
Che oggi qui sopra il mio quaderno ci sia il sole è un fatto. La riga chiaro scura cade vicino alla penna, segna un di qua e un di là e gli occhi si stringono per resistere all’abbaglio. Avvicino il naso al tavolo: odore di legno cotto, il riflesso scalda l’aria tra il ripiano e le labbra. Colori, contrasti. Le mie percezioni lo confermano, nel luogo in cui mi trovo ora c’è l’estate, io sono in relazione con questa luce e con questo sole, con il pavimento sul quale appoggio i piedi, pavimento che mi sosterrà, senza dubbio. Io ci credo, non sprofonderò, non adesso. Quando mi alzerò dalla sedia mi troverò sempre nello stesso corpo sano di cinque minuti fa. Aprirò la porta, uscirò dalla stanza, le persone che incontrerò non mi faranno del male.
Supponiamo che vada in questo modo o in un altro, poco importa. Può accadere ogni genere di cose. Conta però che io creda di respirare anche tra cinque minuti, anche domani, un piede davanti all’altro senza pensarci, così.
È la fiducia nella realtà che ci permette di sopravvivere senza troppi intoppi. Altrimenti, la follia. Senza questa fede, saremmo esposti all’irruzione dell’incubo, perseguitati dall’“asperità scabrosa – «inemendabile» – del reale”. Costretti a fuggire, braccati senza tregua dall’idea della morte, mai una casa, mai un riparo, ovunque la minaccia dell’attentato, l’incombere del cancro.
Questa è la dimensione terribile in cui si trova il protagonista dell’ultimo romanzo di Alcide Pierantozzi, Lo sbilico (Einaudi), diventato un piccolo caso letterario per l’autenticità con cui tratta una tematica spesso stigmatizzata, ovvero la malattia psichica. Di conseguenza, è anche un libro sulla separazione porosa tra realtà e reale. Indirettamente, come cercherò di dimostrare, un libro sulla letteratura.
Alcide, quarant’anni, scrive. Ha vissuto a Milano, ora ritorna nel suo paese di origine in Abruzzo. Da vent’anni segue una terapia antidepressiva (“paroxetina 40 mg die e benzodiazepine” potenziata con bupropione). Fumo: sì. Tossicodipendenza: sì. Si allena in palestra ogni giorno, la consuetudine lo aiuta contro la dissociazione. Ogni giorno pensa di ammazzarsi. È omosessuale, reso impotente dai farmaci. Ha due genitori vivi, un fratello vivo, un fratello morto da piccolo. La madre è la persona che si prende cura di lui; ha un tumore. Il padre nega la malattia del figlio, al massimo chiede “Allora?”
Il romanzo si compone di episodi, descrizioni e ricordi che insieme formano il ritratto di una condizione dolorosa, trattata con precisione quasi crudele. Non chiede compassione, né offre vie di salvezza. La scrittura non è autoterapia, Alcide sa che non guarirà mai.
Piuttosto, il libro è una sfida ai fantasmi. Scrivere è tastare la vita per controllare se siamo del tutto impazziti o se ancora esiste un aggancio minimo alla realtà. A volte Alcide ottiene una piccola vittoria e “Le parole piú belle, piú strane, riescono a inibire le allucinazioni, diventano immagini che rendono il mondo fantasticato.” Altre volte “Sono le parole a secernere la […] follia.”
Ma se chi scrive è dentro la pazzia, come fare perché il libro non diventi esso stesso un’allucinazione? O una testimonianza pietistica?
David Foster Wallace, riconosciuto da Pierantozzi come uno dei suoi principali riferimenti, ha espresso il disagio con la distanza data dall’intreccio narrativo e dalla cifra ironica. Oppure Sylvia Plath, che ne La campana di vetro si racconta a crisi superata.
La scelta di Pierantozzi è riportare sulla pagina solo ciò che è documentabile. Cartelle cliniche e referti, posologia. Lo stesso narratore dichiara: “voglio essere preciso nel raccontare questa storia, devo solo attenermi al proposito di non inventare niente.”
Ma è davvero sufficiente? Eccoci nel noto paradosso: aderire senza scarti al resoconto di ciò che la malattia produce tradirebbe l’intento di dire cosa davvero sia la malattia. Bisogna tentare un’ambizione maggiore, oltrepassare, dire l’indicibile. Parlando col suo medico – e a noi lettori – Alcide spiega: “Io quella luce la definirei freddolosa, o persa in un cielo piú grande di lei, ma lui penserebbe a una semplice reazione fisiologica dovuta a qualche scompenso chimico.” E così. L’oggettività pura non è sufficiente per la verità, perché trascura il reale, ovvero la materia oscura che pur esiste.
Ancora una volta, la soluzione è la letteratura; quando funziona, parla della verità delle cose senza per forza raccontare la verità dei fatti. Perciò, che il personaggio Alcide corrisponda o meno all’Alcide autore poco importa, e nulla aggiunge, anzi, si sa: più lo scrittore giura di non mentire e più aumenta lo scetticismo del lettore (“In questo libro non ho inventato nulla”, avverte Tiziano Scarpa in La verità e la biro ottenendo, all’opposto, l’effetto di far sospettare l’affabulazione).
Con o senza l’elemento autobiografico la credibilità del romanzo tiene, soprattutto grazie a due aspetti, uno formale e uno di contenuto.
Da un lato il lavoro fatto sulla lingua, come vedremo.
Dall’altro, la scelta di mostrare quanto la malattia mentale riguarda il corpo. Il delirio di Alcide non è evanescente come i vaneggiamenti dell’Io di Beckett. Qui le cellule vere impazziscono. Gli effetti dei farmaci sono nel corpo. L’impotenza è nel corpo. Le allucinazioni sono localizzate nel corpo, così come i tremori, gli spasmi, i tic, la tachicardia, la saliva che diventa melma, il sentirsi “ridotto a puro peso.” In un movimento di andata e ritorno, la psicosi si concretizza in un dolore corporeo e di rimando il corpo alimenta la psicosi: mi guardo allo specchio, sfioro la nuca, sento una sporgenza, forse una ciste, oppure? Il nodulo si allarga, il collo si deforma, lo faccio controllare a mia madre, dice non è niente, ma se fosse? Farsi visitare dall’oncologo, di corsa, vivere nel terrore fino alla conferma che sono sano, che il quadro di realtà è tornato a posto.
L’attenzione alla tangibilità della sofferenza è anche il tentativo di dare consistenza all’allucinazione, rendendo visibile all’esterno ciò che risiede nella parte più oscura della psiche. Costruire un corpo ai pensieri. A tutti i costi, anche appoggiando l’iPhone sul tavolo e facendosi un video mentre arrivano le voci. Vedere, anziché immaginare, aiuterebbe a capire. Convincerebbe il padre (chiamato “Il negazionista”) che la malattia esiste; convincerebbe tutti noi.
In tutto il romanzo la parola è forzata dentro la materia. Non basta menzionare il tumore della madre; Alcide recupera dall’ospedale il vetrino con sopra le cellule cancerose. O ancora, non basta dire la parola “morte”. Bisogna renderla un simbolo. E allora, la scena dello sgozzamento di un coniglio a casa della nonna diventa l’emblema del trauma primario: “Pensavo, mentre aiutavo […] a pulire il lavandino sporco di sangue: anche mio fratello ha rovesciato le pupille all’indietro, e magari ha lo stesso sapore del coniglio. Mi concentravo sull’alloro alle mie spalle per non vomitare.”
Viene in mente il paragone con un altro grande sofferente della letteratura italiana, Vitaliano Trevisan. Thomas, il protagonista della cosiddetta trilogia bernhardiana (Un mondo meraviglioso, I quindicimila passi, Il ponte. Un crollo) soffre di disturbo mentale con accessi maniaco-depressivi: “tenevo dentro l’idea del suicidio, come una specie di riserva, un pensiero in cui, nei momenti più bui, trovavo un po’ di conforto» (Il ponte. Un crollo, VT, Einaudi Torino, 2022).”
Anche in questo caso, come in Pierantozzi, abbiamo un narratore in prima persona che elabora l’incessante ruminare di pensieri, ricordi, immagini affollati nella mente; e anche in Trevisan lo statuto è attenersi al tangibile “tutto ciò che so di me è solo ciò di cui ho le prove; il resto è melanconia” (Works, VT, ebook, Einaudi Torino, 2016).
L’Io è un ostinato osservatore, guarda, guarda tutto, la realtà è ovunque, il personaggio la cerca e ci si aggrappa in tutti i modi. Ad esempio, si impone discipline mentali come contare i passi, ogni giorno, sul tragitto da casa allo studio del notaio; oppure attaccandosi alla scrittura come proposizione di un ragionamento logico: se scrivo sono vivo.
Per Trevisan il reale è amalgamato alla realtà e perciò nascosto, condizione esistenziale inestirpabile riprodotta simbolicamente dallo scempio sul paesaggio veneto, distesa di capannoni e rotatorie, e dalla condizione del proletariato nel Nord-Est.
Ne Lo sbilico, invece, il reale sta sotto alla realtà e la resa letteraria della malattia è proprio l’atto di scoperchiare per rivelarlo. Anche per questo l’Io di Pierantozzi fa ampio uso di sensi impalpabili come olfatto e udito (“i piatti che facevano un guaito di cane sofferente sotto la spugna”) e si spinge in immagini quasi surrealiste (“Quando mi sono avvicinato, mi sono accorto che nell’acqua nuotavano decine di piccole, anfibie Madonnine azzurre.”)
Il puntiglio ossessivo a trovare la parola giusta è la cifra stilistica più evidente, più originale. Pierantozzi compila “lessicari” dove raccoglie “migliaia di parole suddivise per insiemi semantici, costrutti sintattici particolari, sintagmi poetici…”, come “crocifisso affumicato» (da Tartaglia), oppure «fluidofiume» (da Joyce), oppure «diavoleto» (da Cornia).” Questo materiale viene digerito e riproposto in modo inedito in un amalgama ben dosato tra il registro del quotidiano, termini del gergo medico, neologismi (“incielarsi”), combinazioni potenti (“panico rettile”, “dolore caino, a straripo”, “l’assalto del sole mi calcinava gli occhi”).
Dal lavoro sul lessico e sul ritmo della frase Pierantozzi inventa una voce personalissima, che per tentare di dire l’indicibile combina la crudeltà della parola comune alle potenzialità del linguaggio poetico. Il narratore in prima persona cammina dentro e fuori da realtà, incubo, allucinazione, è coinvolto nel delirio, ma altre volte eccede di intelligenza e controllo, altre ancora si contraddice. A tratti l’effetto è a perturbante, come ascoltare un matto che racconta di sé da dopo morto. La scrittura si fa così contenuto e riproduce la sensazione del vedersi impazzire; “Noi matti non siamo mai assenti, al limite impresenti col fisico, perché il nostro non esserci si fa sentire. Io non smetto mai di percepire i due pesi lasciati dalla mia presenza e dalla mia impresenza”.
Questo libro non spiega e non risolve. Non aiuterà a superare la malattia, non servirà a consolare. D’altra parte, alla letteratura non si chiede la realtà, ma la verità. Tuttavia, il romanzo una cosa la fa: risveglia “i normali” dal sonno vigile in cui vivono, l’addormentamento che protegge dall’irruzione del reale.
“Noi matti non abbiamo solo il diritto di essere soccorsi dai sani, ma anche il dovere di inceppare ogni giorno il mondo per metterlo in discussione ai loro occhi”, dichiara ad un certo punto Pierantozzi.
Il lettore prende uno scossone. Lo sbilico è un campanello d’allarme, una vocina che insinua la domanda: cosa c’è dietro al velo della realtà?
Francesca Zanette scrive e fotografa. La zona di confine tra parola e immagine è il territorio su cui indagano alcuni dei suoi progetti, ricerca che ha alimentato una serie di sue mostre recenti. Ha pubblicato racconti su riviste letterarie e in antologie, scrive di fotografia e letteratura su minima&moralia e Doppiozero. È autrice del romanzo 𝐷𝑜𝑣𝑒 𝑞𝑢𝑎𝑙𝑐𝑜𝑠𝑎 𝑚𝑎𝑛𝑐𝑎, ed. Readerforblind, 2022.