei vari corpora, quasi fossero pericolosi sconfinamenti “leggeri” da oltrepassare a piè pari in ambito critico, ma che a guardar bene dialogavano con l’opera maggiore di ciascun autore in maniera senza dubbio più profonda di quanto si pensasse, entro un dibattito intellettuale ben più ampio del singolo specimen, per così dire. Ho provato dunque a metterle a sistema, cercando di ricostruire il contesto e il dibattito pubblico all’interno del quale questi versi per musica erano nati. Le questioni erano abbastanza decisive, altro che “musica leggera”: come sottrarre un medium così importante come quello della canzone alla macchina esclusiva del capitale e del consumismo? Come riallacciarla al contempo all’alleanza secolare, millenaria, tra poesia e musica? Temi che interessavano non solo nuclei estetici, ma anche e principalmente politici, sociali, ideologici, ricercando un uditorio più ampio al di là degli steccati di genere.
Nel testo delinei una sorta di geografia letteraria di autori che si sono dedicati, o prestati, alla musica. Si va dal caso isolatissimo di Caproni sanremese, agli anni di Torino, Roma e Bologna, secondo un andamento cronologico. Si possono individuare delle specifiche di ciascuna area di interesse?
Volevo che la “cornice” della vicenda si configurasse come quella di un piccolo atlante, a testimonianza del fatto che la ricerca di questa lingua per cantare fosse in qualche modo trasversale a tutto il paese. Provo a ricostruirlo in breve. Si parte in medias res con Caproni al Festival di Sanremo, che è sì naturalmente la sede della kermesse ma che è anche il luogo in cui è cresciuto Calvino, estremamente critico nei confronti del Festival insieme a Cantacronache, il primo gruppo-collettivo capace di fondere musica, poesia e militanza che Calvino stesso contribuì a fondare. Con Caproni si approda anche a Genova e Livorno, accomunate al contempo da un filo rosso di malinconia e di alcools (per dirlo con Apollinaire) di cui parteciperanno a mio avviso anche le esperienze musicali della Scuola Genovese, De André in testa, e di Piero Ciampi, arrivando idealmente in campo lungo fino ai Baustelle. A seguire c’è Torino, in cui l’elemento decisivo è invece senza dubbio quello politico, con due autori partigiani e militanti come Calvino e Fortini (ma anche i giovani Umberto Eco ed Emilio Jona) a conferire un decisivo apporto letterario. A Roma la caratteristica saliente, racchiusa alla perfezione nello spettacolo Giro a vuoto di Laura Betti e Pasolini con la collaborazione di alcuni dei maggiori autori e compositori del tempo, è quella del racconto dell’altra faccia – del wild side, a tratti del dark side – della Dolce Vita e del variopinto sottobosco di cabaret, café chantant e vaudeville, pieno di umorismo mordace, satira e guizzi intelligenti. Il capitolo su Pasolini, ci tengo a precisarlo, fa comunque scuola a sé e comincia dal Friuli-Venezia Giulia per giungere poi a Roma e “sfondare” infine nel mondo intero grazie al cinema e alla collaborazione con Modugno. In conclusione, la Bologna di Lucio Dalla e Roberto Roversi, dove l’intreccio tra poesia, musica e impegno raggiunge l’apice.
I protagonisti di questo tuo almanacco ventennale sono esclusivamente uomini. Eppure, penso soprattutto a Torino e Roma, un ruolo fondamentale viene giocato da artiste quali Margot o Laura Betti che in un certo senso rendono possibili le cose. Che idea ti sei fatto, con questa ricerca, della dinamica culturale di genere di quegli anni?
Ti ringrazio perché è una domanda che tocca un punto cruciale. I protagonisti “dell’indice”, se così si può dire, sono effettivamente solo uomini, perché nel lasso di tempo studiato, ovvero 1955-1975, gli autori all’interno della cui opera ho trovato incursioni da veri e propri parolieri per musica sono stati solo uomini, con l’unica eccezione di un paio di tentativi incompiuti di Elsa Morante in stadio embrionale (come “soggetti” di canzone, non come canzoni) nel suo archivio. Il che la dice lunga sulle opportunità d’accesso alla libera sperimentazione nel campo della musica concessa alle donne, che agli albori di questa storia al massimo potevano ambire a diventare “interpreti” delle canzoni di altro: per dirlo con un titolo di Cecilia Lavatore, che ha trasformato un verso celeberrimo di Rino Gaetano, la situazione si poteva racchiudere nella frase “mia sorella è figlia unica”. Ecco, rende decisamente bene l’idea. Sottolinei giustamente, però, che nel libro vero e proprio invece, cioè nella totalità della vicenda narrata (ciò che più conta, almeno per me), le donne non solo sono protagoniste, ma direi che sono addirittura essenziali perché Margot Galante Garrone (di cui parlo nei capitoli su Cantacronache, Calvino e Fortini) è a mio avviso la prima vera voce femminile della canzone d’autore in Italia, al fianco poi anche di Tenco e Gaber; Giovanna Marini raccoglie in qualche modo l’esperienza di Cantacronache nella sua chitarra e diventa una delle promotrici del Nuovo Canzoniere Italiano e nel tempo la principale folk-singer nostrana; Laura Betti è l’ideatrice, promotrice, interprete di Giro a vuoto ed è lei che inserisce Pasolini e tutti gli altri parolieri “letterati” nel progetto. E ancora: in Una lingua per cantare viene portato per la prima volta in un saggio all’attenzione della critica letteraria e musicale quello che sono convinto essere il primo disco di cantautorato al femminile in Italia, totalmente e ingiustamente caduto nel dimenticatoio, Canzoni di una coppia di Margot del 1963. Un gioiello da recuperare e riscoprire. Dopo il ’75 la situazione cambia, per fortuna, e prima o poi vorrei dedicare un approfondimento anche a questo tema: ho cominciato di recente, intanto, con un saggio su Elsa Morante e il suo rapporto viscerale con la musica di Bob Dylan contenuto nel libro Bob Dylan e il mito.
L’ultimo periodo, quello di Roversi e Dalla, si chiude nel 1975, cioè mezzo secolo fa. L’impressione, alla lettura del tuo libro, è che da un certo punto di vista esso abbia moltissimo da dire “proprio ora, proprio qui”. È così?
Penso proprio di sì: formalmente la vicenda finisce nel 1975, ma in realtà nel libro racconto anche parte di quell’onda lunga che consente a questa storia di valicare le decadi e i generi musicali arrivando ai giorni nostri non solo attraverso i cantautori (basti pensare che in uno dei suoi ultimi album, Canzoni da intorto del 2022, Guccini ha inciso ben tre cover di Cantacronache) ma anche in seno alla famiglia “allargata” del Rock. Dal post-punk dei CCCP all’Alternative di Marlene Kuntz e del Teatro degli Orrori, fino al Combat-folk dei Modena City Ramblers, solo per citarne alcuni. Venendo all’estremo contemporaneo, inoltre, si ha forse l’impressione che questa storia abbia tanto da dirci sull’oggi perché se l’intento degli scrittori con questi tentativi per musica era quello di innalzare ed elevare i contenuti delle “canzonette” affinché potessero parlare anche d’altro e partecipare allo sviluppo culturale della società, non alla celebrazione del disimpegno e della mediocrità, possiamo per molti versi concludere di esser tornati oggi a vivere sotto l’egemonia delle “canzonette” e di un nuovo mainstream che, tanto musicalmente quanto testualmente, è il trionfo dell’inconsistenza. Io non demonizzo e non ho mai demonizzato il pop in quanto tale, anzi penso che ci siano stati tanti bravissimi interpreti e musicisti anche in quell’ambito, ma trovo che il modo in cui il rap e la trap degli ultimi anni abbiano trasformato la forma canzone “pop”, tanto da un punto di vista testuale quanto strettamente sonoro e relativo alla produzione dei brani, sia la cosa peggiore che potesse capitare alla musica italiana. Il trionfo del vuoto, un dato che a mio avviso è lo specchio di tante altre questioni più vaste, anche a livello sociale e politico.
Un fatto, che emerge spesso lungo la tua analisi, è che per molti degli autori raccontati l’esperienza in qualità di parolieri non è così fine a sé stessa come potrebbe a tutta prima apparire; piuttosto, si inserisce nel percorso autoriale e sembra fornire una scappatoia d’altro linguaggio per tornare a temi già trattati altrove e altrimenti. Non ne viene un motivo d’analisi ulteriore, che andrebbe integrato di più negli studi letterari in senso ampio dedicati a questi scrittori?
Assolutamente. A partire infatti da una miriade di elementi dispersi e di primo acchito sconnessi, nonché da una forma breve come quella del testo per musica, si è sempre palesata durante la ricerca anche l’occasione di tangere in modo naturale e spontaneo i nuclei pregnanti di ciascun autore, tanto sul piano stilistico quanto contenutistico. Queste paroles hanno insomma sempre dimostrato di poter dialogare con le produzioni “maggiori” su un terreno ben più profondo di quanto si fosse immaginato finora. Scelgo tra i tanti un caso esemplare, quello del Calvino di Canzone triste, che è un distillato in versi (forma inedita per un narratore nato come lui) della sua splendida novella L’avventura di due sposi contenuta nella raccolta Amori difficili, dopo aver subito anche uno sviluppo nella veste di trattamento cinematografico per l’episodio intitolato Renzo e Luciana diretto da Mario Monicelli in Boccaccio ’70. Altro che operina di genere ininfluente o scritta per caso, dunque: è sufficiente una canzone per toccare alcuni dei fili rossi della poetica e dello stile dell’autore in quel dato momento storico e per intersecarli anche con altri linguaggi, altre forme, altri dialoghi tra le arti. Questo approccio, umilmente credo, potrebbe rivelarsi utile anche in ambito didattico favorendo nei casi migliori – e nel libro esistono tanti esempi in tal senso – l’approdo delle generazioni più giovani alla lettura di testi più estesi e complessi, una delle grandi sfide del nostro tempo.
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[1] Qui Pan, mentre si gloria con le tenere ninfe dei propri fischi e modula una canzone soave sulle canne della zampogna, osa spregiare, rispetto al proprio, il canto di Apollo; viene così a una sfida impari, sotto il giudizio di Tmolo.
[2] Cesare Pavese, Il blues delle cicche, in Id., Ciau Masino, Einaudi, Torino 1969
[3] Cfr. Sandro Veronesi, Introduzione a Accademia degli Scrausi, Versi rock. La lingua della canzone italiana negli anni ’80 e ’90, Rizzoli, Milano 1996, pp. 7-8
Alberto Trentin è nato a Treviso. Ha pubblicato varie raccolte di poesia. L’ultima si intitola Gli attimi attigui (Digressioni, Udine 2022). Scrive per Minima&moralia e Finnegans. Dirige la scuola di scrittura ri-creativa Alba Pratalia con Paolo Malaguti. il suo blog Epicentri – Conversazioni sulla Letteratura è al seguente indirizzo: www.albertotrentin.it
