Quando Musil scriveva ne L’uomo senza qualità che esistono “problemi matematici che non consentono una soluzione generale, ma piuttosto soluzioni singole che, combinate, s’avvicinano alla soluzione generale”, conduceva le congetture di Ulrich a oscillare tra esattezza e indeterminatezza. “Egli possiede quella incorruttibile, voluta freddezza che rappresenta il temperamento che coincide con la precisione; ma all’infuori di tale qualità tutto il resto è indefinito”.
Il contrasto tra indefinitezza e ricerca di rigore, ordine, e la capacità di evidenziare una caratteristica sulle altre per renderne nitida la rappresentazione in chiave narrativa trova una nuova declinazione nella prosa di Veselin Marković, ritenuto uno dei più alti esempi di letteratura serba contemporanea. Studioso di Proust e Nabokov, autore di saggi critici, racconti e narrazioni di viaggio, Marković riconosce un’influenza significativa nella sua poetica non solo a riferimenti quali Kafka, Čechov, Ionesco e Styron, ma anche ai tragici antichi per il rilievo dato alla composizione.
Con Noi diversi (trad. Anita Vuco, Voland) affida alla figura maschile un’indagine basata sul pretesto fornito dalla teoria della probabilità per rintracciare attraverso l’osservazione matematica il concatenamento apparentemente casuale degli eventi nell’esistenza del singolo: un potente detonatore narrativo per individuare una caratteristica dominante e comporre geometricamente il percorso entro cui far muovere i suoi due protagonisti.
La rigida alternanza di voci sposta costantemente lo sguardo sulle singole vicende, sviluppate rendendole entrambe storie dominanti, intento manifestato dall’impostazione formale, a partire dai due prologhi che aprono la narrazione e dalla spartizione della prima persona tra i due protagonisti, come a indicare due percorsi paralleli incapaci di incrociarsi.
Sono accomunati entrambi da un trauma profondo: Vladimir, laureando in matematica, si affida allo studio dei numeri per colmare il suo bisogno di verità e rigore legato a un dramma infantile; Vanja è affetta da una rara forma di assenza di pigmentazione che la costringe alla solitudine e a convivere col pregiudizio. Incarnano all’apparenza la dicotomia ordine/disordine nel condurre esistenze che si consumano tra ricerca di verità e tensione allo smarrimento. A unirli i tentativi quotidiani di salvezza nel misurare i propri limiti – nei rispettivi ambiti e nel relazionarsi agli altri – se non per eludere la sorte, almeno per sospendere o mettere in dubbio il giudizio altrui. Aspetti che emergono nel gioco di concatenazioni temporali attraverso una costante alternanza tra i due protagonisti e una continua immersione e emersione dal passato.
La dimensione dell’infanzia più che rappresentare un’immagine di rassicurante protezione – “Allora eravamo in sintonia, il mondo ed io”– appare come il luogo entro cui analizzare retrospettivamente i traumi e rintracciare risposte nuove a domande rimaste sospese.
La relazione col tempo impone ai due protagonisti di rivedere le certezze e addentrarsi nella percezione di una colpa originaria a cui si legano traumi antichi. Saggiare le qualità selettive della memoria permette a entrambi di recuperare esperienze dell’infanzia e provare ad annientarne le ombre per rielaborarle dalla prospettiva del presente.
Un esercizio di sopravvivenza al dolore che si rivelerà parziale e illusorio: condurrà entrambi a indugiare con amarezza e ironia sull’incapacità del ricordo di garantire una reale salvezza. “La giornata è monotona e cupa, come se il tempo si fosse congelato in un eterno crepuscolo”.
Nel gioco di mondi paralleli immaginati da Marković per allestire il dramma nella raffigurazione del paradosso di fragilità e contraddizioni dell’animo umano e calarsi nei suoi abissi, emerge anche una sottile vena comica, come strategia per rendere autentico quel feroce bisogno di giustizia che lacera i suoi protagonisti. “Oltre alle coincidenze, il destino ama anche l’ironia”.
Ogni descrizione ambientale, pur non localizzando esattamente la narrazione, appare profondamente realista nelle immagini naturali e nell’attenzione riservata ai luoghi del quotidiano, ma è al contempo capace di astrarsi dal contesto per dare forma a un affresco emotivo dal taglio poetico. Tra tensione lirica e aderenza alla concretezza fisica, la prosa di Marković consegna al lettore una rappresentazione della realtà mediata dall’emergere di simboli che restituiscono la complessa relazione con la materia e conferiscono estrema originalità al romanzo. “Osservo la bruma fluire dal lago verso la città, simile a un’onda gigantesca che, di qui a poco, sommergerà ogni cosa; si trascina, tuttavia, con lentezza per dare alle persone il tempo di mettersi in salvo. Supera le case più alte, ingoiandole una dopo l’altra.
Quando vengono catturate dalla prima foschia, le facciate appaiono in parte sbiadite, come se qualcuno avesse rimosso loro un primo strato. Mentre la nebbia avanza, tutti i colori virano al grigio scuro. Ma non è ancora la fine. Al posto dei palazzi restano soltanto ombre, con i contorni che tremolano, si dileguano e alla fine spariscono del tutto. La nebbia non ha ancora raggiunto la nostra casa, ed è per questo che cerco di riprodurla – ogni volta che espiro”.
Lo spazio riservato alla memoria assume un ruolo predominante, non solo nell’incessante scavo nel passato, ma nella percezione di inaffidabilità dello sguardo, deformato dal dolore, che porta entrambi i protagonisti a dubitare delle proprie impressioni pure, “sostituite da un’analisi senza scopo”. Nel costante rimescolamento dei piani – il reale e l’immaginifico, la veglia e i fremiti del sogno – gli interrogativi sulla realtà spezzano la vivida rappresentazione del reale attraverso descrizioni figurate come “ornamenti della memoria”. “Che lingua parlano i ricordi allora – quella di un tempo, o quella del presente? Se parlano la lingua del presente, come posso fidarmi di loro? Sono le parole a creare le immagini. La lingua cambiata ha cambiato anche le immagini originarie?”
La prosa di Marković rivela una cattura del tempo riconoscibile sin dalle prime pagine: traspone una personale visione del mondo ossessiva e tragica, trasfigurata da un costante riferimento alla fine che, a partire dall’impostazione formale, segna una ricerca espressiva densa e memorabile favorita in pari misura dal mistero insito nelle vicende narrate e dal fondo psicologico che le caratterizza.
Una scrittura intrisa di simbologie e metafore capace di rivelare un sotteso drammatico costruito per analogie sottili e rimandi alla “cosmologia infantile” dei protagonisti, in una perenne rappresentazione figurata della tragedia attraverso continue immersioni e emersioni nella parte oscura dominata dalle inquietudini. Lo specchio rappresenta in tal senso lo strumento primario per confrontarsi con la questione dell’identità e delle rappresentazioni di sé in funzione della percezione di alterità. “Immobile mi osservo nello specchio: il mio viso ricorda un quadro astratto, mentre una lacrima rotola giù sulla guancia facendosi strada attraverso gli strati di cipria. La scena è così insopportabile che non mi basta staccare lo sguardo dallo specchio, ma spengo le luci in tutto l’appartamento”.
L’osservazione deformata e distorta di sé non potrà che attestare l’inesorabile isolamento in cui entrambi si chiudono, nella convinzione di una generale incapacità di comprensione. “Se immergo il cucchiaino sul fondo della tazza, il mio riflesso precipita nel buio totale. Quando lo tiro fuori di nuovo, poco alla volta, riemerge anche la mia faccia, dapprima confusa, nell’ombra, poi sempre più nitida, cosicché alla fine la mia testa galleggia nel liquido giallastro. Sento crescere l’ansia, e comincio persino a piangere senza far rumore, mentre osservo la mia immagine affondare nel tè, incapace di distogliere lo sguardo e spingere via la tazza”.
L’atmosfera di incertezza e sospensione che permea le pagine rende insoluto il conflitto di interpretazioni generato in un racconto strutturato su porzioni di realtà che solo al lettore sarà dato osservare nella sua interezza. Con Noi diversi, Marković conduce il lettore in un mondo infantile misterioso e intricato fatto di ombre e segni da interpretare che si riverberano nell’età adulta, affondando con una prosa elegante e dallo sguardo poetico nei grandi temi di indagine della sua opera, a partire dall’ineluttabilità del destino, le incognite del presente, la labilità delle relazioni, il peso dei vincoli, la necessità di riappacificarsi con la propria solitudine.
Alice Pisu, nata nel 1983, laureata in Lettere all’Università di Sassari, si è specializzata in Giornalismo e cultura editoriale a Parma dove vive. Collabora per diverse testate di approfondimento, tra cui L’Indice dei libri del mese, minima&moralia, il Tascabile. Libraia indipendente, fa parte della redazione del magazine letterario The FLR -The Florentine Literary Review.

Bellissimo