Cigola la carrucola del pozzo,
l’acqua sale alla luce e vi si fonde.
Eugenio Montale, Cigola la carrucola del pozzo
Là où ça parle, ça jouit, et ça sait rien[1].
Jacques Lacan
Dalia è in cura con altri due bambini in un precario ambulatorio, seguiti dalle infermiere Elena ed Erica, che usano medicinali scaduti e strumenti scarsi e in cattive condizioni. È ciò che resta dell’assistenza sanitaria in un Veneto dilaniato e offeso, spopolato, vittima dell’innalzamento delle temperature, e in cui i ricchi si sono rifugiato nella città del Santo, entro spesse mura e invalicabili.
Dalia ha poi diciotto anni e decide di abbandonare la Valle Scura, attraversare la Foresta come le ha insegnato la ex maestra Fioranna, e cercare il Villaggio dei pozzi, dove verrà accolta da un gruppo di persone che forma una comunità dal sapore antico.
Nel villaggio, tra il macellaio e cavadenti Biagio, la solitaria abitatrice dell’albergo di nome Orsola, una cartomante che predice il presente, e altri personaggi di varia umanità, Dalia troverà, in una catabasi tanto immaginata quanto reale, le parole per farsi racconto.
Premessa
Nel 1919 Freud abbandona temporaneamente la stesura dell’opera nella quale completa e supera le precedenti posizioni sulla pulsione, Al di là del principio di piacere che vedrà la luce nella seconda metà del1920, per dedicarsi a un progetto che era rimasto a lungo nel cassetto: Das Unheimlich, Il perturbante.
Il saggio, abbastanza breve, è diviso in tre parti. Nella prima si concentra l’analisi più propriamente linguistica, che funge poi da stimolo e guida per quanto leggiamo dopo, in ottica sia estetica sia psicoanalitica. Il saggio percorre, come dice l’autore, la strada inversa a quanto accaduto nell’indagine, che prima aveva individuato alcuni casi di perturbante e poi aveva trovato conferma dal punto di vista linguistico.
Dalla prima parte apprendiamo che non esiste in italiano, come in molte altre lingue, una traduzione fedele del termine unheimlich (di volta in volta: inquietante, pauroso, sinistro, ecc.), e che nella lingua tedesca il termine è evidentemente costruito come negazione (grazie al prefisso un-) di heimlich che vale a indicare sia ciò che ci è familiare, domestico, intimo; sia ciò che viene tenuto nascosto allo sguardo, alla vista. Freud osserva che unhemilich, nell’uso corrente, vale come contrario soltanto della prima accezione, ma avverte, sulla scorta di un frammento di Schelling, che l’indagine mostrerà che il termine heimlich
sviluppa il suo significato in senso ambivalente, fino a coincidere in conclusione col suo contrario: unheimlich. Unheimlich è in certo modo una variante di heimlich[2].
Potremmo dire allora che se c’è un luogo che aiuta a tenere insieme i due significati del termine heimlich, questo luogo è la casa, dove ciascuno, in forme differenti, si costruisce la sensazione di domesticità e familiarità e dove altresì impara a nascondere alcune cose allo sguardo altrui.
Così, potremmo ancora dire, ciò che ci è familiare e teniamo nascosto diventa ipso facto unheimlich per quanti ne sono esclusi, per chi guarda casa nostra da fuori, o ci entra da estraneo.
La conclusione di Freud è che è perturbante quello che, dovendo rimanere nascosto, è invece tornato alla luce cioè, in termini psicoanalitici, ciò che riemerge dalla rimozione. Questa caratteristica è quanto accomuna il perturbante nella vita reale, per ciascuno, a quello nella finzione estetica, la quale può permettersi di abbracciare nella creazione fantastica un ambito molto più ampio rispetto a quanto succeda nella realtà.
Il pozzo
Detto questo, premessa lunga certo, abbiamo una prima chiave per leggere il nuovo romanzo di Ginevra Lamberti, Il pozzo vale più del tempo, uscito per Marsilio e segnalato al Premio Strega 2024; un romanzo che segna il distacco dell’autrice dal genere dell’autofiction sotto il quale possiamo sussumere i primi tre libri, e che salta a piè pari nella pura invenzione fantastica; i legami, che pure esistono, con le ambientazioni familiari – la valle, la laguna, a titolo di esempio – il sono lasciati coscientemente vaghi: vi si allude come a luoghi leggendari.
Il perturbante domina questa storia fin dalle prime battute, sia per l’immaginario che Lamberti escogita, sia per la processione sintattica e architettonica del testo, che pare procedere con un movimento a spirale: avanti e indietro, e a fondo delle cose, come fosse, il romanzo, chiamato a scavare nella storia qualcosa di simile al pozzo che fa da soglia iniziale e invita il lettore a curiosare dentro la stanza dei bambini.
Prima di stabilire di chi sia stata la colpa, bisogna considerare che la malinconia è nata nella stanza dei bambini. Strisciata fuori dalla porta, si è fatta strada fino a nascondersi nel pozzo.
Nella stanza ci sono tre letti. Sono occupati da due bambine di otto anni e un bambino di tre.
Valle Scura è un luogo ormai scarsamente abitato e chi ci vive è arrivato da poco, muovendo dallo spopolamento di pianura e laguna e occupando le case lasciate libere dai vecchi abitanti, scomparsi, chissà dove, chissà come. Ovunque terra incolta, case abbandonate, capannoni fatiscenti e fabbriche mute preda di erbe infestanti. La ricchezza è l’acqua, in un tempo in cui le temperature si sono alzate e continuano ad aumentare, e in cui si alternano mesi secchi ad altri in cui il cielo si copre, il buio domina, l’acqua diluvia e distrugge. La vita, di giorno in giorno e di stagione in stagione, passa nel romanzo scandita dalla differenza di temperatura, come a mostrare un nuovo calendario per ingabbiare questa cosa così umana che è il tempo.
Il racconto popolare
Il pozzo vale più del tempo ha i tratti di un racconto popolare nero e contemporaneo, che mescola il realismo della favola alla struttura di fondo della fiaba, la dinamica del mito a certe atmosfere del romanzo gotico. C’è l’aiutante saggia, quasi maga, Fioranna, che insegna a Dalia cose importanti come leggere, scrivere e raccontare e che dà il via alla missione. C’è il bosco, che adesso è foresta e che Dalia è chiamata ad attraversare, anche se non è indeterminato e lontano; è un luogo preciso, materiale, fatto di alberi che si possono nominare:
C’è ancora qualcuno che si ricorda di quando la foresta si chiamava bosco. Era una distesa di abeti, con il pino mugo grondante di neve. Le palme, allora, non erano una novità assoluta. […] I cipressi si erano lasciati andare così come gli abeti, ma resisteva qualche roverella, qualche noce, qualche appezzamento di castagni più anziani e più forti. Anche acacie, carpini, faggi e frassini non volevano saperne di scomparire. Resistevano e ormai da tempo avevano fatto conoscenza con i cespugli di capperi aggrappati alle rocce e il blu profondo dei convolvoli.
C’è il viaggio e l’incontro con gente diversa, perché come dice il rabdomante Vittorio “ci si definisce quando s’incontra l’altro”; non ci sono animali parlanti, né oggetti magici, ma esiste un castello con la sua principessa, Orsola, a cui Dalia farà da dama di compagnia; ed esiste un orco, Biagio, che fa il macellaio e il cavadenti, per il bene della comunità, ma che inquieta a dir poco per tutto quello che tiene nascosto; a lui, Dalia, farà fin da subito l’assistente: imparerà a scuoiare, sfilettare, preparare. Altri ancora saranno i legami, che la ragazza magra e grigia come un topo saprà instaurare, con personaggi esemplari ed eccentrici: Olmo, l’Orbo, Pasquale e il Professore, che insieme formano il gruppo degli Anabattisti.
Il male esiste e accade, ovunque e in ogni tempo. Ama ripetersi, travestirsi, ma ama anche seminare falsi indizi, mostrare vivo ciò che è morto e viceversa. Il male ama nascondersi. Quando agisce alla luce del sole, quanto erompe e dilania, chiunque è preso dal terrore, e decide se fuggire o se reagire. Ci sono però zone di mezzo, umbratili, boschive, in cui i contorni si fanno meno netti ed è difficile darne ragione. Sono luoghi e tempi in cui dai pozzi – vicino ai quali i bambini hanno assoluto divieto di giocare – pare uscire, insieme all’acqua, anche qualcosa che appartiene al passato, che sa di leggenda nera, di donne bruciate nel rogo e di uomini che mangiavano davvero i bambini. Racconti buoni solo a spaventare, forse; o esempi del perpetuo farsi del male, lunga biografia che ora potrebbe avere voglia di un nuovo capitolo? Cosa c’è davvero in mezzo a tutte quelle cianfrusaglie, in mezzo ai coltelli lordi, agli avanzi di cibo, cosa tra la sozzura rivoltante, e cos’è quella cosa che assomiglia a un dito?
Ma soprattutto, dove vanno a finire i bambini?
Il gioco delle storie
Fin da subito, dalla sua forzata permanenza nell’ambulatorio perché è andata contro un trattore e si è rotta il naso, mentre divide la sua stanza con una bambina muta perché ha la faccia ingabbiata da una maschera di ferro, e un bambino muto perché soporoso, Dalia scopre grazie il potere delle storie. Che racconta e che le vengono raccontate. Il pozzo vale più del tempo è anche una lunga formazione narrativa, che passa per Fioranna, per gli Anabattisti, per lettere che arrivano all’albergo, per i racconti di Orsola, e che fornisce alla bambina e alla ragazza gli strumenti per decifrare il mondo.
Là dentro la bambina aveva scoperto che i libri erano oggetti parlanti. […] Nei giorni in cui Fioranna le insegnava prima le lettere e poi come metterle insieme, Dalia non si era neanche accorta che ascoltando imparava a raccontare. Raccontare era come un giocattolo che nessuno ti poteva portare via.
Il villaggio aveva così appreso di avere una chiesa in più, e nell’apprenderlo gioiva. Ma di tutto questo, i nuovi abitanti non sapevano nulla, e se qualcuno sapeva non raccontava, e non raccontando era come se non sapesse.
«La vedo molto provata, Dalia cara, molto provata. Forse dovrebbe parlare con Clara e aumentare la dose dei calmanti. Lasci stare gli smalti, venga qua, le racconto una storia. Le piacciono ancora le storie della laguna?»
«Mi piacciono molto, sembrano non finire mai.»
«In un certo senso è proprio così.
Attraverso Dalia, Lamberti ricorda a ciascuno di noi lettori che il libro non è solo un oggetto, ma è un luogo vivo dove, nella dinamica nascosto/emerso, possiamo far accadere, per poi appropriarcene, la magia del raccontare, che è, come abbiamo visto, un altro modo di dire sapere. Soprattutto cosa fare quando un futuro che nessuno aveva predetto o previsto, accade, si fa presente e feroce è il presentimento che davvero, quando qualcosa risale dai pozzi profondi che non hanno tempo, si fa evidente l’illusione di essere padroni a casa nostra.
Intervista a Ginevra Lamberti
Questo è il tuo quarto romanzo e apre a una nuova direzione, o nuove domande; nelle tre opere precedenti hai raccontato qualcosa che sta, per tempi e spazi, vicino a te, e per genere, in quella che si va chiamando autofiction. Ora invece spingi lo sguardo autoriale verso il futuro e verso una forma più pura di invenzione narrativa. Era un passaggio inevitabile?
Era un passaggio cercato e desiderato. Fare riferimento all’inevitabilità mi sembrerebbe una forma di deresponsabilizzazione e forse mi metterebbe anche un po’ di angoscia. L’inevitabile è qualcosa che cade dall’alto e ci vede inermi. Costruire una storia, invece, che contenga elementi autobiografici o che si spinga nel territorio della più selvaggia finzione, è una pratica che – seppure spinta da un’urgenza, o se vogliamo da un istinto – risponde a una volontà progettuale.
Nel romanzo la scansione degli eventi è, certo, data da alcune indicazioni temporali che accomodano il lettore lungo l’asse cronologico di Dalia, la vera protagonista della narrazione. Ma oltre, lo scorrere del tempo come ore e come giornate è scandito dalle variazioni della temperatura esterna. Si può dire che in questo romanzo hai voluto pensare a un modo dell’esistenza per l’essere umano in cui tornerà in primo piano un rapporto fisico e di dipendenza con l’ambiente, inteso come elemento fisico ostacolante, inteso come clima, inteso come ciclo stagionale ecc.? Un rapporto meno mediato, più naturale, se questo ha ancora un senso come aggettivo?
Il pozzo vale più del tempo ha a che fare, più che con un futuro ipotetico, con il presente che non vogliamo vedere. A meno di non considerare la – comunque nutrita – fascia di popolazione che vive in uno stato di povertà assoluta, nel cosiddetto occidente economico è ancora possibile fingere che il sistema non stia collassando. Ma la realtà della migrazione climatica di milioni di persone è già presente. Le vaste aree private di un sistema infrastrutturale, di sanità e di istruzione a causa di guerre e conflitti è già presente. L’assenza prolungata di piogge alternata a bombe d’acqua e l’innalzarsi delle temperature, sono già presenti.
Nel romanzo si allude a un’idea di comunità che rimanda a una visione che ci ha contraddistinti dalle origini, ma che poi è andata svilendosi, soprattutto nell’ipercontemporaneità. Mi riferisco a un’idea di gruppo ristretto, in cui ciascuno si sente chiamato ad assumere un ruolo e a fare certe cose innanzitutto per il bene del gruppo stesso. Divisione dei compiti e finalità collettiva. Penso ad esempio al macellaio che è anche cavadenti, perché nessun altro lo fa. È uno scenario questo che immagini come risultante dell’attuale stato di solitudine, di iperconnessione lontana da ogni reale comunicazione ed empatia?
È uno scenario che immagino come frutto di uno stato di necessità. Non volevo restituire un quadro apologetico della comunità chiusa che ritrova il senso delle cose attraverso il recupero di antichi valori. Perché, come Margaret Atwood ha eloquentemente narrato ne Il racconto dell’ancella, il concetto di antichi valori è stato ed è tuttora troppo spesso strumentalizzato da ideologie conservatrici e reazionarie. Ho immaginato il muoversi, aggregarsi e autodeterminarsi di persone non legate da vincoli biologici che provano a ricreare un tessuto sociale regolato da norme condivise, ma non chiuso e non strettamente gerarchizzato.
Il romanzo ha una sorta di rumore di fondo che dapprincipio è poco più di un’eco, una allusione, e che mano a mano cresce e si fa fragore. Lo definirei come l’accadere del perturbante, che si propaga progressivamente nella comunità che è andata formandosi e nella quale Dalia entra non da ospite ma da vera artefice. Quale tipo di male hai voluto far emergere dall’intreccio degli eventi?
Dicevamo un attimo fa che il tessuto sociale in cui Dalia inizia a muoversi e a crescere è caratterizzato dalla ricerca della “non chiusura” e del superamento delle gerarchie intese come esercizio di potere. Ecco, credo che nello svolgersi delle vicende di Dalia e di tutti i personaggi che la circondano, aiutano o assediano, le ombre e le oscurità si manifestino di pari passo con la chiusura e con l’avidità post-capitalista di chi desidera solo mangiare. Perché mangiare è consumare e il consumo di risorse e persone non è la risposta a un bisogno, è l’affermazione di una forma di superiorità padronale.
Il romanzo è anche una lunga considerazione, in termini narrativo, del valore e del ruolo del raccontare storie, cioè nell’intromissione della finzione nella realtà, cioè ancora negli effetti di realtà che le finzioni generano. Lo vediamo in Dalia, ma anche in Orsola, ma anche in Manuel ecc. Possiamo pensare al racconto come a una delle attività umane che salvano, da sempre, per sempre?
Se consideriamo che il racconto non è solo trasmissione di memoria ma è anche trasmissione di conoscenza e dunque corrisponde alla primissima forma di istruzione, dove istruzione – se fosse per tutti, sempre, ovunque – è (sarebbe) distribuzione equa di opportunità e competenze, allora sì. Il racconto è una possibilità di salvezza. Non sono sicura che la stiamo cogliendo.
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[1] lì dove qualcosa parla, qualcosa gode, e non sa nulla di ciò.
[2] Sigmund Freud, Il perturbante, Trad. di Silvano Daniele, in Id., Opere. 9. L’Io e l’Es e altri scritti, 1917-1923, a cura di Cesare Musatti, Bollati Boringhieri, Torino, 1990, p. 87,
Alberto Trentin è nato a Treviso. Ha pubblicato varie raccolte di poesia. L’ultima si intitola Gli attimi attigui (Digressioni, Udine 2022). Scrive per Minima&moralia e Finnegans. Dirige la scuola di scrittura ri-creativa Alba Pratalia con Paolo Malaguti. il suo blog Epicentri – Conversazioni sulla Letteratura è al seguente indirizzo: www.albertotrentin.it
