C’è una canzone di Grimes che si chiama My Sister Says The Saddest Things, che mi ha sempre affascinato. Ascoltavo Grimes quando avevo 15 anni, ero arrabbiata col mondo, aprivo Tumblr ogni pomeriggio dopo la scuola e custodivo dentro di me un universo complicato.

Non ho una sorella, anche se mi sarebbe piaciuto averla. Ho un fratello maggiore, ma non è la stessa cosa. In questa canzone, Grimes canta con la sua voce che assomiglia ad una preghiera:

“My only friend, this is the end”.

Nel romanzo di esordio di Emanuela Anechoum, Tangerinn, edito da Edizioni e/o, si respira la stessa atmosfera di urgenza. Mina, la protagonista, abita a Londra perché il suo paesino in Sicilia le stava stretto come una maglietta della taglia sbagliata. Aveva bisogno di evadere, scoprirsi. Quello che segue non è una scoperta, almeno non a Londra, dove conduce una vita finta, composta da una continua imitazione dell’altro – la sua coinquilina Liz con un evidente disturbo alimentare e un attitude woke molto performante, primo esempio e da discorsi vuoti. Mina non si piace, e vorrebbe assomigliare a delle persone che reputa giuste, perfette, pur sapendo che ciò che desidera realmente è sentirsi a suo agio in quel corpo lì, con quella mente, quella storia alle spalle.

Il padre di Mina muore all’inizio del libro, lo scopriamo subito insieme a lei, ed è insieme a lei che torniamo in Sicilia dalla famiglia per affrontare questo lutto. Una famiglia rotta, fragile, ma anche una famiglia normale. C’è la mamma, che Mina chiama semplicemente col suo nome, Berta: perennemente triste, si isola dal mondo esterno, rifiutandosi di vivere e di essere una mamma. Mi ha fatto tenerezza, non l’ho mai odiata. La colonna portante della famiglia sembra essere Aisha, la sorella di Mina, che lei vede come un’altra figura da usare per paragonarsi, e non come una fedele alleata. Ma si scopriranno più unite di quello che pensano, anche nei momenti in cui una spingerà via l’altra.

C’è tanto amore in questo romanzo, Anechoum lo descrive con gesti e immagini piccole ma precise: la nonna severa che preparava le polpette di melanzane per tutti quando Berta non si alzava dal letto, i ricordi del padre Omar che le insegna a giocare a ramino, Nazim, un uomo che accetta Mina senza pensarci. I luoghi di questo libro sono limpidi, puoi sentire la sabbia sul palmo della mano, il profumo del mare, quello delle pietanze che vengono cucinate, si sente tutto.

Mi sono ritrovata a comprendere Mina in diversi istanti. La capivo quando diceva di non volersi lasciare amare, la capivo quando cercava di piacere per forza agli altri, la capivo quando voleva scappare, la capivo quando diceva di non sapere chi fosse.

Un elemento ben rappresentato, è quello dell’identità e di ciò che essa rappresenta per noi.

Mina è circondata da ragazze bianche, ricche che credono di avere delle idee estremamente radicali e giuste – bisogna sempre stare “nel giusto” secondo loro – sfoggiate alle cene e alle feste e ai ritiri nella natura come fossero accessori. Desiderano sentirsi nel giusto talmente tanto, che si tengono Mina come amica, con il suo colore della pelle diverso e le sue origini arabe e i capelli scuri e folti, così da riuscire a sentirsi meglio con loro stesse. Mina è il loro manifesto, uno dei tanti. Poco importa come si sente lei, o chi sia davvero. Il suo scopo è un altro.

Mi sono sentita spesso fuori posto. Oserei dire che mi ci sento da quando sono nata. Vengo da Roma, ho vissuto in diverse città e paesini in giro per l’Italia, mia madre è bianca, mio padre è nero, è nato nella Repubblica Democratica del Congo e io non ci sono mai stata; un pesce fuor d’acqua. Ero un pesce fuor d’acqua a scuola, quasi sempre l’unica ragazza di colore della classe, e una delle poche dell’intero istituto. Sono un pesce fuor d’acqua al bar, al lavoro, in discoteca.

Il razzismo lampante e quello sottile, ti perseguitano in mille modi prima ancora che tu sappia parlare. Sono dei colpi così forti, che ti fanno credere di essere effettivamente sbagliata; e allora ti odi un po’ anche tu, ti tieni i ricci legati ogni giorno, provi a seguire le ultime tendenze per avere un aspetto uguale agli altri, cerchi di stare in silenzio quando vorresti parlare perché sai cosa succede quando parli. Ti senti invisibile. Come Mina. Come si sentono molti figli di immigrati, di persone che hanno cambiato la propria vita da un giorno all’altro, figli di tradizioni che non conosciamo o che ignoriamo, figli della speranza, dell’ignoto.

“Iniziavo a ricordarmi chi ero prima di partire e a scoprire dolorosamente che non c’era niente di speciale nel mio dolore: ero stata un’adolescente spezzata, e un’adolescente spezzata non si aggiusta mai”.

Il romanzo è colmo di sapori, ricordi, suoni, corpi che riportano a galla elementi ben definiti nella mia memoria. La musica congolese che rimbomba nel petto alle feste di famiglia, dove i bambini piccoli si addormentano sulle sedie alle quattro di notte mentre i grandi continuano a ballare. Il riso di zia, che mia mamma provava a riproporci quando tornavamo a casa ma che non le veniva mai allo stesso modo. I parenti che conoscono il mio nome, ma io non conosco il loro – perché siamo tanti, troppi. La canzone Solola Bien di Werrasson, che cantavo con mio fratello nella macchina di mio padre. Le donne bellissime, che sia a un matrimonio, a un compleanno o a un funerale. Gli uomini con i vestiti – e le scarpe – sgargianti. Io che alla scuola materna dicevo ai miei compagni che mangiavo le chenilles ovvero i bruchi, e che erano buoni come le patatine fritte.

Insieme a questa bellezza, c’era il disagio. Se cresci in ambienti in cui le persone ti fanno sentire sbagliata per il modo in cui sei, in cui appari, finisci per odiarti più di quanto ti odino loro.

Mi sentivo sbagliata, ma mi sentivo anche speciale. C’era un velo di privilegio nel mio essere mixed race, mi rendeva interessante e bella e una bambola. Mi toccavano i capelli con stupore come fossi un animale imbalsamato, mi guardavano affascinati quando dicevo che mia madre è bianca. Mi chiedevano sempre “di dove sei?” perché la mia risposta “italiana” non gli bastava. Provavano invidia perché ero bilingue e conoscevo il francese, poi gli dicevo che non lo conosco così bene come dovrei perché mio padre non lo parlava mai in casa, e perdo qualche punto. È tutto un gioco che non diverte, un sali e scendi. A volte gli piaci, ma mai abbastanza.

Mina non riesce ad accettarsi, non accetta la sua vita e sembra aver trovato il suo posto felice a Londra, ma capisce presto di star mentendo a sé stessa. Ed è tornando a casa, facendo i conti con il proprio bagaglio emotivo, e quello della famiglia, che si rende conto di quale sia la scelta più autentica per lei in quel momento.

A 24 anni ho scoperto di avere il disturbo borderline. Non so mai che parole usare quando devo metterci vicino una parola forte come “disturbo”. Se dico “ne soffro” mi sembra di esagerare, di cercare la pietà, una carezza, uno schiaffo. Mi fa soffrire molto, ma non voglio comunque accostarci quella parola. “Avere” un disturbo suona vagamente meglio per un paio di secondi: diciamo ho un cane, quindi dico ho un disturbo borderline. Un qualcosa che vive con me, che mi porto appresso, che non segue sempre le mie regole. Un cane almeno ti ama. Per fortuna ho entrambi, il cane si chiama Romeo.

Quando ho letto e sentito tutti i sintomi, ho finalmente capito perché a vent’anni bevevo senza pensare alle conseguenze. Ho capito perché uscivo così tanto, non stavo mai a casa, ero depressa, euforica, la persona più divertente e triste della stanza. Ho associato ogni sintomo alle esperienze che ho vissuto, e ogni tassello del puzzle era al posto giusto. Se stai bene, non ti ubriachi tutte le settimane, non vai in macchina con degli sconosciuti più sbronzi di te, non spendi tutti i tuoi soldi in pochi giorni, non fai sesso con gente che non ti piace nemmeno, non ti annienti o distruggi pur di sentire un brivido. Non ti tagli i polsi, non pensi in modo dettagliato a come morire, non odi e ami una persona con la stessa intensità nel giro di poche ore. Non provi a piacere a tutti i costi, diventando la persona che l’interlocutore desidera in quel momento. Se stai bene, sai chi sei. Conosci i tuoi limiti, li rispetti, rispetti te stessa, sai cosa ti piace, cosa non tolleri. Ti conosci. Io mi sono conosciuta veramente a 25 anni.

Mina non ha né un disturbo borderline, né un cane, però prova un forte senso di ansia e malessere, a volte si chiude in bagno per tagliarsi, e non si conosce. Perciò deve trovare il modo di farlo, di guardare le sue ferite con una lente di ingrandimento, toccarle delicatamente, curarle e andare avanti. Senza nascondersi, senza bende, senza chiudere la porta a chiave. Sia mai che entra qualcuno che vuole stare con te; per giocare a ramino, ascoltare le onde del mare, o farsi raccontare la tua storia.

 

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Autore

dshimanga@tin.it

Denise Tshimanga è nata a Roma nel 1996 ma ha vissuto in giro per l’Italia. Ha studiato scrittura creativa e storytelling alla scuola Mohole e ha fatto un master in giornalismo culturale alla Treccani Accademia. Scrive di libri per minima&moralia, è un editor freelance, i suoi articoli vengono pubblicati su diversi online magazine dal 2017 e ha creato lo spazio @medusa.racconti.

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