“Tutto iniziò in una grande notte in cui la colonna sfilava sulla strada dritta, senza armi, senza cavalli, senza cartucce, oppressa meno dalla disfatta che da un enigma terribile, da una realtà ormai incomprensibile”.
Le prime pagine di Berger, il soldato fedele (trad. René Corona) di Alexandre Vialatte immortalano un vuoto inestinguibile. Pubblicato originariamente nel 1942 per Gallimard, il romanzo arriva per la prima volta ai lettori italiani grazie al prezioso lavoro di riscoperta di di Prehistorica editore iniziato con l’uscita di Battling il tenebroso (2020) e delle Cronache dalla montagna (2022).
Noto per aver fatto scoprire Kafka ai lettori francesi, Vialatte si confronterà anche con le opere di Nietzsche, Goethe, von Hoffmannsthal, Mann, Brecht subendone influenze riconoscibili anche nella dimensione creativa e nella definizione di una personale idea di letteratura. Che si tratti di frammenti in prosa, cronache o romanzi, ad accomunare l’eterogenea produzione narrativa di Vialatte è l’acuta critica sociale attraverso istantanee che definiscono una società incapace di scorgere nell’immaginazione una via per il cambiamento.
Berger, il soldato fedele è l’esito di un esperimento compiuto a partire da un oscuro e irrisolvibile dramma generato dall’esperienza diretta della guerra vissuta dall’autore. Fatto prigioniero dei tedeschi in Alsazia nel giugno del 1940, vive una condizione alienante, allucinata. La sopraffazione fisica e interiore degenerano in un crollo psicologico e nel ricovero in un ospedale psichiatrico, con un tentativo di suicidio. La scrittura diventa il tentativo di dare una forma tangibile alla matrice tragica che corrode il pensiero e l’azione prima di precipitare nel delirio.
Il romanzo segue i tortuosi percorsi mentali del brigadiere Berger, dallo stordimento per la prigionia ai tentativi di esularsi dal presente aggrappandosi al ricordo, nel penoso pensiero della moglie e delle figlie lontane. Tra miraggi generati dallo strazio del corpo e dal peso della solitudine, il filo della ricerca impossibile di un amico e del suo segreto producono un tenue sussulto vitale. Il riferimento alla fedeltà richiamato dal titolo è tra gli aspetti maggiormente caratterizzanti: pur essendo consapevole di ricoprire un grado umile, l’uomo si sente privilegiato per il fatto stesso di appartenere a quell’esercito, “non avrebbe scambiato né il suo posto da prigioniero, né la sua sorte di vinto, né nulla delle proprie miserie, con il grado di generalissimo dell’esercito più trionfante, né con la propria dignità”.
A cadenzare le evoluzioni interiori del protagonista sono le strofe della ballata del poeta e drammaturgo Paul Claudel che anticipano ognuno dei quattro atti in cui è suddiviso il romanzo. La straordinaria affinità lirica con il tono della narrazione illumina il tormento interiore di chi sente su di sé il peso dell’irrealizzabilità del ritorno richiamata anche dalla scelta dell’opera in copertina. In vedetta di Giovanni Fattori del 1872, nota anche come Il muro bianco, traduce per immagini l’estraneità al noto narrata nel romanzo che nel dipinto è resa attraverso la desolazione in uno spazio infinito e abbacinante che circonda i soggetti militari.
Vialatte indaga una follia che simboleggia il solo riparo possibile dalla bestialità del presente, nel tentativo di preservare una salvifica idea di passato. Scruta sé stesso attraverso la trasfigurazione assunta da chi smarrisce la propria identità nell’assenza di riferimenti spaziali e temporali. Lo sguardo dell’autore si posa lieve sul dramma oscuro di Berger per raccontare il proprio, mentre lo osserva perdersi a inseguire spettri e rivivere incubi ricorrenti.
La prosa di Vialatte definisce con una sottile ironia la matrice tragica dell’individuo oppresso dalla fatica di vivere. Con apparente distacco tratteggia lo straniamento del reduce che, nel perdere il contatto con la realtà, si appiglia vanamente a una memoria che si scopre insidiosa. A connaturare tale abbaglio perenne è l’allestimento dello scenario urbano, con epicentri nervosi che esasperano l’ambiguità del vero e celano la natura ridicola dell’essere umano schiacciato da “un destino che era un enigma”, nella sua inutile ricerca di certezze per riconoscere il senso della propria esistenza.
“Il sole bruciava. Una vespa che ronzava nell’ombra si posò sopra il nickel di uno dei tavolini. Un signore in bombetta e tight che portava una cartella complicata circondata da una cinghia e chiusa da una fibbia di rame, attraversò una via lastricata dove il sole sembrava ancor più implacabile che sulla piazza.
Mai Berger aveva provato così violentemente un’impressione di calore, di vuoto, di vertigine e di disperazione”.
Un altro spazio che traduce i tormenti del protagonista appartiene al sogno, in un groviglio indissolubile di incubo e veglia da cui emergono paure remote che sovrappongono il suo volto a quello di un peluche rigido e leggero con gli occhi di bottoni e il berretto da tranviere e abitano incoerenti pensieri notturni di chiavi da consegnare e fantasmi da ritrovare. Tale dimensione favorisce in Vialatte l’esplorazione di riflessioni esistenziali sulla condizione del sopravvissuto attraverso il cortocircuito generato da entusiasmi fugaci e furori improvvisi.
Si chiese cosa fosse quella vita che, di volta in volta, faceva sfilare davanti ai suoi occhi città, mari, deserti, caserme, montagne, fiumi, film, soldati, cortili di prigione, tartarughe, ghigliottine, ospedali, strade, chiese, aerei, scuole, uomini che vanno e vengono, volti che passano, gente che muore…
L’opera si rivela un manifesto politico sulla crudeltà della guerra attraverso la descrizione dei suoi esiti su una vittima come tante, che avanza nell’esistenza con una fatica irrisolvibile. Un’indagine sulla salute mentale di chi viene fagocitato in un sistema che non riesce a comprendere e ad affrontare, e finisce per logorarsi nelle paure generate dall’incertezza. È il racconto di una sofferenza tale da indurre alla morte o alla pazzia, reso per immagini che richiamano l’incanto tetro dell’osservazione infinita del soffitto di una camera d’ospedale o la crudeltà del dubbio che riduce ogni speranza a un’illusione e annienta ogni slancio.
Mi credono folle, pensò Berger. Però non posso dirgli che quando la verità diventa folle è più normale ubbidire alla consegna stravagante di un fantasma che a certi eventi illogici.
Tutto ruota attorno alla mancanza di azione, di esperienza, che induce a una malinconia indefinita, alla nostalgia, a una cocente estraneità al reale. Tale condizione cadenza l’incedere narrativo nel ricalcare i percorsi interiori del ricordo tra innumerevoli immagini ingannevoli e rumori che nella solitudine prendono il sopravvento sulla ragione.
Di fronte a un senso di incertezza che pervade ogni cosa, l’infanzia appare come l’unica età felice, la sola stagione non corrotta e, per questo, continuamente ispezionata dal protagonista/autore con visioni che prendono forma sulla pagina. La prosa rende dettagli minimi come una lampada a petrolio portatori di significati assoluti, compie ingrandimenti sul protagonista bambino che in casa si esercita in matematica nel contare le pecore perse dal pastore in compagnia dei fratelli dalle dita macchiate d’inchiostro, che litigano accanto a lui sul tappeto rosso del tavolo “contro gli stessi figli, contro gli stessi padri e contro le stesse pecore”.
Più che nell’evolversi delle vicende, risiede nell’attestazione di impotenza il perno attorno cui si sviluppa il racconto di un’inestinguibile malinconia che forza l’uomo a privarsi di ogni desiderio e di ogni piacere, esito di un’impossibilità anche di accettare il presente, resa per esasperazioni e visioni assurde. In tale prospettiva assume un senso più ampio la concezione del travestimento burlesco dei personaggi che Vialatte fa sfilare sulla pagina con un sottile uso del comico reso per metafore e profonde simbologie. La maschera esalta la contraffazione provocata dall’incoerenza della condizione imposta dalla guerra, si mostra dirompente nel raccontare la fragilità umana orribilmente derisa nel “sinistro carnevale” consumato in fondo a una cantina.
L’apice del tragicomico nell’opera è reso nell’impresa del suicidio che il protagonista tenta ripetutamente di attuare prima con un chiodo arrugginito, poi con una lampadina per tagliarsi le vene.
Quel soldato in camicione sopra un letto, in fondo a una cantina, il braccio teso per cogliere, come una pera in cima alla volta ogivale, lo strumento del suo ultimo supplizio, quella parodia di statua sullo zoccolo vacillante di quel letto che come un’ancora che non trova un appiglio giusto, dolcemente, scivola via, gli sembrava di un grottesco amaro che avrebbe rischiato di scoraggiarlo se vi si fosse soffermato con il pensiero. Ma gli restavano cinque minuti da vivere; era un contrappeso tragico, ben sufficientemente solenne.
La cura riservata al linguaggio, la cesellatura della parola esatta, onesta, gli accenti lirici improvvisi, rendono l’opera un poetico e intenso trattato sulla perdita, una dolorosa e liberatoria ispezione dello squilibrio attraverso intermittenze emotive e costanti emersioni e immersioni negli abissi insondabili della psiche.
Con Berger, il soldato fedele, Alexandre Vialatte contempla la vertigine del sopravvissuto per ricercare in tale smarrimento la radice del proprio, in un romanzo che esalta il frammento come misura per tracciare un personale disordine interiore e invitare chi legge a riconoscere nell’irregolare e nell’incongruo il senso di un disfacimento che nasce da una storia privata per farsi voce collettiva.
Alice Pisu, nata nel 1983, laureata in Lettere all’Università di Sassari, si è specializzata in Giornalismo e cultura editoriale a Parma dove vive. Collabora per diverse testate di approfondimento, tra cui L’Indice dei libri del mese, minima&moralia, il Tascabile. Libraia indipendente, fa parte della redazione del magazine letterario The FLR -The Florentine Literary Review.
