Il fascino di Parigi è molto più antico di quanto si creda, più del mito della Ville Lumière, delle icone come la Tour Eiffel o della Montmartre degli impressionisti.

In una lettera del 1497, il marchese di Mantova Francesco Gonzaga e la moglie Isabella d’Este scrivono a Giovanni Bellini chiamandolo “Amice noster charissime”, anche se non l’avevano mai incontrato, per inviargli una tavola sulla quale “volevamo che dipingesti la città de Paris et perché rispondesti che non l’havete mai vista siamo contenti et cusì se remettemo al juditio vostro che gli poniate sopra quello che a voi pare”. Insomma, purché realizzasse una bella veduta di Parigi, città di cui si raccontavano meraviglie fin da allora, Bellini era autorizzato a dipingerci quel che voleva, perché se non la si è mai vista Parigi bisogna inventarsela.

Forse anche per questo le più belle dichiarazioni d’amore a Parigi le hanno cantate degli stranieri. Lo scrittore argentino Julio Cortázar, per esempio, che vi si trasferì al principio degli anni 50 per restarci fino alla morte, raccontava il suo rapporto con questa città come quello di due innamorati maturi che non hanno mai smesso di desiderarsi: “Oggi, quasi vent’anni dopo, la coppia non è più la stessa. Anche se stiamo ancora insieme, Parigi gioca da tempo la sua partita di drugstore e grattacieli, svende l’ossigeno e la calma alle automobili. Io invecchio accanto a lei, dimentico luoghi privilegiati e itinerari rituali. […] Di notte però, girovagando per il Marais solitario o fumando seduto su una panchina del canale Saint-Martin, ritorna l’immagine nuda e tremante del primo incontro, e so che ci amiamo ancora e corriamo ai nostri appuntamenti.”

Più o meno la stessa cosa diceva Julien Green, che era statunitense ma nacque e morì nella capitale francese. Nel suo delizioso libretto su Parigi, che Adelphi ha ripubblicato di recente, avvertiva infatti il lettore che “Parigi ha la particolarità di svelarsi di notte più che di giorno, sembra quasi aspettare che tutti dormano”, e questo perché “appartiene ai sognatori, a chi sa svagarsi nelle strade senza badare al tempo che passa”.

Le 117 pagine di questo aureo volumetto sono divise in ventidue capitoli, corrispondenti ad altrettante passeggiate per la città, dal Trocadero al Palais-Royal, da Val-de-Grâce al chiostro delle Billettes, perché Parigi è soprattutto una città d’inchiostro, in cui ogni edificio, ogni angolo, ogni bar ha il suo autore (tipo Perec per il café de la Mairie in place Saint-Sulpice), e come ogni opera di consultazione non è concepita per una lettura continua, ma va presa un po’ per volta, assaggiata. E soprattutto, una città così bella, fotogenica e armoniosa da apparire inevitabile e perfino ovvia, va guardata di sguincio, perché il mondo, come ricordava Giorgio Manganelli, visto frontalmente è illeggibile, e per coglierne i segreti intendimenti occorre spostarsi, mettersi di lato, vederlo come attraverso un’anamorfosi.

“Ogni seria opera d’arte narra la genesi della propria creazione”, diceva Roman Jacobson (perché alla fine tutte le strade portano a Roman), e Julien Green lo dichiara subito il suo proposito, nell’incipit: «Ho sognato tante volte di scrivere un libro su Pa­rigi che fosse come una lunga passeggiata sen­za meta, nel corso della quale non si trovano le co­se che si cercano ma molte altre che non si stavano cercando». Sarà per questo che quelli che noi chiamiamo “oggetti smarriti”, i francesi li chiamano objets trouvés?

In tempi di prenotazioni obbligatorie per qualsiasi cosa, in cui l’imprevisto è considerato alla stregua di una iattura, forse solo così è possibile interrogare l’abituale, vedere il nuovo nello stesso, in sintesi fare l’esploratore del noto, come insegnò il greco Pausania. O, in altre parole, diventare parigini, perché Parigi ha questo potere straordinario di prendere a icone del suo stile stranieri come l’inglese Jane Birkin, l’austriaca Romy Schneider, il rumeno Emil Cioran – per il quale quello restava l’unica città al mondo dove fosse piacevole disperare – e appunto l’americano Julien Green, il cui nome in origine faceva Julian.

La flânerie consigliata da Green va praticata dopo il tramonto, perché Parigi dà il meglio di sé in quei momenti, quando ogni cosa si approssima alla fine e la città diventa “una sorta di mondo interiore” che invita allo smarrimento e suggerisce mille connessioni, forse perché “ha la forma di un cervello umano”, come l’autore scoprì da giovane studiandone attentamente la mappa. E va percorsa con la sola bussola consentita, quella dei ricordi, dell’arte e della storia, prestando attenzione a ogni angolo che ci si accalca intorno, perché “l’inventario del futuro” della Ville Lumière, come recita il titolo dell’ultimo capitolo del libro di Green, riguarderà in primo luogo “tutto il bello che ci hanno regalato le generazioni passate, dai tempi in cui Lutezia usciva appena dal fango”.

 

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1 commento

  1. Bellissimo articolo su Parigi e sulla visione magica che ne aveva Julien Green. Condivido pienamente l’idea che la città riveli il suo volto più autentico e suggestivo dopo il tramonto, quando si svuota dalla folla e dal caos diurno. Solo passeggiando senza fretta tra le sue vie e i suoi monumenti di notte è possibile immergersi nell’atmosfera sospesa e onirica che la caratterizza. Anche io, come l’autore, amo perdermi nei meandri di quartieri meno noti come Le Marais, godendone la quiete e lasciandomi sorprendere dai dettagli che si svelano a poco a poco. Parigi di sera ti avvolge nella sua magia e ti fa scoprire aspetti nascosti della sua anima millenaria. Questo libro mi dà voglia di tornarci al più presto per rivivere quelle sensazioni.

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sergiogarufi@minimaetmoralia.it

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