Dio a me ha dato la collina è il racconto della trasfigurazione di una donna senza nome in balia di paure e angosce, inadatta al coraggio e svuotata di ogni fervore. Percepisce le colline del Morianese come la sua prigione, un luogo incantato ammantato da un’aura grottesca, riflesso del tormento e dell’annientamento di sé. La perdita del lavoro e la costrizione in casa dovuti a una denuncia per molestie amplificano la solitudine generata dal perseguire un’illusione. Figura errante tra i rimpianti di un oscuro passato famigliare, la donna troverà quiete solo grazie all’assistenza a un’anziana sola, Enza. L’imposizione di ripensare alla cura a partire dal compito ottenuto dai servizi sociali la porterà a ridefinire la sua vita attraverso la nuova veste dell’accudimento.

China a lavorare il suo pezzo di terra col secchio in mano, il grembiule sporco e gli stivali di gomma, Enza inizia ad aspettarla ogni giorno. La consegna della busta della spesa diventa un pretesto per portare l’una ad aprire il proprio mondo all’altra, riconoscersi nelle rispettive marginalità. Tra segreti e pulsioni sopite, immagini di morte, sogni spezzati, riflessioni sulla maternità, nel dialogo tra loro prende forma l’indicibile che grava sul vincolo delle relazioni, sulla morsa della dipendenza emotiva dall’altro, sulla condizione condivisa della perenne estraneità a un luogo. L’intera narrazione è strutturata come un lungo monologo rivolto a Enza, vista come una figura cresciuta con la certezza dell’indeterminatezza.

L’instabile è parte della tua preghiera serale alla Madonna (Oh Vergine si fa tardi, tutto si addormenta sulla terra…) che mi reciti a memoria; instabile è anche il tuo modo di sorridere. La schiena piegata, che ti costringe a guardare in basso, ti aiuta a ignorare con calma cosa c’è davanti e sopra. Il tuo sguardo può abbracciare due metri, non spaziare altrove.

Sarà l’anziana a ricordare a quella donna disperata che quella collina è un dono di cui prendersi cura e che la solitudine di cui si lamenta è invece il solo mezzo per “vedere i tagli”. Le insegnerà a concepire non più nell’aria e nel volo ma nella terra lo spazio primario per esperire il proprio radicamento e trovare un equilibrio.

Margherita Loy descrive l’improvvisa consapevolezza di chi guarda a un luogo come a uno spazio che accoglieva speranze e illusioni e che oggi restituisce l’immagine della forestiera che dopo anni di gioie, furori e incertezze è costretta a fare i conti con il proprio buio.

Sono una monarca cresciuta all’estero, parlo una lingua sintetica, sconosciuta a questa terra.

Le intermittenze emotive definiscono la brama di distruzione che domina chi ha la sensazione di non avere più nulla da amare e da desiderare e che trova nella furiosa ricerca di un mezzo per sfinire il corpo un sollievo provvisorio e vano dalla fatica di vivere.

L’indagine sull’attesa prende la forma di una pena da scontare, di un gesto di perdono, di un ritorno che deforma il tempo e costringe chi osserva a soffermarsi solo sul presente. Un esercizio di disciplina del corpo, un allenamento alla pazienza per domare l’inquietudine e la paura, per provare a controllare un assillo descritto come un gatto che rimane zitto e nascosto in casa pronto a riprendere il suo giro affamato.

L’allestimento naturale riflette i grovigli interiori della protagonista, sopraffatta dal ricordo di una famiglia smembrata, dai riferimenti incerti, dalla disperata ricerca di una libertà dal senso di oppressione. Le immagini della collina durante il temporale tra le querce piegate, la pioggia storta e il vento colpevole, annunciano l’impossibilità di una reale redenzione. Proprio grazie alla terra prenderà forma un graduale avvicinamento alla natura mistica di quel luogo, al modo di dare un senso al proprio vivere attraverso la fede, come accade a Enza per concepire su di sé non l’origine ma “il frutto, il visibile che si offre”.

Loy traccia l’evoluzione di un’angoscia di vivere alimentata da uno strazio sordo. È l’aspetto centrale anche nei romanzi Una storia ungherese e La dinastia dei dolori, Atlantide, dominati dal racconto di un’esigenza di libertà per contrastare l’ineluttabile. L’indagine sul peso della memoria e sul significato del perdono nell’intera produzione letteraria riconosce nello scenario famigliare lo spazio dove la colpa e il castigo amplificano i drammi stratificati nel tempo.

Con una prosa capace di rendere particolari realistici custodi di interrogativi sul trauma e sul desiderio, l’autrice rivela in Dio a me ha dato la collina la necessità di usare lo scenario selvatico per illuminare il dramma. Amplificare quel che accade in un bosco dietro un’ingannevole quiete permette a quell’intrico di simboli di fare da contrappunto alle miserie umane. L’opera traccia l’estraneità vissuta da chi prende consapevolezza di non identificarsi nell’ambiente circostante, noto e al contempo perennemente estraneo. L’allestimento del paesaggio naturale riflette le inquietudini e definisce la memoria sensibile del corpo che trova un corrispettivo nella terra offesa e vendicata dal cielo, nel tempo notturno di colori e ombre, gufi, volpi e civette. Nel definire tale smarrimento, la protagonista si chiede cosa possa nascondersi dietro al sollievo della privazione, dietro alla perdita dei propri figli e del proprio marito, in quel dialogo scandito dal succedersi delle stagioni che assume la forma della necessità di un cammino senza più la smania di arrivare.

Mai mi sono sentita tanto simile ai cani, alla loro indifferenza per il nome dei giorni, alla loro ignoranza su qualcosa di diverso dalla luce, dal buio, dalla fame, dagli odori, dal freddo, dal caldo, dal silenzio, dai rumori.

L’ambiente riproduce un’oscura paura di vivere e al contempo apre all’inatteso, permette la scoperta, la vertigine per la bellezza di un giardino tra fischi, ronzii di calabroni, violini delle api e vespe, versi di cornacchie come raganelle. Il costante rimando musicale accompagna e definisce una narrazione strutturata come uno spartito, tra innumerevoli Crescendo, Pianissimo, Solenne, Ostinato, Precipitato.

La prosa densa di rimandi rende dettagli minimi portatori di significati assoluti, definitivi, per ricollocare i ricordi, vestire il passato “di accettabile e pacifico” e riordinare per la prima volta un’esistenza tormentata. Così, un myosotis definisce la promessa e l’euforia utopica di una giovinezza irraggiungibile e, al contempo, incarna il rimpianto, un pelo di processionaria marca l’irrevocabilità di un abbandono, condanna l’urgenza clandestina di fusione nell’altro. Scorci impressionisti prendono forma sulla pagina, con le immagini di una donna che al freddo in vestaglia e stivali osserva l’orto brinato, le cime di rapa inselvatichite, interrogandosi in silenzio sulla vacuità del vivere, sul tempo traboccante, sui mondi evanescenti, sulla natura inverosimile di una famiglia.

Nel disperato e vano tentativo di salvarsi, come il polpo osservato al mercato che cerca di scappare per poi essere riacciuffato e buttato nel secchio, la donna indagata da Loy è imprigionata nelle proprie macerie, vittima di un’ossessione nata dal desiderio carnale e mutata nella necessità di imprimere concretezza a una relazione vuota che la precipita in una spietata carnefice. Le storie crudeli evocate con Enza diventano il mezzo per riconoscere l’affanno della protezione di chi si ama che induce alla refrattarietà alla vita, per scandagliare un male che “si inabissa ma non sparisce” e riconoscere infine un candore residuo in sé che annulla l’impazienza.

Di fronte a rivolgimenti che “hanno lasciato angoli in cui il tempo ha continuato ad accumularsi, con il recinto delle abitudini non abbattuto dalla furia”, l’opera esplora il significato di un esperimento di lentezza: la prima forma di libertà per espropriare l’inadeguatezza del vivere. Con Dio a me ha dato la collina Margherita Loy consegna un trattato sulla mutevolezza della perdita, sulla radice propria dei sopravvissuti alla vita divenuti apolidi.

 

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Autore

a.pisu@minima.it

Alice Pisu, nata nel 1983, laureata in Lettere all'Università di Sassari, si è specializzata in Giornalismo e cultura editoriale a Parma dove vive. Collabora per diverse testate di approfondimento, tra cui L’Indice dei libri del mese, minima&moralia, il Tascabile. Libraia indipendente, fa parte della redazione del magazine letterario The FLR -The Florentine Literary Review.

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