di Stefano Bottero

“E ancora oso amare / il suono della luce di un’ora morta, / il colore del tempo su un muro abbandonato”. Questa è la terza delle quattro epigrafi di Santi Subito, nuovo libro di Antonio Veneziani, in uscita per l’editore milanese FVE. Sono versi di Alejandra Pizarnik, che colgono con precisione ossessiva, quasi ingombrante,  il significato più osceno dell’atto d’amore: quello delle ore liturgiche – coesistenza con la morte. 

In Santi subito,  il poeta anela il simbolo. È un termine da intendersi, qui, nel più piano senso possibile. Nel senso labirintico dell’unione, del nesso che reca insieme i margini di due stagioni diverse, che porta alla risonanza le tensioni. Veneziani si addentra infatti nelle ragioni dell’icona, del Quadrato Nero di Malevič, del presentare l’altro come Assoluto senza mediazioni, permanente – come carattere mobile. Rinuncia alla luce elettrica, adotta la “luce di un’ora morta” per vestire i suoi santi: persone di cui il corpo è corpo, ma corpo unito a Dio. I “muri abbandonati”, per Veneziani, sono pagine: carte sparse su una scrivania corrosa in rovina, sui cui comporre preghiere. 

San Michel Basquiat protettore di ombre, di garofanini bianchi e viandanti affranti (per amore), di muri abbattuti e diamanti muti, di tossicodipendenti e resistenti, di dissidenti e di nullatenenti, di chi assume ormoni e di istrioni, ma soprattutto di chi non riesce ad incontrarsi neanche nello specchio, senza distrarsi almeno un po’, già nel Duecento San Basquiat è un Dogon che vive nella regione del Bandiagara (Mali) e il Verbo, vista la sua rettitudine e la sua bontà, lo mette a capo della “Casa delle Parole”.

Veneziani vive a Sezze, in collina. Giorni fa l’ho raggiunto con Sacha Piersanti. Lo abbiamo trovato illuminato, commosso dalla santa luce del pranzo di un bar di provincia. Il modo in cui ci ha guardati, i ritagli di giornale con cui ha avvolto delle copie in dono, sembrano adesso un’immagine non tanto diversa da quelle che contengono le pagine del suo Santi subito. Perché, in definitiva, di questo si tratta: di un libro di immagini, a cui la sacralità dell’imprimatur ha imposto il debito del simbolo, della parola-sinolo. Che le sue non siano pagine, ma muri abbandonati come santini votivi dopo la festa. Così, al termine delle pagine scritte, il libro si compone empiricamente di santini. 

Diviso in quattro capitoli – quattro, come le epigrafi – Santi subito presenta le vite immaginarie di una costellazione votiva privata. Ogni capitolo è chiuso da una supplica in versi: a San Carlo Coccioli, a San Copi, a San Dario Bellezza, amato più di tutti, e a San Pier Paolo Pasolini. In questa estetica paradossale, gli sguardi dei protettori indugiano sulle ferite degli uomini – scrive: [San Raul Damonte] “fa’ sparire la stupidità, la cattiveria, la gelosia, / e soprattutto, ti supplichiamo, fa’ sparire il dolore, / fallo sparire almeno in alcune ore”. I suoi santi guardano ai mali interiorizzati, quei mali a cui sono stati dati nome e cognomi, date di inizio e fine, codici fiscali. Non per redimere, non per mondare: non c’è catarsi ad aspettare chi scrive. Solo la lucida consapevolezza del desiderio di fine – quella stessa che significherebbe ricongiungersi con il nome a cui il libro è dedicato. “A Gabriele”, Gabriele Galloni, “che sa, / l’amico Antonio / che vorrebbe sapere già”. 

Tu, Santo Ginsberg che hai operato miracoli in tutto il globo terrestre e sei stella mattutina come Marlowe, Kabir, Whitman, Wilde, Bellezza, Penna, l’amico Burroughs; aiuta i tuoi devoti, dal cuore infranto, dal culo rotto, dal cazzo stanco, a non tradire mai la gioia anche se minima, aiutali ad asciugare le lacrime dal cielo con mani lievi, ma sicure; insegna loro a posare il corpo, senza fretta, su pance che avvicinano alle favole, a farsi imprigionare dalla libertà di un battito di ciglia.

Prosa, poesia e immagine santa prendono geometricamente posto in questo libro d’ore, ordinate da una ratio stilistica primariamente lirica – quella del Veneziani di sempre, che già in Brown Sugar (1978) attraversava il sacro senza più la speranza delle elevazioni possibili: “Non c’è più nulla qui / che mi sia caro. Nulla / che mi trattenga ancora. / Al tramonto disperderò / la mia agenda”. 

Prima digressione: la stessa Brown Sugar, raccolta tra le più significative della poesia italiana degli anni Settanta, è stata di recente ripubblicata da Hacca Edizioni, in un’edizione fortemente voluta da Giorgio Ghiotti. Lo stesso poeta che, primo tra i ringraziati alla fine di Santi subito, ha contribuito con affetto e attenzione critica a questo nuovo lavoro di Veneziani. A questo ringraziamento ci si unisce, qui, per due ragioni. La prima è che Santi subito è un libro di valore, di quelli che impattano nel frangente della comunità letteraria con la tipicità di ciò che manca, che occorre, a una generazione di giovani. La stessa di cui fa parte Ghiotti, che interpreta e dà corpo a questa necessità. La seconda ragione è che i versi di Veneziani sembrano immotivatamente trascurati, oggi, spesso. Seconda digressione: lui stesso ride di questo, a pranzo, ricordando quanto ha bruciato di sé stesso, per quanto tempo. 

O angelo prosperoso e ridente, o santa Marilyn, generosa apostola del disagio, o casto fiore cresciuto fra la sozzura che arriva fino alla finestra più alta, o vergine divina; martire degli psicofarmaci e delle droghe dei potenti, aiutaci a cogliere i brevi attimi di pace.

Il tempo del simbolo è breve. Istantaneo. Pretendere altro sarebbe valicare il confine di una confidenza inopportuna. Il Padre nostro non ammette versi dopo l’Amen – nello stesso modo, Veneziani conclude. Chiede all’ultimo dei suoi santi, Pasolini – con cui visitò Sezze per la prima volta – di poter “riscrivere […] la vita e l’amore”. Non richiudersi nel ritiro, non rinunciare al resto, ma riscrivere, usare parole nuove, stavolta definitive. Non è diverso dal poeta Abba Konver, in questo, negli anni nascosti sotto le vesti di una suora per sfuggire allo scempio della persecuzione nazista. Gli anni che precedono la lotta partigiana – in cui votarsi ai santi, tenersi lontani dal disastro, in una brevissima attesa senza limiti.

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