lebrady

C’è un’umanità scalcagnata e fiera che si raduna al Brady, nel X arrondissement, a Parigi, dove basta cambiare viale per ritrovarsi in un’altra fetta di mondo; di lì gli afghani e di qua i camerunensi, i buttadentro africani per i tanti parrucchieri in zona: più sotto gli indiani e poi botteghe di ogni sorta. Il Brady è un cinema; è un cineclub di quartiere, a modo suo d’essai.

Una sala che proietta “i bassifondi della cinematografia mondiale”, di proprietà di Jean-Pierre Mocky, eroe dalla filmografia anarcoide, già esponente della Novelle vague, un James Incandenza senza l’ossessione per le lenti ottiche ma ugualmente capace di sfornare tre pellicole all’anno, un artista pazzo per il cinema. Tant’è che dopo aver acquistato il Brady, ha pensato bene di aggiungerci una sala per far proiettare solo i suoi film.

Insomma esistono storie che vanno raccontate ed ecco dunque Il Brady, un docu-romanzo (pubblicato in Italia da L’Orma nella traduzione di Marco Lapenna) scritto da Jacques Thorens, al suo esordio. Lui il Brady lo conosce bene: ci ha lavorato come proiezionista, cassiere e insomma tuttofare sin dall’anno 2000. L’ho incontrato in piazza Vittorio, all’Esquilino, un angolo di Roma che deve ricordargli quello di Château d’Eau, la zona del “suo” cinema (c’entra niente ma ora che ci penso Jacques Thorens richiama parecchio Jack Torrance; non gliel’ho detto).

Inizialmente volevo girare un documentario centrato esclusivamente su Mocky, dopo ho virato sulla parola scritta, mi consentiva maggiore libertà. E poi diversi dei personaggi di cui parlo non avrebbero mai accettato di comparire in video, senza contare che parte di quello che racconto è fuorilegge, mi dice. C’è per esempio questo Django, un ex militare e bandito passato da Algeri e Napoli e finito lì a svaccare al cinema, un «clochard di lusso», perché riesce quasi sempre a trovare un tetto sotto cui riposare, e perché fa l’elemosina «quando vale la pena», sotto Natale, davanti alle chiese dei quartieri buoni. Una memoria tappezzata di ricordi e aneddoti, quando a Napoli assaltavano con gli scugnizzi i camion dei soldati americani, o quando già a Parigi nel maggio 1968 ripuliva le vetrine delle gioiellerie sfasciate dai manifestanti.

E poi – oltre a improbabili cinefili di ogni sorta – onanisti seriali, omosessuali che si rincorrono nei bagni del cinema; le poche donne che varcano l’ingresso del Brady raramente finiscono con il tornarci. Una donna pietosa aiuta il suo compagno, che ha un mancamento in sala, uscendo e rientrando con tre litri di vino bianco. Ma il reuccio è lui, Mocky, che a più di settant’anni continua a girare, perché «non c’è modo di fargli mollare l’osso. Adesso attraversa una nuova fase Nouvelle vague – almeno per quanto riguarda la penuria di mezzi. Esce di casa, armato di macchina da presa e libretto degli assegni, e inanella un film dopo l’altro senza guardare in faccia a nessuno. Una vera testa calda del cinema oltranzista, capace di girare qualsiasi scena con un pettine sdentato e tre chiodi. Dopo trent’anni di carriera era arrivato a prodursi e distribuirsi da solo, coprendo tutta la filiera».

Mocky ha diretto film come Il bighellone Lo stallone (1969: l’attore Bourvil interpreta un veterinario che suggerisce l’istituzione di un servizio di gigolò a carico della mutua: per ottenere questa pletora di uomini, propone di riconvertire l’esercito all’uopo; il film non fu esattamente un successo) e scritto articoli su Le Monde del genere Come si diventa underground. Un poster affisso sul suo cinema lo ritrae mentre si esercita nel gesto dell’ombrello. Mocky è stato un grande regista – dice Thorens – ma anche un inetto, un pirla come si dice in Italia, un trafficone. Tuttavia è un uomo di buon cuore, il che lo rende commovente.

Al libro Thorens ci ha lavorato per una decina d’anni e sia detto che ne è valsa la pena, perché risulta un libro polifonico e vivacissimo, come la platea che si propone di ritrarre. Ho preso spunto dalla realtà – racconta – e per dispiegarla sono ricorso alle mie esperienze di lettura (romanzi, racconti, fumetti) e anche di ascoltatore, oltre che di spettatore. Forse il libro che ha più di tutti una struttura simile al mio è Ultima fermata a Brooklyn, di Hubert Selby Jr. Vero: un quartiere, i palazzoni, tanti balordi incasinati con la vita; fichissimo.

Ho scelto questo tipo di struttura perché era il modo migliore per raccontare questa storia. Parlare del quartiere, del cinema, di come tutto sia legato. La compresenza di alto e basso, continua. A proposito di basso: tra le altre cose, Il Brady è un vistoso atto d’amore verso il cinema, b-movie e non solo. C’è questo Laurent, un tecnico informatico per le ferrovie, assiduo frequentatore della sala sin dagli anni Ottanta, che nel romanzo si incarica di definire il genere b-movie: «Si parla di serie B quando, da un momento all’altro, si butta tutto in caciara. Gli spaghetti western che cominciano con stile e finiscono in mangiate di fagioli, i gialli ridotti a una sfilata di culi. Il b-movie è casinaro per definizione, attraversa ogni sorta di circonvoluzione per poi abbracciare il miserabile destino della frittata».

Chiedo a Jacques, che ha visto e sentito racconti sul cinema di ogni sorta, se a volte si abbandona a una certa nostalgia per i bei tempi andati. Qualcuno dei miei personaggi a volte si abbandona ai ricordi, alla nostalgia per quello che è cambiato. Personalmente per me non è così, mi piace vivere il presente. Parlando di cinema, è vero che il cinema d’arte o anche di genere fossero più sperimentali rispetto a oggi. Pensa a Hong Kong prima che fosse riassorbita dalla Cina. Le dinamiche dei blockbuster, poi, finiscono col fagocitare la fantasia, le marginalità. Pensa a Spielberg: era partito per essere Fellini o Kurosawa…

Restando all’estetica b-movie: chiedo a Jacques se è meglio un brutto film o un brutto libro, perché c’è tutto un culto intorno ai brutti film, mentre i libri brutti sono brutti e basta. La sua risposta fila: Be’, pensa che a Baudelaire piacevano i libracci che vendevano nelle stazioni. Ci sono alcuni film che sono delle perle rare. Ogni morte è ridicola, le parrucche sono fuori posto e ogni intenzione attoriale è sbagliata. E così lo spettatore non sa più cosa aspettarsi mentre guarda questi spettacoli, è come ritrovarsi in una posa surrealista.

E questocontinua è impossibile da fare deliberatamente. Se da regista ti metti a fare film del genere, vuol dire che lo stai facendo a un “secondo livello”. Sorpresa, umorismo, follia. Si può trovare tutto questo in film così. VIVA BRUNO MATTEI!, conclude, in italiano ovviamente.

Poi, prima di salutarci, quando gli chiedo infine i suoi registi italiani preferiti, me ne cita cinque: Ettore Scola, Federico Fellini (Roma), Gianni Amelio (Lamerica), Mario Bava (La frusta e il corpo), Sergio Leone.

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gavroche1983@yahoo.it

Liborio Conca è nato in provincia di Bari nell'agosto del 1983. Vive a Roma. Collabora con diverse riviste; ha curato per anni la rubrica Re: Books per Il Mucchio Selvaggio. Nel 2018 è uscito il suo primo libro, Rock Lit. Redattore di minima&moralia.

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