Nessuno potrebbe riconoscerla tra il pubblico assiepato ad assistere al processo per l’omicidio del reverendo Willie Maxwell. È il 26 settembre 1977 quando la corte si riunisce per giudicare Robert Burns per aver causato la morte di un uomo che per anni aveva seminato il terrore ad Alexander City, nel cuore dell’Alabama, per la misteriosa serie di morti sospette su cui aveva stipulato polizze valse migliaia di dollari. Durante il funerale dell’ennesima vittima in circostanze sospette – la figliastra sedicenne di Maxwell, Shirley Ann Ellington –, tre colpi alla testa freddano il reverendo in chiesa, davanti a trecento persone.
Sono passati diciott’anni dall’uscita de Il buio oltre la siepe. Le notizie dall’Alabama su quel caso di cronaca giudiziaria innescano in Harper Lee la determinazione ad approfondire la vicenda tornando nella sua Monroeville per seguire da vicino il processo, assistere alle udienze e raccogliere testimonianze utili per la stesura del suo nuovo libro, dopo un lungo silenzio.
Una storia pressoché sconosciuta quella che la giornalista Casey Cep affronta con Ore disperate edito da minimum fax con la traduzione di Sara Bilotti e inserito tra i bestsellers del New York Times. Un’indagine puntuale che affronta temi quali un’idea alternativa di giustizia, il peso delle discriminazioni e dei pregiudizi razziali anche in ambito economico, il retaggio della superstizione e il disequilibrio sociale, condotta attraverso studi archivistici, rapporti ufficiali, documenti, memorie, articoli e saggi storici e antropologici.
Cep usa sapientemente gli strumenti del giornalismo d’inchiesta per rivelare gli aspetti di una vicenda emblematica delle realtà in atto nell’America degli anni Settanta. Sceglie di dare un taglio documentale a un’opera rigorosamente suddivisa, ancor prima che seguendo l’evoluzione cronologica degli eventi, individuando le ragioni di un luogo, i sentimenti delle storie narrate, i volti e il contesto sociale e politico, le contraddizioni insite in contesti ancora dominati da profonde disparità, e offrire al contempo un delicato e autentico ritratto di un’intellettuale estranea a qualunque etichetta come Harper Lee e che sarebbe rimasta per quasi cinquant’anni in silenzio facendo parlare la sua opera per lei.
Quel che è accaduto nella sua vita è reso da Cep anzitutto attraverso il suo modo ossessivo e doloroso di vivere la scrittura. Una difficoltà ad affrontare il successo – gli eventi mondani e letterari costantemente elusi, le numerose lettere a cui avrebbe cercato di rispondere più per dovere che per riconoscenza – che avrebbe ben presto rivelato una natura schiva, lontana dal clamore anzitutto per un’esigenza di solitudine, poi sfociata in un’intolleranza crescente per il mondo intorno e culminata anche nella dipendenza dall’alcool.
Sarà quel caso giudiziario a riportarla di nuovo in Alabama e a innescare in lei l’ardore e la determinazione a dare forma a una nuova opera dal forte potenziale. Si tratta di una vicenda multiforme e delicata, dove le ragioni dell’omicida paiono tacitamente condivise da un’intera comunità terrorizzata da quella figura descritta come capace di far sparire, senza mai lasciare prove, due mogli, un fratello, un vicino di casa, un nipote e una figliastra, e guadagnare nel giro di sette anni somme esorbitanti senza subire conseguenze legali.
Aspetti ben presto cavalcati dall’avvocato Tom Radney, liberale e sostenitore di Kennedy, che dal curare gli interessi del reverendo Maxwell, alla sua morte sarebbe passato in poche settimane a preoccuparsi di quelli del suo omicida per descriverlo come un eroe, in privato e in pubblico, e scompaginare le carte del processo.
Al tessuto dell’opera a cui Lee avrebbe lavorato da lì a molti anni manca un centro e rivela l’indecisione sul modo di trattare una vicenda tortuosa con un presunto serial killer nero che però è al contempo vittima, con un ambizioso avvocato bianco dal tormentato passato politico, tra reati mascherati da frodi ma dalle sembianze di omicidi e l’ombra delle pratiche vudù per giustificarli agli occhi di una piccola comunità di un Sud segnato da profonde tensioni razziali. Se da un lato scegliere come protagonista l’avvocato Radney avrebbe permesso di affrontare il livello di influenza della razza nel sistema politico e giudiziario americano, di contro Lee era consapevole che la vicenda non avrebbe rappresentato la metafora ideale per analizzare tali questioni.
La visione distorta della giustizia dominava già Il buio oltre la siepe, nel modo di narrare la capacità di condizionamento di un gruppo e nel descrivere la prerogativa delle forze dell’ordine di muoversi secondo personali interessi. Aspetti non secondari per chi ha sempre ritenuto riduttiva e inesatta la definizione data a Il buio oltre la siepe come di una storia sul razzismo, considerandolo invece un romanzo incentrato sulla “coscienza dell’uomo, universale perché poteva essere la storia di chiunque, e poteva accadere ovunque ci fosse convivenza tra gli uomini”.
Quell’opera tradotta in tutto il mondo, insignita del premio Pulitzer nel maggio 1961, e che sarebbe diventata un film con Gregory Peck l’anno successivo con otto nomination all’Oscar, è l’esito di un percorso di scrittura tortuoso, anticipato negli anni precedenti dalla redazione di Va’, metti una sentinella consegnato nel 1957 dopo alcuni rifiuti, e dalla stesura di The Long Goodbye incorporando alcuni racconti precedenti. Dopo alcuni anni di revisioni e radicali cambiamenti strutturali, politici ed estetici che vedono il rigoroso indirizzo marcato da Tay Hohoff, a decretare la modifica decisiva sarà la scelta di adottare un io narrante ancorato all’infanzia con una notevole riduzione dell’arco temporale rispetto alle precedenti versioni. Come evidenzia Cep, con uno sguardo ristretto alla giovane Scout, “Lee poteva permettere che Atticus restasse un esempio morale, l’avvocato che difende un uomo di colore innocente dalla follia razzista. Per sua figlia, Atticus era un uomo in anticipo sui tempi, ma in Va’, metti una sentinella i tempi non solo lo raggiungono: lo sorpassano. Nel Buio oltre la siepe, invece, resta un eroe per sempre”.
L’intento di raffigurare la complessità della questione razziale in un Sud in cui “la maggior parte dei bianchi dell’Alabama non avrebbe mai partecipato a un linciaggio ma si dimostrava contrario all’integrazione”, ha generato notevoli incomprensioni legate ad Harper Lee. Significativo il rifiuto di Esquire a Dress Rehearsal, storia commissionatale e poi rifiutata per “impossibilità assiomatica”, perché presentava segregazionisti bianchi che provavano riprovazione per il KKK. “Secondo questa visione – avrebbe poi commentato Lee – nove decimi del Sud sono un’impossibilità assiomatica”.
Forse sarà proprio tale aspetto, il peso del pregiudizio e la sua influenza nel sistema giudiziario, ad apparire determinante per affrontare il caso del reverendo e renderlo un romanzo lontano da forme di sensazionalismo e di speculazione psicologica cavalcate da Truman Capote, Norman Mailer, Gay Talese o Joan Didior.
In quale direzione stava andando Harper Lee? Per tentare di capirlo Cep ne ricostruisce l’infanzia, l’amicizia con Truman Capote – “Siamo accomunati dallo stesso tormento”, avrebbe detto a proposito del loro legame – i pomeriggi nella casa sull’albero dei rosari ad ascoltare le storie lette dal fratello di lei e quelle che poi avrebbero iniziato a scrivere a loro volta.
“Anche quando la vita non era noiosa, difficilmente era davvero esaltante. Monroeville era il tipo di città in cui se tua sorella faceva la torta di venerdì, la notizia sarebbe apparsa sul giornale per l’intrattenimento fornito, e se la festa per l’ottavo compleanno della tua amica includeva punch e premi, meritava un titolo su cinque colonne”.
Travalicando la pura adesione al biografico, Cep narra e interpreta il contesto famigliare segnato dal disagio interiore della madre; la relazione con il padre; una devozione con accenti di delusione nei confronti del suo Sud; gli studi e l’abbandono a poche settimane dalla laurea; l’incapacità di sentirsi a proprio agio con i coetanei; la costante ricerca della solitudine; l’indifferenza nei confronti del proprio aspetto e la mancanza di ritegno nel colorare continuamente di epiteti il suo linguaggio.
La donna che per anni, nel lasciare Monroeville per New York, aveva vissuto in umili dimore, e che in quell’appartamento al 1539 di York Avenue non aveva l’acqua calda né una stufa per scaldare i cibi e usava come scrivania una porta recuperata dal seminterrato poggiata su alcune cassette di mele, avrebbe continuato a portare avanti un’esistenza appartata anche una volta raggiunto il successo. La fama e la ricchezza l’avrebbero tenuta lontana dai clamori, consumando nel silenzio tra speranze e sconforto le sue angosce oscure, di cui la scrittura sarebbe stata il principale mezzo e causa al contempo. Diventerà ben presto intollerante a quell’“industria Harper Lee” dominata dalle deformazioni generate dalla fama. Come confiderà a un amico: “Se fossi stata una persona sensata, avrei fatto come J.D. Salinger”, avvertendo che “puoi trascorrere il resto della tua vita semplicemente pranzando, bevendo cocktail e cenando con persone che devono assolutamente conoscerti”.
Cep restituisce l’immagine di una donna consumata dai tormenti, alla perenne ricerca della solitudine ma in grado di generare una particolare empatia nel prossimo, preda di un’insoddisfazione inesorabile e di una sofferenza non condivisa acuita dalle devastanti perdite vissute negli anni. Coglie l’urgenza di Harper Lee di addentrarsi in una vicenda giudiziaria clamorosa che le avrebbe potuto dare l’occasione di liberarsi da quel doloroso blocco, unita all’opportunità di realizzare un’opera dal modello simile a quello su cui aveva lavorato anni prima con Truman Capote durante il viaggio in Kansas per il caso dell’omicidio della famiglia Clutter. Capote aveva chiesto a Lee di accompagnarlo per aiutarlo nel compiere le ricerche, raccogliere testimonianze e reperire il materiale utile. Al di là delle polemiche legate alla veridicità degli aspetti narrati – rivendicati dall’autore come pura cronaca in un “romanzo di non fiction” ma contestati da più parti per le numerose incongruenze in merito all’aderenza ai fatti e alle sostanziali modifiche – l’opera che ne sarebbe derivata, A sangue freddo, avrebbe sancito l’apice della sua notorietà.
L’immane lavoro compiuto da Harper Lee si sarebbe rivelato fondamentale ma non adeguatamente riconosciuto. In quelle centinaia di pagine suddivise per categorie quali: città, paesaggio, crimine, vittime, sopravvissuti, interviste, processo, aveva inconsciamente dato forma a “un libro in attesa di essere scritto”, quello che forse ha sentito di poter comporre ad Alexander City con la vicenda del temibile reverendo.
Ma è andando alle radici del significato della scrittura per Harper Lee, quell’”esorcismo non necessariamente rivolto al proprio demone, ma alla divina insoddisfazione” come avrebbe dichiarato al critico Roy Newquist, che Casey Cep riannoda i fili e scorge proprio tra le numerose lettere scritte negli anni un vero e proprio inventario intellettuale, uno spazio in cui dare puro sfogo a opinioni, angosce personali e analizzare criticamente il suo tempo.
“Sebbene le fosse capitato di trovarsi in difficoltà con la stesura dei suoi libri, nelle lettere scriveva con l’orecchio di Eudora Welty, l’occhio di Walker Evans, la precisione di John Donne, l’arguzia di Dorothy Parker e, spesso, la prolissità di George Eliot”.
Ore disperate attribuisce una forma letteraria alla fragilità di un paese segnato dalle disuguaglianze sociali, dalla violenza e dalle deviazioni generate dalla convivenza con il progresso, i confronti e i dibattiti sui diritti civili, la questione della razza. La capacità di oltrepassare gli aspetti prettamente documentali rivela l’intento di andare alla radice delle insinuazioni, delle paure, della cultura e delle superstizioni per indagarne gli aspetti emblematici. Una narrazione bifronte, che da un lato analizza con taglio socio-politico una comunità, e dall’altro accosta la prospettiva storica alla dimensione privata di una scrittrice che pare inadatta a convivere col suo tempo, interpretandone la visione attraverso il filtro dello sguardo contemporaneo.
Una dura riflessione sulla storia americana che parte da quella dell’Alabama di Harper Lee per scandagliare i decenni che avrebbero trasformato una terra marcandone l’identità, e offrire un ritratto onesto e autentico di una scrittrice inafferrabile su cui per decenni si continuò a produrre informazioni distorte mai condivise dall’autrice e dalla sua famiglia.
Con una prosa che rivela un’inedita vivacità e un preciso intreccio di piani temporali, Casey Cep traccia coordinate di lettura fondamentali per interpretare una delle voci letterarie di maggior rilievo del Novecento che oggi risuona finalmente con toni nuovi, perché identificata anzitutto a partire dalla sua determinazione nel rivendicare strenuamente una personale idea di libertà vestendo una forma di innocenza per continuare a interrogarsi, anche attraverso le pagine a lei più care di William Blake, sull’“agghiacciante simmetria” del suo presente.
Alice Pisu, nata nel 1983, laureata in Lettere all’Università di Sassari, si è specializzata in Giornalismo e cultura editoriale a Parma dove vive. Collabora per diverse testate di approfondimento, tra cui L’Indice dei libri del mese, minima&moralia, il Tascabile. Libraia indipendente, fa parte della redazione del magazine letterario The FLR -The Florentine Literary Review.
