Enrico Sibilla, autore del romanzo Nero celeste, ha chiaro che l’infinito ignora l’alternativa o i giudizi poiché ha posto per tutto, non dà peso a un terremoto o altre apocalissi quali l’estinzione, alla clemenza e alla speranza: le digerisce macchinalmente, consumandole rinasce; e poiché questa cognizione lo scuote ma sa anche che contiene l’unica pace riservata ai terrestri, intende mostrarci – affrontando, suscitando rivelazioni insidiose e necessarie – come è arrivato a questa consapevolezza. Per farlo, si sostituisce a Keir Dullea nei panni di David Bowman, ovviamente negli enigmatici minuti finali di 2001: Odissea nello spazio, in cui l’astronauta si ritrova salvo ma smarrito in quell’inquietante perché immacolato, catarifrangente appartamento settecentesco. Su quella soglia rarefatta, in cui anche il respiro è finzione, Sibilla prende il posto di Bowman (non a caso significa anche prodiere) per guardare verso l’infinito, oltre il monolite emerso per noi di fronte al letto, e poi non tacere, perché «Se sono esatte, le parole sfamano il mondo».
Con gli occhi ancora impressionati dal cunicolo spazio-temporale attraversato – e che nel romanzo alimenterà la descrizione di premesse e genesi del sovvertimento ultimo – registra di questo le prime incommensurabili manifestazioni: rivelano un futuro che porta con sé l’estinguersi dell’umanità; di qualità e limiti estremi ma cosmicamente insignificanti, che riguardano il genere umano.
Sibilla riesce a portare a terra i più complessi scenari ultraterreni; qui non basta l’immaginazione, serve sensibilità, passione, quel torcersi prima e insieme al lettore negli spasmi dell’ignoto. Procedendo così oltre la frontiera in cui il film di Kubrick come quasi sessant’anni dopo il dibattito su post-umano ed eternità numerica, si arenano, muti di fronte alle conseguenze della decreazione; Nero Celeste avanza ancora, senza sbrigativi effetti speciali, abbandonando ogni fede se non quella nei martiri della scoperta celeste o nell’innocenza degli animali, e dove la descrizione del loro sacrificio produce una scrittura indimenticabile, pericolosa e solitaria. Limitandosi spesso a ricordarci ciò che intuiamo ma evitiamo di sapere, con incalzanti coinvolgimenti del lettore, anticipando le descrizioni più disorientanti con Noi lo sappiamo, Noi lo stiamo vedendo, l’autore non fa altro che rinfacciarci la fragilità delle nostre viscerali assunzioni, la nostra vulnerabilità: una capacità di coinvolgere il lettore già dei precedenti romanzi di Sibilla: Aurora Liminalis e Il libro dei bambini soli. Scrivendo per aiutarci a non mentire a noi stessi, si avvicina a J.G. Ballard, Kurt Vonnegut; sono così le Dangerous Visions e in particolare La bestia che gridava amore al cuore del mondo di Harlan Ellison: scrittori affacciati sull’orizzonte emotivo degli eventi, confine del buco nero dell’umanità.
Già dall’ambiguità cromatica del titolo, Nero celeste consiste nell’attraversamento di più soglie o limiti o pregiudizi: per questo ha bisogno di più linee temporali. L’ultimo atto del mondo immaginabile riguarda lo scontro grottesco tra bene e male; avviene negli anfratti di San Pietro, tra l’ultimo pontefice dal corpo mostruoso e un Hitler scheletrico che è l’ultimo Hitler della Storia e tutti gli Hitler: più che la vita umana ormai conclusa – dopo una mattanza che non ha risparmiato teneri corpi infantili, donne e animali – il papa intende proteggere la visione del futuro, l’accesso alla conoscenza di un tempo ulteriore e celato in «una vasca, riempita al colmo di un fluido capace di assorbire la luce completamente»; risorsa più vitale della vita, condensata memoria necessaria all’origine di un dopo, tabula rasa del mondo nuovo. Magma crepuscolare annuncio del post-umano.
Ad accompagnare e promuovere questa trasmigrazione è l’Intelligenza Artificiale che l’autore libera da ogni pregiudizio antropomorfizzante, che la farebbe suddita o nemica; sarà l’imponderabile ad accompagnarci per poi sostituirci; la sua funzione è di preparare la nostra assenza: «È rimasta soltanto l’Intelligenza, qui come altrove ovunque diffusa come una foschia digitale, senza più antagonisti né aule di tribunale in cui difendersi da accuse pallide, insussistenti: lontanissima dai turbamenti della letteratura, quell’Intelligenza non era più Artificiale ma Altra ed era migliore di tutto. Soprattutto dell’uomo e delle sue leggi (…) È, semplicemente, la vita nuova».
L’atto finale dell’umanità è preceduto, inframmezzato dal ricordo dei suoi ultimi sacrifici: sono esempi di abnegazione, avvengono al confine tra pianeta e cieli, riguardano pionieri, vittime inconsapevoli o precursori dimenticati di una scienza sperimentale ed esplorativa; è come se soltanto la riscoperta eredità di un eroismo oscuro, di sofferenze ignorate fosse necessaria al tempo che verrà oltre il nero celeste; si alternano qui personaggi inventati come l’astronauta Heinrich F. Pflanzenwelt e una bambina chiusa in un polmone d’acciaio, lanciata in orbita per vedere almeno le stelle; e altri storici, dallo sventurato cosmonauta Vladimir Komarov della Soyuz 1, allo scimpanzé Ham The Astrochimp imbragato sulla Mercury 2 e sottoposto a un’accelerazione pari a 17 g.
L’elevazione, il volo per ottenere un’affermazione personale, timorata quanto sovrumana:
Scompare e riappare sul rettifilo del cielo sfrangiato dai cirri: tocca e oltrepassa le nubi, continuamente lo fa nella gloria tutta umana della meccanica che domina la gravità (…) Nell’accelerazione supersonica che lo trascina verso il confine con l’orbita, in direzione della calma unificante che sta oltre l’orbita stessa, un solo pensiero occupa la mente di Heinrich. Non è un’idea o una memoria né un sogno, ma la ripetizione ostinata del versetto a lui più caro del Cantico dei Cantici: “Attirami in te, correremo – fammi penetrare, Re, nelle tue stanze“.
C’è un’ulteriore soglia o meglio frattura che Nero celeste scandaglia: è la più costante eppure difficile da vedere, è inizio e conclusione ma ciò che avviene in mezzo è inafferrabile. Sibilla l’aveva anticipato in Aurora Liminalis, è il mistero, primo a potersi dire celeste, della paternità: «Diventerò il Nord. È quello che spera ogni padre: essere l’astro che è fisso, punto di fuoco per il sestante che è il figlio (…) Sarò il lustro e l’onore; assenza da benedire, da maledire. Talvolta, inaspettata, sarò persino una specie di pace». La stessa riservata nel nuovo romanzo alla Terra intera, guadagnata con il martirio dal Santo Padre. Attorno alla storia di Heinrich F. Pflanzenwelt si gioca l’impossibilità heisenberghiana di vedere nello stesso istante-luogo un padre e il figlio: entrambe le vite si nutrono della rovina dell’altra. E l’indispensabile illusione che non sia sempre così, traduce questo romanzo in una strenua confessione al padre che non c’è. Il primo buco nero appare lì, dove inizia il figlio e finisce il padre, un muro che è illusione di superarlo. Materia e antimateria a quanto pare non possono coesistere; il pozzo oscuro e rivelatore in cui il Pontefice s’immerge, ha perciò il compito e il potere, così come i buchi neri, di trascendere i concetti di materia e antimateria. Liberi dalla catena delle generazioni, dalla finitezza dei sentimenti, potremo commettere soltanto pace.
Nero celeste s’inserisce in quell’Interzona dell’omonima collana curata da Orazio Labbate e pubblicata da Polidoro. Un luogo destinato all’immaginazione più scapestrata e privo di autobiografismo, salvo non si tratti di una propria maledizione trasmutata in fato planetario. Ogni ipotesi diventa qui presentimento, come nella grande narrativa d’anticipazione in cui Nero Celeste occuperà un posto notevole:
«Cos’è un padre, se non antimateria?».
È nato a Milano nel 1959. Giornalista culturale e professionista in campo fotografico, ha pubblicato Scazzi (Mondadori), scritto insieme al figlio, i saggi Photo Generation (Gallucci) e L’ultima foto, un dialogo con Enrico Ratto (Seipersei), i romanzi Sospensione (Centauria) e Come un mattino texano (Polidoro Editore), il saggio biografico Ballardland (Italo Svevo – Biblioteca di letteratura inutile) oltre a racconti su «Nazione Indiana» e «minima&moralia».
