In quella piccola bibbia sulla storia e l’importanza del sentire che è Ascoltare il rumore. La riscoperta dell’analogico nell’era della musica digitale (2019, SUR), Damon Krukowski sostiene che gli studi di registrazione abbiano raggiunto il loro apice in termini di qualità nel 1965 mentre Gordon Moore contemplava i suoi circuiti integrati come fossero una sfera di cristallo. Ed è esattamente dal 1965 che inizia la ricerca portata avanti da Francesco Brusco nel suo ultimo libro La voce del padrone. Suoni e racconti dagli studi di registrazione (2022, Jaca Book) andando a intercettare i poliedrici e numerosi sviluppi che arrivano fino al 1985, in un arco cronologico né troppo breve né troppo lungo per poterne afferrare l’essenza in una lettura di 170 pagine. Sempre piacevolissime.

Se il libro di Krukowski, oltre a sviluppare una forte critica al capitalismo mascherata da meditazione sulla tecnologia di riproduzione, permetteva al lettore un tuffo nella teoria critica del crepitio del vinile, il saggio di Brusco amplifica quel contesto partendo dallo strato più profondo dell’intera struttura offrendo lo sguardo e la voce degli abitanti di quel luogo tanto magico quanto ancora sconosciuto (soprattutto al pubblico italiano): lo studio di registrazione. Di cui ci regala una storia sociale che si è evoluta seguendo ora le nuove tecnologie ore i nuovi linguaggi musicali, oltre che i contesti storici, economici e culturali. Così le testimonianze inedite di musicisti, produttori, tecnici del suono e assistenti, protagonisti per troppo tempo rimasti dietro le quinte, si fanno viva memoria dell’evoluzione dei modi e degli approcci di produrre, ideare, mixare, ripercorrendo assieme ai “registi” un lungo capitolo della storia discografica italiana.

Muovendosi sull’asse Roma-Milano, pur partendo dalla Napoli che per prima scopre i grammofoni di Edison e Berliner grazie agli investimenti di un certo Raffaele Esposito, appassionato di opera lirica, e fondatore della prima vera etichetta discografica italiana (la Società Fonografica Napoletana che diventerà in breve tempo la Phonotype Records), il viaggio compiuto da Francesco Brusco unisce gli spazi fisici rimasti segreti per decenni ai giovani ragazzi che li hanno popolati, rendendoli cattedrali del suono, fortini della sperimentazione, castelli in cui avviare piccole e grandi rivoluzioni musicali. E anche quell’iniziale bipolarismo delle due capitali all’avanguardia, si fletterà sempre più, disegnando una mappa dalle latitudini assolutamente più ampie.

Brusco, con la cura dell’appassionato e il distacco scientifico del critico, disegna una luce calda e affascinante sull’epopea che ha segnato lo sviluppo delle tecniche di registrazione, su quelle macchine fredde e metalliche manipolate da uomini che ancora indossavano il camice bianco. Macchine che solo col tempo abbiamo imparato a conoscere, a interpretare, sviluppando con esse un rapporto simbiotico ed emotivo. Anche grazie a questa rivoluzione nell’assetto della realtà live, lo studio da elemento di sfondo è potuto assurgere al ruolo comprimario di strumento musicale, ritagliandosi un ruolo fondamentale lontano dai palchi dei concerti.

La trama quasi documentaristica che vive fra le intercapedini delle numerose interviste curate dall’autore permette al lettore di prendere parte a chiacchierate preziose e rivelatrici: Mauro Pagani, Alessandro Colombini, Vince Tempera, Alberto Radius, Ellade Bandini, Pino Presti, Massimo Spinosa, Paolo Donnarumma, Pietro Pellegrini sono solo alcuni dei nomi che scrivono la storia del libro e la storia di uno spazio sacro, un tempio con la propria liturgia dedicata alla creatività, al rischio, alla scommessa.

La sacralità dello studio di registrazione appare elemento chimerico in questi anni digitali e liquidi di musica immateriale, prodotta nelle camerette, avulsa da una narrazione che preveda riunioni, contrattazioni sul suono da adottare e infiniti incontri al bar (come sottolinea brillantemente Brusco, dalle botteghe del caffè dell’Illuminismo al bancone dei più moderni bar, quel luogo diviene epicentro di aggregazione sociale e creatività, quasi un centro casting per musicisti e turnisti). Impossibile pensare a un confronto con l’attualità. Fonici, ingegneri del suono, turnisti, produttori, umanità che si cela non solo dietro il disco ma ci vive dentro, e ne conosce in maniera chirurgica i dati tecnici, i dettagli delle macchine utilizzate, i microfoni migliori, l’aria che si respira durante le prime take, i litigi avvenuti davanti al banco di missaggio per una conclusione che appare elementare: molto spesso il dietro le quinte racconta storie più interessanti e incredibili del palcoscenico.

Ed è quel mondo che Brusco racconta con passione e sguardo curioso, mai cadendo nella banale glorificazione di chi ha lavorato con i grandi. Quel lavoro, che è fatto da idee e competenze, intuizioni e capacità tecniche, ed è da quel lavoro che dipende in gran parte il sentire bene (o meno) il disco in cuffia, è da quella manopola o da quell’ampli che ci è permesso emozionarci durante l’ascolto.

Come sottolineato brillantemente nella prefazione curata da Franco Fabbri, il nostro Paese è sempre parso disinteressato a una vera e propria disamina, storica e sociale, dell’evoluzione e dell’impatto degli studi di registrazione, intesi come mondo e strumenti musicali autonomi. Ma il merito di Francesco Brusco non si può ridurre unicamente ad aver fatto una scelta necessaria: è importante rilevare il modo in cui questa rivoluzione dei suoni, dei costumi, delle architetture artistiche viene narrata alternando dettagliatissime fotografie storico-sociali all’inizio di ogni capitolo alle memorie e ai racconti che prendono vita direttamente dalle parole di quei protagonisti, abitanti di un universo che ogni amante del suono, dell’oggetto disco, che ogni appassionato di vinili dovrebbe ringraziare con devozione. Sono quantificabili le possibilità offerte dal nastro magnetico? Quanti sogni si nascondono nei solchi dei vinili? Possibile che il primo registratore a otto piste nel 1967 sia di un cineteatro parrocchiale a Rogoredo? La paga sindacale di 45 mila lire per un turno di tre ore dovrebbe farci interrogare sulla situazione attuale? I diritti di esecuzione dei turnisti esistono ancora? Chi era il produttore, e chi è oggi? Cosa fare con l’EMD150 che sembrava un calorifero con le manette?

Sono solo una minima parte degli interrogativi che nascono durante (e dopo) la lettura de La voce del padrone, lasciando così al lettore non solo il piacere di un avventuroso pellegrinaggio nei luoghi del suono ma anche il bisogno di riallineare le carte in tavola, pensando agli errori e alle mancanze di una società minimamente improntata alla cultura musicale, al suo sviluppo, alla sua ricerca.

La voce del padrone offre quindi anche la possibilità di poter tornare a parlare di rivoluzione digitale e riscoperta dell’analogico, senza per forza doversi posizionare a favore dell’uno o dell’altro, preferendo analizzare – come fa Brusco nella parte finale del saggio – le varie implicazioni del passaggio dall’analogico al digitale, e dunque del nostro modo di organizzare e sistematizzare la percezione dei suoni. Prima che la registrazione digitale e i sistemi di produzione a basso costo cambiassero radicalmente la filiera produttiva dei fonogrammi, possiamo realizzare che solo pochi nani siano voluti salire sulle spalle dei giganti. E rattrista pensare alle splendide realtà di cui l’Italia ha potuto godere, di cui la musica italiana (in particolar modo la popular music) ha potuto approfittare per scrivere un nuovo modo di intendere il prodotto finale.

Immerso in un mondo composto da nastri magnetici, frequenze magiche e manopole rivelatrici, La voce del padrone è costellato da aneddoti preziosi, dialoghi improvvisati, sorrisi e sorprendenti rivelazioni: la sensazione di leggere restando con la bocca aperta e gli occhi spalancati non è un’immagine del tutto irreale. Proprio perché i ricchissimi interventi che Brusco dissemina nelle pagine del suo saggio permettono una lettura trasversale affidando agli esperti l’analisi al microscopio di scelte che possiamo sentire dopo decenni e al contempo sottolineando la centralità della presenza umana in mezzo a tutte quelle macchine, in uno spazio fisico incandescente e in continua metamorfosi. È interessante l’approfondimento dedicato al mitico Stone Castle Studio di Carimate, da cui sono passati De Andrè, Dalla, Daniele, Sorrenti, Alice e persino gli Yes. Così come appassionano le bizzarre faide fra case discografiche, in un momento storico in cui le major stanno lasciando sempre più spazio alle etichette indipendenti. Racconti dettagliati, intrisi di onestà, umorismo, pieni di colori e profumi, come quelli fatti dal discografico Alessandro Colombini che si interroga più volte sul ruolo del produttore concludendo con una delle più belle definizioni mai lette, “è il guardiano delle emozioni” restituendo anche allo stesso studio un valore relazione all’interno del quale l’intero team può arrivare a sostituirsi al pubblico, donando a quel perimetro sacro la stessa emozionalità di un ascoltatore live.

Dall’esecuzione alla riproduzione, è questo l’incantesimo che accade all’interno dello studio e lungo queste pagine. Che si susseguono fra digressioni tecniche, conseguenze sull’estetica e sull’evoluzione dei generi e dei linguaggi, momenti di crisi e di massimo splendore delle etichette discografiche, ripercorrendo sempre le tracce di fonici e ingegneri, che sempre più rappresentano il punto in cui la musica e la tecnologia moderna si incontrano, l’anello di congiunzione tra la macchina e l’artista.

La voce del padrone racconta, come nessuna aveva mai fatto prima, la storia di uno spazio che si è fatto tempo, tonalità, e poesia, esplodendo ed implodendo su se stesso, lasciato privo di una memoria condivisa e partecipata. La stessa memoria di cui le pagine di Francesco Brusco desiderano farsi preziosa staffetta. Con una sola condizione, come consiglia in una battuta Alessandro Colombini, “nelle sale di registrazione deve esserci felicità”.

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Autore

beatricepagni@minimaetmoralia.it

Beatrice Pagni è nata e cresciuta nella campagna toscana, figlia della miglior provincia cronica. Redattrice di minimaetmoralia, ha scritto e continua a scrivere di musica e cultura per diverse testate (Sentireascoltare, Il Mucchio Selvaggio, Il Foglio Letterario), oltre ad aver esplorato il mondo della web tv con l'esperienza targata Decamerette.

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