Cos’è questa guerra nel cuore della natura? Perché la natura compete con se stessa, la terra si contende il mare? C’è un potere vendicatore in natura? Non un potere, ma due.
(Terrence Malick, La sottile linea rossa)

C’è un momento preciso in cui Perché la guerra? di Frédéric Gros (nottetempo edizioni, per la traduzione di Raffaele Alberto Ventura) coincide con la lezione che W. G. Sebald impartì con la sua Storia naturale della distruzione. E cioè quando il filosofo francese si riferisce alla guerra, e in particolare misura ai fenomeni bellici contemporanei, come a un ‘meccanismo’.

Alla base di un conflitto armato quindi non vi sarebbe alcuna traccia di scelta, bensì uno schema irreversibile che si ripete ogni volta evolvendosi, ogni volta mostrando una mutazione nuova. Per questo la guerra intesa in senso moderno si è espansa in una tassonomia che, con qualche affanno, tenta di coprire la declinazione ennesima della contemporaneità. Guerra binaria, guerra globale, guerra di caotizzazione, sono solo alcune delle categorie elaborate da Frédéric Gros per meglio definire le ‘nostre’ guerre, per coglierne gli aspetti peculiari. Ma quello che resta come fattore comune è, appunto, il loro meccanismo, ovvero – semplificando – quella che parrebbe essere la loro ineluttabilità. Una sensazione nutrita non solo dalla compiacenza di buona parte dei media (che molto spesso fanno riferimento alla guerra con la distanza asettica di chi vorrebbe livellarne gli aspetti terrifici), ma dall’organizzazione stessa del nostro sistema produttivo, dalla sua spina dorsale, in ultimo dalla sua vocazione.

È qui che lo spettro di Sebald principia a vagare tra le righe di Gros. L’inevitabilità della distruzione – sintomo per eccellenza del fenomeno bellico – era stata presto sintetizzata dallo scrittore tedesco con un’immagine industriale, quasi uno scenario. Fabbriche e operai d’Europa e d’America intenti ad assemblare, accumulandolo, uno specifico prodotto: armi. Bombe da carico, per la precisione, le stesse che l’esercito statunitense avrebbe rilasciato a migliaia su Dresda, Amburgo, e altre centoventinove città tedesche. Un manufatto intorno al quale esisteva un indotto, un intero ecosistema, e che per questo doveva essere – necessariamente – inserito in un processo di consumo, perché se ne determinasse una nuova produzione, alla pari di qualsiasi altro bene. Il ‘meccanismo’ di Sebald insisteva esattamente su questo ‘banale’ assunto: la funzione naturale di corazzate volanti e bombe incendiarie non poteva essere altra se non quella di devastare, tenendo in moto quel processo di parificazione del nulla su cui prosperano le economie di guerra. Insomma, produrre, consumare, distruggere, ricostruire e ancora produrre. Una consapevolezza dolentissima sulla china intrapresa dal genere umano nel suo recente sviluppo.

Se sovrapponessimo la disamina di Frédéric Gros, raccolta così com’è nel tentativo di discernere le guerre odierne, a quella di Sebald, con i suo risvolti antropologici e le sue conclusioni storiche, ricaveremmo un perimetro nuovo per riflettere sul nostro imminente futuro, per schiarire anche solo una delle sue infinite ombre. Il filosofo francese, dal canto suo, fa procedere la sua analisi a partire dal ‘feticcio’ di Hiroshima, hic sunt leones delle guerre a venire, l’illusione di un ‘mai più’ che ha generato invece un equilibrio basato su una costante, gelida minaccia tra le potenze mondiali in contrasto. Da quella radicale distruzione, epifania di un paventato annientamento globale, la guerra non ha mai cessato di essere. Si è mostrata con sembianze talvolta irriconoscibili, ha cambiato connotati per meglio superare la resistenza civile, è di nuovo penetrata nel discorso politico, in modo sempre più insistente, fino a diventare la nostra quotidianità esplicita. In sintesi: la guerra è rimasta ben lontana dal diventare un tabù.

E se tutto, appunto, fosse invano? Se il ‘meccanismo’ avesse funzionato tanto da condurci al punto in cui ci ritroviamo? Se tutto quello che caratterizza la società capitalista, ovvero la paralisi circolare, il degrado umano e urbano, la violenta reazione all’evoluzione culturale, al cambiamento non funzionale al potere, fossero i dentelli di quell’ingranaggio che a un certo punto del suo circuito prevede un intervallo più o meno lungo di distruzione?

Chi ci potrà tenere lontani dal fronte perenne del mondo? Gros fa riferimento, tra gli altri, a due pilastri della possibilità di una pace globale. Da una parte Spinoza, con la sua idea che la guerra sia per costituzione antidemocratica; dall’altra Kant, con la sua celebre dimostrazione che la guerra è sempre tirannica. Per entrambi la pace è un fenomeno naturale, e di conseguenza la guerra è invece difetto di naturalezza, una forma di mancanza, o di non adesione da parte del genere umano alla propria pulsione primaria, che è quella di sopravvivere attraverso la comunità, non attraverso la sopraffazione reciproca. Abbandonare l’idea che lo scontro mortale tra Stati sia un fenomeno ineluttabile è il primo passo verso il superamento della contemporaneità, intesa proprio nella sua sclerosi bellica. Se la guerra non è veramente un atto necessario al benessere collettivo – ed empiricamente non lo è -, tutto quello che l’alimenta, il ‘meccanismo’ di cui dicevamo, non avrà più motore.

 

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Autore

danilososcia@mininmaetmoralia.it

Danilo Soscia (1979) scrive per quotidiani, siti e riviste letterarie. Ha pubblicato Atlante delle meraviglie (2018) e Gli dei notturni (2020) entrambi per l'editore minimum fax.

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