di Mirko Alagna
Il nome di Lorenzo Valla è legato a doppio filo a una delle più sconcertanti operazioni di smascheramento della modernità europea – forse si potrebbe calcare la mano: una delle operazioni che contribuì al sorgere dell’epoca che si vuole nuova. Correva l’anno 1440 quando scrisse (e prudentemente non pubblicò) l’orazione in cui dimostrava la falsità della Donazione di Costantino – documento fondativo e base di legittimità giuridica del potere temporale della Chiesa. Esplosivo il contenuto, corrosivo il metodo. Fu il primo a catalizzare subito l’attenzione generale – e come poteva essere altrimenti? Quando l’orazione fu pubblicata divenne arma della Riforma, prova inconfutabile sia dell’illegittimità del farsi mondo, potere e amministrazione da parte della Chiesa di Roma, sia della cupidigia e dell’arroganza di chi non esitava a ingannare e imbrogliare pur di accumulare forza e potere. Fu il secondo però, il metodo della dimostrazione, a rivelarsi nel tempo eccezionalmente bruciante, e pericolosamente incontrollabile: Valla aveva sminuzzato il testo con un’acribia filologica senza precedenti, e in questo modo aveva scovato barbarismi e anacronismi; la lettera del testo ne rivelava finalmente lo spirito autentico: la volontà di costruire un falso. Presupposto logico di questa mossa metodologica è un particolare tipo di approccio al testo scritto: lucido, combattivo, attento, minuzioso; definirlo dissacrante è quasi eufemistico: l’eventuale aura di sacralità che aleggia su un particolare testo viene squalificata più ancora che distrutta, neutralizzata dal principio più ancora che demolita alla fine. Valla intravede il bersaglio grosso, ma decide di scansarlo: ciononostante da ora in poi è il Testo Sacro per eccellenza a entrare fatalmente nel mirino.
Jan Assmann, egittologo di chiara e meritata fama, torna con il suo ultimo libro a fare il punto, con teutonica precisione, sull’Esodo come testo e sull’esodo come mitologema, come paradigma interpretativo, svelando di entrambi struttura, funzioni, evoluzioni e commistioni. Esodo. La Rivoluzione del mondo antico, appena pubblicato in italiano per Adelphi, è un’opera ricchissima e affascinante, in cui il rigore della ricostruzione storica e filologica – peraltro: già di per sé degnissima – si intreccia a riflessioni più astratte su mito, monoteismo della fedeltà, sovranità – sia detto in inciso, per appassionati dei generi, teorico e musicale: i primi due excursus, dedicati a Schönberg uno e Händel l’altro, sono autentici pezzi di bravura (già che ci siamo: A. Illuminati, Il filosofo all’opera, manifestolibri 1999 – anche lui si concentra sullo stesso Schönberg). La tripartizione esplicita dell’opera (Principi generali, L’Esodo, Il patto) è impeccabile, ma da un certo punto di vista – va da sé: il mio – potrebbe essere rivista con assemblaggio diverso: l’Esodo di Assmann si triplica; non viene sezionato in tre parti, piuttosto diventa un problema uno e trino (sic), lo stesso oggetto affrontato da tre angolature: il libro dell’Esodo, il contenuto dell’Esodo, la tecnica dell’Esodo (o meglio: l’Esodo come tecnica). Il libro dell’Esodo è geologico, è il precipitato compatto di un accumulo di materiale che «dev’essere durato secoli» (p. 71) e che ha drenato e prosciugato le sue stesse fonti d’ispirazione e i generi letterari che lo affiancavano, rendendo estremamente complicata la comparazione e il confronto; ciò che ora si staglia come masso isolato dev’essere stato parte di una catena montuosa più ampia e ora scomparsa. Assmann non si tira indietro e mobilita tutte le sue competenze sull’Antico Egitto per sostenere, rintuzzare, precisare un intero florilegio di tesi che sostengono, con gradazioni e ampiezze diverse, la sostanziale derivazione del racconto dell’Esodo da precedenti miti egizi; sostiene, rintuzza e precisa: una volta sgomberato il campo da indifendibili riduzionismi, segue però il trasformarsi, l’ibridarsi, il capovolgersi e il trasmettersi di singoli nuclei tematici e di precisi stilemi. L’impressione, da lettore profano in tutti i campi, è che il masso-Esodo di sicuro non era isolato, ma altrettanto certamente è sempre stato eccentrico, straordinario.
Ricostruirne il contesto di gestazione e genesi non significa dissolverlo in quel contesto, e farne evaporare di conseguenza la singolarità e la novità; al contrario: anche i prestiti e i travestimenti subiscono un radicale mutamento di significato una volta accasati e integrati nell’Esodo: più che sopravvivenze del passato sono materiali di seconda mano utilizzati per la costruzione dell’inedito. In realtà, però, Assmann dice anche qualcosa in più: l’Esodo as we know it non è solo il punto di confluenza di diversi rivoli precedenti, ma anche (e forse soprattutto) il concretarsi e insieme il contenersi di una particolare linea armonica che certo attraversa, come «basso continuo» (p. 98), l’intera Bibbia, ma la attraversa affiancandosi e sovrapponendosi ad altri spartiti, in una polifonia che non è affatto priva di tensioni e asperità – anzi. La storia del libro dell’Esodo diventa anche storia sociale, politica e concettuale: il Dio dell’Esodo – geloso e antiegizio, battagliero e popolare (nel doppio senso: si rivolge a un popolo e lo fa con richieste “popolari” di equità e giustizia) – non collima perfettamente con la precedente versione di sé – il Dio della Genesi: universale e unico, bendisposto verso l’Egitto e indifferente alla questione sociale. Queste due “correnti” da un lato sono obbligate a convivere e quindi a farsi reciproche concessioni, dall’altro continuano a stridere e quindi si scontrano, brandite come arma da gruppi sociali diversi, e si alternano: ogni volta che è necessario rifondare e compattare il popolo d’Israele, ad esempio, ecco che l’Esodo acquista centralità. La polifonia non perfettamente armonica del Pentateuco è proprio ciò che lo rende continuamente germinale, che ne impedisce l’invecchiamento; per quanto cristallizzato in un canone, il magma mitico rimane incandescente e quindi disponibile.
Troppe cose si dovrebbero dire riguardo il contenuto dell’Esodo; segnalo solo due delle principali rotture individuate da Assmann, strappi che segnano un punto di non ritorno nella storia della civiltà: in primo luogo l’Einmaligkeit della Rivelazione divina, la sua unicità – cacofonico (oltre che scorretto) ma più adeguato: la sua una-voltità. La Rivelazione dell’Esodo è unica, si distanzia da quella smania comunicativa delle divinità di religioni precedenti – che intervengono, parlano, rettificano, in una forma di rivelazione permanente in cui ogni messaggio divino è importante e nessuno è fondamentale. Il Dio di Mosè parla una volta sola, e lo fa nella forma di un patto di mutua fedeltà (p. 30). Quel patto è valido da allora: va ricordato (e rispettato), non aggiornato e ricontrattato. In secondo luogo sorge qui, all’ombra del Sinai, il monoteismo della fedeltà. Questo monoteismo non calca il terreno scivoloso e in fondo davvero oppressivo della verità: il Dio del Sinai non è il «Creatore del Cielo e della Terra, al cui fianco non ci sono altri dèi, nel nome dei quali si potrebbe rinnegare YHWH», un «Creatore [a cui] non si può essere infedeli, perché è impossibile spezzare il legame della propria natura creaturale» (pp. 98-99). È piuttosto il Liberatore dall’Egitto, che chiede fedeltà proprio perché è possibile il tradimento, «mette in conto l’esistenza di altri dèi – perché che senso avrebbe la fedeltà se non ci fossero concorrenti nel nome dei quali essere infedeli a YHWH?» (p. 98). Se il punto teologico è chiaro – e radicale: il Dio dell’Esodo riconosce il pari status di altri dèi, e proprio per questo li odia – ancora più profondo è l’aspetto lato sensu teorico di questo spostamento: l’imposizione della Legge pone anche la libertà. Alla verità non si sfugge, al massimo non la si vede brancolando in stato di minorità, ma lei continua a dominare, sovrana; alla Legge proposta e imposta si può invece trasgredire in piena autonomia e consapevolezza, da adulti – e si è puniti proprio perché viene riconosciuta tale autonomia, consapevolezza, maturità. Il popolo d’Israele potrà sempre scegliere se essere servo d’Egitto – e di qualsiasi cosa sarà l’“Egitto” – o servo di Dio, e quindi autenticamente libero, non è solo creatura più o meno riconoscente ma inevitabilmente legata al Suo creatore: «le leggi non sono vere o false, bensì impegnative e vincolanti» (p. 99). L’irancondia del Dio di Mosè non solo svela il suo coinvolgimento nei destini d’Israele – un coinvolgimento che è già anche vulnerabilità, diverso dal sovrano distacco del dio dei filosofi – ma testimonia il suo riconoscimento d’Israele, e il suo amore: si accusa di tradimento chi può tradire, e può tradire volendolo consapevolmente, scegliendolo liberamente.
Terza cosa, la tecnica dell’Esodo o l’Esodo come tecnica. «Siamo ciò che ricordiamo: il ricordo è incorniciato, curato e delimitato dall’identità che vive in questi ricordi ed è da essi sorretta. I racconti che sorreggono un “noi” e sono incorniciati, curati e delimitati da un “noi”, li chiamiamo miti. I miti sono figure collettive del ricordo, lieux de mémoire narrativi, “loci” di una cultura del ricordo» (pp. 89-90). In termini non troppo distanti da quelli di Assmann – anche lui cita Sloterdijk e ne riprende l’espressione «colpo di genio etnogenetico» (p. 194) – ciò che qui viene circoscritto è la forza autoplastica di miti, ricordi, narrazioni: “noi” siamo quelli che ricordano le stesse cose, che si raccontano le stesse cose, che riconoscono gli stessi personaggi – ma soprattutto viceversa: continuare a ricordare e raccontare le stesse cose è tecnica di creazione di un qualunque “noi”. L’Esodo spicca da un lato per novità, dall’altro per perfezione tecnica. Da un lato cioè, segnala Assmann, è il primo popolo che non si pensa universale – gli altri non sono barbari o subumani, ma popoli non eletti – e che si coagula attorno a un Patto e a una Legge (periferizzando abitudini, lingua, territorio, riti): la Torah come patria portatile. È il secondo aspetto però che voglio sottolineare: «il racconto dell’Esodo […] ruota intorno all’atto istitutivo della memoria; tale istituzione non solo dispiega ciò che va conservato nel ricordo, ma fin da subito pone anche i fondamenti delle mnemotecniche culturali che dovranno ancorare per sempre quel ricordo alla sua cornice rituale, solenne, quotidiana, privata e pubblica» (p. 102).
L’Esodo, il libro dell’Esodo, è un inno alla memoria autoplastica, creatrice di collettivi: non è solo il racconto di ciò che deve essere ricordato – di più: intima di ricordare e si gonfia di tecniche mnemoniche per ricordare ciò che deve essere ricordato. Il succedersi delle piaghe, l’ordinarsi dei comandamenti, l’istituzione di riti del ricordo (Pesach) e la saturazione di quei riti con mosse, gesti, domande da ripetere ogni anno (Haggadah di Pesach): sono tutte tecniche che consentono il fissarsi nella memoria di ciò che non deve essere dimenticato. Assmann ripercorre tutta l’Haggadah di Pesach, e persino il profano di cui sopra ne percepisce la forza e la geometrica potenza: ogni gesto è preciso, ogni frase prevede una risposta, ogni bambino deve fare quella domanda in quel momento ricevendo quella risposta, e avanti così. L’Esodo emerge quindi come archetipo inimitabile di tecniche mnemoniche finalizzate all’assemblaggio di collettivi. Lo ripeto: scrive ciò che deve essere ricordato, prescrive di ricordarlo, squaderna un’intera panoplia di tecniche per ricordarlo. L’effetto è mirabile: il popolo d’Israele esiste e vive ancora – nonostante diaspore e tragedie e l’inferno del secolo scorso – mentre svaniti nel nulla sono i nomi dei popoli che l’hanno visto nascere, «i Keniti, i Kenizziti, i Kadmoniti, gli Hittiti, i Perizziti, i Refaim, gli Amorrei, i Cananei, i Gergesei, gli Evei e i Gebusei» (Gn 15, 19-21). E persino i potenti oppressori di allora, gli Egizi, sono ora argomento da museo.
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