Akuaba, il romanzo d’esordio di Francesco Staffa per D editore, è un libro molto duro.
Si tratta di un’opera narrativa già matura, dalle forti tinte sociali, esplicita, spietata, a tratti disturbante, che affronta, senza alcun orpello o censura, l’orrore della tratta delle ragazze nigeriane, contestualizzato all’interno dei meccanismi perversi del neocolonialismo.
Sarebbe però limitante ridurre l’impatto del romanzo alla retorica espressione “pugno nello stomaco”: la narrazione si svela in un gioco di incastri ben congegnato, un intreccio di vicende inquietanti che affronta crudamente temi come la violenza sulle donne (imposta con lo stupro, con la manipolazione psicologica, con la mercificazione del potere economico), il razzismo fondante e connaturato alle politiche neocolonialiste e, più a fondo, le dinamiche più oscure dei desideri e delle pulsioni primordiali dell’inconscio.
Dunque, Akuaba non è solo un resoconto realistico dell’ingiustizia radicale subita storicamente dai popoli africani, ma può essere letto a un livello più alto come un consapevole racconto simbolico sull’impossibilità dell’Occidente di arginare le forze ferine che ne hanno posseduto e guidato la visione espansionistica.
Di questo, e di molti altri aspetti, abbiamo parlato con l’autore.
Come è nata l’idea di questo romanzo?
Nell’ormai lontano 1947, Ennio Flaiano ha usato parole durissime per definire l’Africa. Parole che a distanza di tempo trovo siano ancora attuali: “l’Africa è lo sgabuzzino delle porcherie, ci si va a sgranchirsi la coscienza”. È un’affermazione forte, un’affermazione sincera e cruda che non lascia scampo. È la visione di un modo di pensare l’altro che inconsciamente abbiamo incamerato. Una visione che ci inchioda di fronte a responsabilità inconfutabili e di fronte a una realtà difficile da digerire, eppure evidente. Una realtà che ci vede protagonisti, nostro malgrado, di nefandezze indiscutibili. Frutto di un’ideologia di fondo dettata da una realtà storica, complessa, che ci ha voluto vincitori. È in virtù, o per colpa, di essa che indossiamo una medaglia dai volti solo apparentemente opposti: da un lato sovranismo e razzismo e dall’altro paternalismo e pietismo. Entrambi questi volti hanno una stessa matrice ed è quel senso di superiorità, ora sopito, ora esaltato e ostentato con orgoglio, che è alla base di un comune sentire, che troppo spesso non si vuole ammettere. Non è forse vero, infatti, che tendiamo a pesare le vite umane in base a un’appartenenza più o meno vicina alla nostra? Non è forse vero che il privilegio di nascere in una determinata parte del globo e di appartenere a una determinata classe sociale condizioni le nostre scelte?
Ecco, è da qui che è nata l’idea di questo romanzo. Dall’esigenza di riflettere su tali paradossi. Dal voler analizzare criticamente la nostra Storia e dalla necessità di fare i conti con la nostra memoria. Perché è dalla memoria che bisogna partire per capire chi siamo e dove vogliamo andare. Anche, e forse soprattutto, se è una memoria scomoda e disturbante. Da cui si rischia di non uscirne bene né come italiani, né come persone, donne o uomini che siamo.
Come affrontare questa memoria? È la domanda che mi sono posto, insieme ad un’altra, altrettanto importante: come superare la duplice narrazione che quotidianamente invade il dibattito su l’altro?
Da qui ho iniziato a pensare a una lente che potesse creare una distanza sia temporale che spaziale dall’emotività che il fenomeno migratorio provoca ormai nei nostri commenti e giudizi. Ho creduto che parlare di vicende simili, avvenute in un luogo remoto e in un momento storico lontano, potesse essere la chiave di volta per riflettere su noi. Un noi generalizzato, un noi contraddistinto da un bagaglio storico pesante. Ma anche un noi, svelato intimamente. Un noi che allarga i propri confini, includendo l’umanità intera. Proprio nel tentativo, ultimo, di superare delle categorie che sono storiche e culturali ma che non rendono nel giusto conto il fatto di appartenere tutti a un’unica specie. Cosa spinge l’essere umano?
Questa è la domanda definitiva che mi sono posto. Lungi dal voler essere esaustiva, la mia risposta si è focalizzata sul desiderio. Credo fermamente, in ultima analisi, che sia questa la leva che ci smuove. Il desiderio.
Poi, quale sia la sua natura e quale il suo volto dipende dal vissuto di ognuno e dalle condizioni ambientali in cui abitiamo. Ed è qui la differenze che ci rende ognuno diverso. Qual è il desiderio che ci attiva e quali sono i sentieri che percorriamo per soddisfarli. Infine quali le conseguenze e il prezzo da pagare.
A partire da questi interrogativi sono nati i vari personaggi e le loro vicende. Ho narrato i loro cammini e le emozioni scaturite dalle pulsioni che li animano. Cammini e pulsioni che si intrecciano gli uni agli altri, ora per percorrere un tratto di strada insieme e ora per vedersi ostacolare dal percorso altrui, così come spesso accade.
Come ti sei documentato?
Non sono partito da una scaletta dettagliata, né avevo in mente tutta la narrazione. Non scrivo mai con un progetto in mente predefinito. Mi affido a uno o due personaggi e mi lascio trasportare. Poi man mano che la storia prende avvio inizio a documentarmi attraverso vari tipi di fonti. Da testi storici ad articoli di giornali e riviste, passando per la narrativa e saggi di natura urbanistica e ambientalista. Per questo romanzo era importante ricostruire una cornice storica e insieme ad essa un’ambientazione verosimile. Lagos e la foresta di Osogbo, due degli scenari in cui i personaggi prendono le loro mosse, rappresentavano luoghi a me poco familiari. Quindi la mia ricerca si è orientata verso la scoperta e la conoscenza di un territorio che non avevo mai attraversato. Inoltre avevo la necessità di respirarne l’aria, gli odori e le atmosfere. Per questo è stato fondamentale calarmi nelle narrazioni di chi quei luoghi li aveva abitati realmente come Wole Soyinka, Chimamanda Ngozi Adichie, Oyinkan Braithwaite, solo per citarne alcuni, e nelle descrizioni etnografiche di rituali yoruba in modo da poter avere ben presente le quinte di quel palcoscenico su cui i personaggi avrebbero calcato i loro passi.
Quali sono state le parti più difficili da scrivere?
“Per me scrivere romanzi è una forma di esplorazione, di scoperta: tanto di un mondo nuovo, di cui devo conoscere più elementi possibili, quanto del mondo in sé, del mondo in quanto tale, e dunque di me, che al mondo appartengo”. Queste sono le parole di Rosella Postorino con cui mi trovo in pieno accordo. Scrivere è inizialmente scoprire. Entrare in empatia e in sintonia con l’ambiente che si vuole narrare. Dall’esplorazione di questo mondo, poi, emergono elementi che colpiscono maggiormente e sono quelli che si sceglie di rappresentare ed evocare.
Come ho accennato prima, quando scrivo non parto mai da una scaletta. Ho più o meno in mente una narrazione, un abbozzo di trama, quasi mai un finale. O a volte solo quello. Più spesso conosco il tema che voglio affrontare e i personaggi mi aiutano a delinearlo e mi offrono gli spunti per rifletterci.
Anche per questo romanzo, il processo creativo ha seguito più o meno questo istinto. Volevo parlare di quanto il privilegio condizioni il desiderio e di come, per esaudirlo, non ci si preoccupi di violare le vite altrui. Allo stesso tempo volevo narrare vicende simili a quelle che oggi vivono molte persone che decidono di – o sono costrette ad – abbandonare la propria terra. Per affrontare questi temi avevo la necessità di superare, però, un certo tipo di narrazione e utilizzare una poetica differente. La difficoltà maggiore, dunque, è stata quella di rimanere fedele a questo intento.
Intrisi, come siamo, di un linguaggio tendente al retorico e al pietistico, per non parlare di quello razzista o negazionista, diventava difficile riuscire a narrare vicende umanamente tragiche senza cadere in questo errore. La storia di Amma e Adebisi è stata senza dubbio quella che mi ha creato più di un pensiero. Da un lato infatti volevo restituire il dolore e la pena, dall’altro però credevo che non dovesse suscitare solo queste emozioni. Sono fermamente convinto che un racconto debba prima di tutto mostrare, descrivere. In questo senso mi sono affidato al mio bagaglio culturale, a quel mezzo narrativo che in etnografia veicola la restituzione di una cultura a chi quella cultura non la conosce e non l’ha mai vista: la descrizione, per quanto più possibile oggettiva.
Io per primo non conoscevo le vicende dei personaggi, non sapevo nulla di cosa possa significare dover scegliere di abbandonare la propria terra, né cosa possa voler dire trovarsi da un giorno all’altro in balia di organizzazioni criminali che utilizzano i corpi altrui per i propri scopi illeciti. E ancora meno cosa possa significare vivere quotidianamente con uno stigma addosso. Quello del nero, dell’inferiore o di colui che ogni giorno deve essere difeso da qualcuno che quel colore non ha capito ancora cosa sia. Nero o Bianco non sono tratti epidermici, rappresentano concetti politici, invenzioni per marcare un confine netto tra una parte del mondo e un’altra. Mi approprio delle parole della scrittrice Djarah Kan per spiegare meglio questo concetto: “Volete che ve lo riscriva più chiaramente? Il razzismo non è l’assenza di gentilezza da parte dei bianchi nei confronti dei neri. Né gli schiaffoni e gli insulti ricevuti, lungo tutta una vita. Il razzismo in Europa si fa carne con le leggi che spingono gli immigrati a morire nel Mediterraneo per via del sistema discriminatorio dei visti di ingresso. Il razzismo è la volontà di tenere sotto ricatto intere comunità, mediante il fragile sistema del rilascio dei permessi di soggiorno, dove un giorno sei cittadino, e quello dopo clandestino. Il razzismo è la Politica italiana che considera come preoccupazioni di Serie B, i diritti civili dei figli degli immigrati, che sono anche figli dell’Italia.
Il razzismo è considerare la Storia africana solo come schiavitù, deportazione e povertà.
Il razzismo è guardare allo straniero come massa e non come individuo. Il razzismo è la negazione costante di quella parte di Storia europea, che deve lo sviluppo e la ricchezza attuale del vecchio Continente alle stragi, al colonialismo, alle deportazioni e alle cancellazioni di intere popolazioni africane. Chiedere scusa in quanto bianchi è l’offesa più grande che si possa fare ad una persona che vive incastrata in questo sistema tanto violento e allo stesso tempo raffinato”.
La mia preoccupazione più grande è stata proprio questa, non cadere nell’errore di voler chiedere scusa, risolvendo “tutto con un mi dispiace, rimanendo di fatto uguali a sé stessi” Djarah Kan.
Ho tentato di descrivere, di riportare quello che immaginavo potesse essere vivere in cattività, dopo aver subito sevizie e abusi di vario tipo. Ho voluto e dovuto raccontare la complessità storica all’interno della quale questi eventi si sono sviluppati. È stato necessario affrontare tutta una serie di sovrastrutture e, soprattutto, quel senso di colpa che spesso, come ci insegna Djarah, risulta irritante, se non deleterio, quando ci si limita a volerlo allontanare senza averlo prima introiettato. E soprattutto senza che si abbia la voglia e il desiderio di superarlo veramente, cambiando – non mi stancherò mai di dirlo – la narrazione.
Con questo non voglio dire che sia stato più semplice narrare le scelte di Franco, Fabiënne, Guido e Ada. Anche per loro ho deciso di rimanere estraneo. Di limitarmi a descrivere cosa animasse il loro agire. L’amica sociologa Marta Vignola, a cui devo la citazione di Flaiano con cui ho aperto questo incontro, durante una presentazione del romanzo mi ha chiesto se avessi perdonato i miei personaggi. Non credo sia mio compito perdonarli o meno. Credo che incarnino delle imperfezione che, chi più chi meno, indossa quotidianamente e, in quanto tali, concorrano alla bellezza/bruttezza dell’essere umano. Sicuramente questo è l’aspetto che più di tutti colpisce il mio interesse: l’imperfezione e il tentativo di ognuno (forse) di tentare di superarla adoperandosi a raggiungere obiettivi che spesso si rivelano deleteri per qualcun altro. Soprattutto, credo che l’assoluzione conduca all’immobilità. Lavarsi la coscienza, chiedere scusa e chiedere il perdono, senza però cambiare nulla. Mentre ciò che serve è un mutamento netto e per quello è necessario prendere atto dei propri errori, affrontarli e smettere di perseverare nella loro riattualizzazione.
Quali sono secondo te le vie possibili per stroncare l’orribile traffico di esseri umani che è descritto spietatamente nel libro?
Vorrei avere la soluzione, ma purtroppo temo di non possederla. Di certo andrebbero rivisti i rapporti tra Paesi emergenti e Occidente sia riguardo le adozioni internazionali che in merito agli scambi economici. Una redistribuzione della ricchezza più equa potrebbe essere un fattore determinante nel limitare pratiche illegali e, come accennavo all’inizio del nostro incontro, bisognerebbe riflettere sul nostro ruolo e sul nostro presunto senso di superiorità. Sarebbe opportuno dare il giusto peso ad ogni vita umana, senza considerarne alcune meno valide di altre. In questo senso movimenti come quello nato negli Stati Uniti e che tanto determinante si è rivelato nelle ultime elezioni americane, può insegnarci molto su come percepire noi e l’altro. Senza cadere in facili sensazionalismi o sprecare energie in estenuanti dibattiti su quanto sia corretto o meno abbattere i simboli della supremazia bianca, dovremmo concentrarci su una narrazione differente. Una narrazione che senza ipocrisie ci ponga di fronte a chi siamo stati, chi siamo e chi dovremmo e potremmo essere. Partire dalle nostre colpe per prendere le distanze e deviare da un cammino che da secoli percorriamo. Il Black Lives Matter può aprire uno spiraglio che alla lunga potrebbe avere ripercussioni anche sugli orrendi crimini che ho narrato. Ma per arrivare a questo è necessario spogliarci delle nostre certezze, fare i conti con la nostra memoria e con il nostro agire e soprattutto rinnegarlo e cambiare rotta. Ora, non so quanto tutto ciò si attuerà. Sicuramente la società statunitense non è la stessa che abita il resto dell’Occidente e neanche quella che contraddistingue i Paesi emergenti. Questo movimento potrebbe essere un esempio, ma c’è bisogno che a mutare sia la weltanschauung. A partire dai media.
Secondo te, è possibile sensibilizzare le orde di imbecilli che rilanciano le notizie della falsa propaganda fascioleghista e, per fare un esempio, reagiscono con risate alle notizie di donne o bambini morti affogati in mare?
Sono convinto che ogni fenomeno sociale vada affrontato per quella che è la sua complessità. Per quanto, di pancia e di prima impressione mi sentirei di utilizzare i tuoi stessi epiteti per definire queste persone, credo che un primo passo per tentare una sensibilizzazione sia quello di non cadere nel loro stesso errore. La pancia deve essere messa da parte. Bisogna, ancora una volta, cambiare la narrazione. Io credo che chi rilancia in questo modo semplicistico, irritante e sperequativo le notizie false della propaganda fascioleghista sia a sua volta vittima di questa stessa propaganda.
C’è un vuoto istituzionale, prima di tutto. Manca un organo che intervenga ogni volta che si profili una chiara e limpida notizia falsa. Non sto parlando di censura, ovviamente, ma è pur vero che in qualche modo è opportuno difendersi. Certo non è semplice, proprio per via del labile confine che potrebbe incorrere tra censura e libertà di stampa. In secondo luogo esiste un vuoto politico. Nessuna forza, oggi, sembra intenzionata a smantellare questo genere di propaganda. Sembra quasi che si abbia il terrore di macchiarsi del cosiddetto buonismo. In realtà bisognerebbe compiere delle scelte nette e a quelle attenersi. Rovesciare la narrazione, cambiare i termini. Mettere al giusto posto le cause e gli effetti. Inventare il termine clandestino, ad esempio a chi fa comodo? Creare questa figura a chi è servito? Rendere un numero imprecisato di persone fuori legge senza che si siano macchiate di alcun reato cui prodest?
Se si partisse da queste semplici domande e ci si chiedesse sempre a chi giova qualsiasi scelta nazionale e internazionale, si potrebbe costruire una cronaca dei fatti completamente differente. Se ad esempio invece di parlare del “problema” migranti, si parlasse del fenomeno, se ne conoscessero le cause, magari anche l’opinione pubblica inizierebbe a chiedere di risolvere quelle e non si limiterebbe a sentirsi minacciato. Senza contare che andrebbero affrontati i veri “problemi”, quelli interni prima ancora di considerare la migrazione un problema. Chi rilancia notizie false chi è? Perché impiega le proprie energie a sputare veleno e ad amplificare l’odio su cui poggia il potere di qualche politicante altrimenti privo di qualsiasi contenuto? È un terreno fertile. Un campo arido, reso arido da anni di malgoverno che non hanno saputo dare le giuste risposte ad esigenze minime primarie. Sono abbandonate dalle istituzioni che alimentano il loro rancore indirizzandolo verso coloro che sono socialmente più deboli.
Il discorso, come ho detto fin dall’inizio è molto complesso e non è sufficiente questo spazio per rispondere adeguatamente, quello che posso dire, con assoluta certezza è che abbiamo bisogno di un cambio di rotta, sia dal basso che dall’alto. Bisognerebbe riscoprire il concetto di solidarietà, non intesa come aiuto reciproco, ma solidarietà di intenti. Una solidarietà collettiva atta a rovesciare un sistema che si è incancrenito sulla falsità, privo di contenuti e che produce solo e vittime, da una parte e dall’altra.
La narrazione, al di là del realismo molto crudo di certe descrizioni, è costruita in maniera accorta e sofisticata. Ti sei ispirato ad alcuni modelli narrativi?
Certamente, anche se non è semplice definire quali. La scrittura è imprescindibile dalla lettura. Sono un lettore onnivoro e credo che ogni parola che io abbia incamerato nel corso degli anni abbia contribuito a comporre questo romanzo. Per quanto riguarda la scelta di costruire una narrazione non lineare, credo sia dovuta alla mia propensione di ragionare per immagini. In questo senso anche la mia voracità cinematografica e seriale ha inciso enormemente nella stesura.
Nonostante i temi trattati siano di natura storico sociale, ho pensato che un impianto che derivasse dal genere noir o thriller potesse rendere la lettura più accattivante e probabilmente la mia frequentazione di questi generi mi è stata senz’altro utile. Non volendo fare torto a nessuno evito di declinare nomi di autrici e autori che hanno nel tempo influenzato il mio modo di pensare a una storia e di restituirla su carta.
Quali libri consiglieresti per documentarsi sui temi che affronti nel libro?
Credo che i percorsi della conoscenza siano totalmente individuali. Certamente consiglierei le autrici e gli autori Nigeriani che ho citato precedentemente. Ma il vero consiglio è quello di lasciarsi andare alla curiosità e approfondire quegli elementi che colpiscono perché vicini alla propria sensibilità e da lì lasciarsi stupire nell’entrare in mondi inesplorati e sconosciuti.
Qual è stata la reazione dei lettori finora?
Devo ammettere che è stata molto positiva ed entusiastica. Da un lato è stato apprezzato il tema portante, per la sua originalità. Il romanzo è apparso come un punto di partenza per approfondire una storia poco nota eppure attuale nonostante sia incastonata in un tempo e un luogo distanti. Dall’altro ho ricevuto numerosi elogi per il modo in cui ho costruito la narrazione: la trama che attraverso prolessi e analessi si dipana fino a chiudere un cerchio (anche se il finale rimane aperto). Essendo poi un romanzo multistrato, ho ricevuto anche diversi attestati di stima per i temi più intimistici trattati, oltre che per la costruzione psicologica dei personaggi. Proprio in virtù di ciò molte lettrici e molti lettori si sono avvicinati al romanzo declinandone sfumature differenti, affezionandosi ad un personaggio o ad un altro in base alla propria sensibilità o al proprio vissuto, rendendo, così, la narrazione viva.
Cosa hai in mente di scrivere dopo questo romanzo?
Un prequel con nuovi protagonisti, per quanto alcuni personaggi saranno ancora presenti. Le vicende nigeriane restano quelle narrate in Akuaba, ma vedremo Guido e Ada qualche mese prima che Kofi si presenti alla loro porta. Il misterioso collezionista assolderà il “discepolo” di Guido per ricercare alcuni oggetti che gli sono stati sottratti e quindi avremo notizie di questa figura che per ora è rimasta sospesa. Ancora una volta il tema sarà quello della “scelta” e del “desiderio”, declinato però in una trama dalla cornice completamente differente. A fare da sfondo sarà la morte prenatale, la mitologia classica (greca e mesopotamica) e la dicotomica storia matriarcato/patriarcato. La sacralità femminile avrà un ruolo predominante così come il tentativo maschile di usurparla. Ancora una volta il montaggio sarà alternato e vi saranno dei personaggi che si muoveranno in un luogo fuori dal tempo e dallo spazio, un arcipelago dove anime pure rappresenteranno le novelle Moire. È un romanzo a cui tengo molto e che sto curando nei minimi dettagli da anni ormai.
Come consiglieresti la lettura del tuo libro a un lettore che ancora non ti conosce?
Se è arrivato fino alla fine di questa lunga intervista, credo abbia tutti gli elementi per scegliere Akuaba come lettura del suo prossimo futuro.
Adriano Ercolani è nato a Roma il 15 giugno 1979. Appena ventenne, ha avuto il piacere di collaborare con Giovanni Casoli nell’antologia Novecento Letterario Italiano e Europeo. Si occupo di arte e cultura, in varie forme dalla letteratura alla musica classica e contemporanea, dal cinema ai fumetti, dalla filosofia occidentale a quella orientale. Tra i suoi Lari, indicherei Dante, Mozart, William Blake, Bob Dylan, Charles Baudelaire, Carmelo Bene, Andrej Tarkovskij e G.K. Chesterton. È vicepresidente dell’associazione di volontariato InnerPeace, che diffonde gratuitamente la meditazione, come messaggio di pace, nelle scuole e nei campi profughi di tutto il mondo, dalla Giordania al Benin, dal Libano a Scampia.
Nel suo blog spezzandolemanettedellamente riversa furiosamente più di vent’anni di ricerca intellettuale. Tra le sue collaborazioni: Linkiesta, la Repubblica, Repubblica-XL, Fumettologica e ilfattoquotidiano.it.

Passo sempre a leggerti. Sempre interessante.
Grazie!