di Daniele Petruccioli

«La sera del ballo era una notte ciscaucasica».

È la prima frase di un libro appena uscito per Adelphi nella mia traduzione, un romanzo di oltre quattrocento pagine scritto a quattro mani da Antoinette Peské e Pierre Marty, marito e moglie autori di tre romanzi in comune, di cui uno è questo. Di lui si sa pochissimo, se non che era giurista di formazione e appassionato di filosofie orientali. Ma il personaggio interessante, inutile dirlo, è lei.

Figlia di un pittore polacco che aveva studiato a Parigi con Pissarro ed era molto amico di Marie Curie e di Apollinaire, sarà quest’ultimo a ravvisare in Antoinette un grande talento poetico già a otto anni, vedendone le poesie affisse alla Galerie Malpel nel 1914, quando la ragazzina aveva appena dieci anni. Secondo la stessa scrittrice, il poeta si era anche proposto di farle pubblicare, ma la sua morte sopravvenuta nel 1918 avrebbe fatto naufragare il progetto. Bisogna però prendere con beneficio di inventario le dichiarazioni di questa straordinaria affabulatrice. Nei suoi 81 anni di vita non si limitò alla poesia e ai libri a quattro mani, ma firmò, trentasettenne, un romanzo tutto suo (La scatola d’osso, per Denoël) che si guadagnò nientemeno che il plauso di Cocteau. Negli anni Cinquanta escono i tre romanzi a quattro mani con suo marito e firmati “Peské Marty”, uno dei quali – appunto il Sentiero – per Gallimard.

Sarà Jean-Pierre Sicre, fondatore delle edizioni Phébus, a riscoprirla e ripubblicarla negli anni Duemila. Ed è ancora Sicre a insinuare che sia stato Marty, forse il meno “scrittore” dei due, ad aver avuto più parte nel Sentiero (contro le affermazioni di Peské quando era ancora in vita, non smentibili visto che Marty era morto già da una trentina d’anni), sulla base proprio della sua ubertosità linguistica e affabulatoria, visto che La scatola d’osso sembrerebbe piuttosto “scolpito nel ghiaccio”, per usare ancora le parole di Sicre. Anche qui, personalmente non mi fiderei troppo, conoscendo la versatilità e la pluralità per così dire anche biografica di Peské, nata a Parigi in piena Belle Époque da un impressionista slavo e da una nobildonna di Kjachta, città sul confine russo-mongolo, a sud del lago Bajkal. Ma veniamo al romanzo.

Qui il sentiero si perde comincia durante un grande ballo sulla neve, sotto un manto di stelle e maschere porpora, durante il quale viene resa pubblica la notizia della morte di Alessandro I – lo zar rivoluzionario che secondo Tolstoj non sarà morto ma diventerà il mistico Fëdor Kuz’mič, capace di far piangere lo spietato Nicola I – e prosegue in un lungo viaggio verso Est di tre personaggi (che potrebbero – o forse no – essere uno solo). Dal punto di vista della trama si va dalle crisi mistiche di un monaco ortodosso agli amori tra schiavi dei turcomanni a Samarcanda, dagli intrighi politici nelle foreste siberiane, con i loro lupi e le loro comunità religiose ribelli (che ricordano molto da vicino, oggi, certi insediamenti mennoniti americani), alle lamasserie tibetane con i loro riti magici tantrici.

Dal punto di vista linguistico, non riesco a trovare un aggettivo migliore di “ubertoso”. C’è un’infiorescenza meticolosa di erudizioni anche contraddittorie, in questo viaggio nel Far East russo (la Siberia, naturalmente), mongolo, cinese e tibetano al contempo. Basti pensare all’aggettivo “ciscaucausico” con cui si apre il racconto.

Dal punto di vista culturale, un libro uscito in Francia nel ’55 scritto da due – diremmo oggi – francesi di origini mongole e slave, ad appena due anni dalla morte di Stalin (e un anno prima del XX Congresso del Pcus – dove, dopo tanti anni vale forse la pena ricordarlo, sotto la segreteria Chruščëv fu denunciato il culto della personalità a lui tributato), nel quale si tratta di zar che diventano santoni, schiavi dagli amori omosessuali, pellegrini che si fanno maghi e lottano contro i demoni per essere salvati da ragazze morte, aveva giocoforza un impatto fortissimo nell’Europa di quegli anni. Voleva, evidentemente, salvare un immaginario che avvertiva come moribondo. Da qui la superfetazione di tematiche, ambienti e anche aggettivi. Da qui, l’importanza di aderire a quell’immaginario – come un gechetto a un vetro trasparente.

La traduzione è l’arte dell’ascolto e della lettura (son cose stranote, da Gadamer a Calvino) e in Qui il sentiero si perde, secondo me e chi mi ha revisionato in casa editrice, ci voleva da un lato una precisione filologica incrollabile, dall’altro la destrezza di mano di un tombarolo.

Dal primo punto di vista, per fortuna, dato che le tematiche di questo libro avrebbero tranquillamente potuto essere commissionate dal suo editore italiano (che del resto ha nel suo sistema nervoso e circolatorio, vorrei dire, l’aspirazione peraltro spesso riuscita a resuscitare immaginari dati per morti), è bastato ricordarsi che, anche solo per i testi diciamo così più ampiamente buddisti, in Adelphi avevo pronti e già benissimo tradotti testi da Bhartrhari a Gombrich e da Marpa il traduttore al Re del mondo. Inoltre ho potuto chiedere consiglio a Kristin Blancke, che ha tradotto sempre per Adelphi, insieme a Franco Pizzi, I centomila canti di Milarepa e il cui aiuto è stato imprescindibile. Per tutto quanto riguardava la Russia e la Siberia, dalla corretta traslitterazione di d’jak alla descrizione meccanica delle tarantàs, il Cielo della letteratura ci ha dotati miracolosamente di Claudia Zonghetti (le cui traduzioni dal russo – da Bulgakov a Grossman, da Tolstoj a Dostoevskij – non vale neanche la pena menzionare). Sono felice di poter ringraziare qui due delle tante e tante colleghe che formano la miracolosa, coltissima, generosa comunità di chi traduce e di cui mi onoro orgogliosamente di far parte.

Dal punto di vista del recupero e – diciamolo pure – del latrocinio linguistico-culturale, si è trattato di fare un viaggio distopico al contrario. Ho potuto divertirmi a risfogliare Il milione e Il canone pali, riesumare (va bene, va bene: rubare) stilemi e giri di frase da Salgari a Mircea Eliade. Il tutto ricordandosi di non aver mai paura di un copricapo strambo, di un colore inusitato per un tramonto, di un grido di guerra incomprensibile.

Io me la sono proprio goduta, lo confesso. Spero che il libro possa trovare lettori tombaroli altrettanto privi di scrupoli del sottoscritto.

 

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4 commenti

  1. Sto leggendo “Qui il sentiero si perde”, attratta dalla recensione che ne ha fatto Corrado Augias.
    Sono sinologa di formazione, appassionata di nomadismo centroasiatico, amante dei grandi scrittori russi la lettura dei quali mi ha avvicinata, già adolescente, al mondo al di là degli Urali…..
    E’ un libro di meraviglie, mi ricorda un po’ “Manoscritto trovato a Saragozza” nelle sue girandole di avventure. Io amo sognare, a occhi aperti, a occhi chiusi, la sera non vedo l’ora di mettermi a letto per lasciarmi trasportare su questo tappeto volante fatato che è questo libro.
    Vorrei soltanto dire grazie alla Adelphi per averlo pubblicato, e grazie a Daniele Petruccioli per averlo così magistralmente tradotto.

  2. Grazie!
    Romanzo superbo, traduzione perfetta, e grazie di questa condivisione.
    Mentre lo leggevo ho pensato in più passaggi che questo sia un romanzo allo stesso tempo siberiano e sudamericano (per il calore e la sovrabbondanza descrittiva).
    Complimenti,

    Cecilia

  3. P.S.: dimenticavo! La parte con i demoni mi ha ricordato Il Maestro e Margherita…

  4. Avventura in cui perdersi. Mi ha ricordato Un eroe del nostro tempo di M.J. Lermontov nonché nella tecnica narrativa il big J. Conrad. Ma da dove hanno attinto gli autori tutto ciò che è contenuto nel libro?

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