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Questo pezzo è uscito sul Venerdì, che ringraziamo.

Immagino che sia felice, oggi, Francis Scott Fitzgerald, di sapere che a quasi settantasette anni dalla sua morte, l’insegnamento più importante lasciato agli scrittori che continuano a crescere leggendo la sua opera gira tutto attorno al cardine della serietà. Quando un attacco cardiaco lo uccise, a fine 1940, la prigione dorata del successo e della fama mondana ancora lo perseguitava. Nessuno pensava alla seria dedizione al lavoro di scrittore quando sentiva parlare di lui.

Il giorno prima della fine, in teatro, visibilmente affaticato, si guardò intorno ghignando: “Pensano che sia ubriaco, vero?” Alcolista, mondano, ricco, perduto, colpevole di aver dissipato il proprio talento – questo si continuava a pensare dello scrittore che era stato il re degli anni Venti, l’inventore della flapper, il cantore dell’Età del Jazz. Pochi sapevano quel che oggi sappiamo bene noi, soprattutto a leggere i racconti inediti contenuti in Per te morirei. Ossia che da molti anni Fitzgerald voleva soltanto scrivere quel che era diventato capace di scrivere. Nient’altro. Solo il cuore di quello che era arrivato a cogliere del respiro del mondo: “il dolore e la musica delle cose perdute” come ha scritto Pietro Citati in un libriccino luminoso intitolato La morte della farfalla (Adelphi).

Si era stancato di scrivere solo per denaro. Nel decennio d’oro dei Venti, era arrivato a percepire somme folli per racconti scritti in una manciata di giorni, (anche 4 mila dollari a pezzo, ossia 55 mila di oggi) e benché quella fortuna si fosse esaurita con la crisi economica, Fitzgerald adesso preferiva dormire in stanzacce di motel dove era costretto a lavarsi a mano la biancheria in bagno, piuttosto che dover continuare a “dare alle riviste ciò che volevano”.

Dopo aver raccontato la propria crisi nel 1936, dopo essersi messo a nudo come nessuno prima, in quei tre articoli pubblicati per Esquire, passati alla storia con il titolo del primo: Crack-Up (Il crollo, Adelphi), adesso Fitzgerald cercava solo verità. Niente più lieto fine, come le mode imponevano. A costo di non pubblicare. “Rimandamelo e basta” scrisse del racconto che dà il titolo alla raccolta, opponendosi con decisione alla proposta di cambiarne toni e finale. Niente più storie di leggera giovinezza, a costo di continuare a lavarsi i panni in bagno.

E quando veniva il momento drammatico in cui era impossibile fare diversamente perché le necessità pratiche lo imponevano, i racconti frizzanti e vitali a Fitzgerald non uscivano più dalla penna. Gli era diventato impossibile scrivere di ciò che non riguardasse la sua vera, seria, ultimativa ricerca di scrittore. Attorno al cardine della serietà, chi oggi voglia imparare da Fitzgerald può svelare tutti quei segreti che già erano apparsi in una bella antologia tradotta da minimum fax: Nuotare sott’acqua e trattenere il fiato (prefazione di Nicola Lagioia).

Innanzitutto la lingua (mai troppo ricca: “se disponi di troppe parole, diventeranno come un muscolo che tu abbia sviluppato e sia costretto a usare”) e l’emozione da cui la lingua scaturisce (“all’origine di tutto ci dev’essere un’emozione che mi tocchi da vicino e che io possa capire”). Poi la caratterizzazione del personaggio (“comincia con una persona e scopri che hai creato un tipo; comincia con un tipo e scopri che non hai creato niente”) e la necessità di mostrarlo (“in modo tale che i tuoi ascoltatori possano davvero vedere le persone di cui stai parlando”).

Infine l’organizzazione complessiva del materiale, ossia la revisione e la necessità di tagliare senza pentimenti (celebre la generosità con cui Fitzgerald consigliò a Hemingway il netto taglio delle prime pagine di Fiesta). Tutto questo però soltanto a patto che in partenza ci sia la necessità di raccontare (“Non si scrive per dire qualcosa; si scrive perché si ha qualcosa da dire”), l’indifferenza verso gli editori (“Interrogarmi sulle possibili reazioni di editor e editori ha su di me un effetto deleterio”) e la sfida alla possibilità sempre presente del fallimento (“per raccontare bisogna essere imprudenti”).

Scrittore dalla prosa poetica, Fitzgerald cercava solo la perla che si nasconde dietro alle apparenze, per raccontarla creando gli effetti che gli aveva insegnato Conrad nella prefazione al Negro del Narciso: “il fine di un’opera è stimolare nella mente del lettore effetti lenti ma duraturi”. In fondo, il fine del vero scrittore non è altro che l’immortalità che egli spera di assicurarsi attraverso i suoi scritti. Un’illusione, forse, ma che è impossibile spegnere, perché noi umani “continuiamo a remare” – ormai lo sappiamo bene – “barche contro corrente, risospinti senza posa nel passato”.

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Autore

matteonucci@minimaetmoralia.it

Matteo Nucci è nato a Roma nel 1970. Ha pubblicato con Ponte alle Grazie i romanzi Sono comuni le cose degli amici (2009, finalista al Premio Strega), Il toro non sbaglia mai (2011), È giusto obbedire alla notte (2017, finalista al Premio Strega), e il saggio narrativo L'abisso di Eros (2018). Con Einaudi ha pubblicato traduzione e commento del Simposio di Platone (2009) e i saggi narrativi Le lacrime degli eroi (2013), Achille e Odisseo (2020), Il grido di Pan (2023). Per HarperCollins sono usciti il romanzo Sono difficili le cose belle (2022) e il saggio narrativo Sognava i leoni. L'eroismo fragile di Ernest Hemingway (2024). I suoi racconti sono apparsi in riviste, antologie e ebook (come Mai, Ponte alle Grazie 2014), mentre i reportage di viaggio e le cronache letterarie escono su La Stampa e L'Espresso. Cura un sito di cultura taurina: www.uominietori.it

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