“Come i treni a vapore
Come i treni a vapore
Di stazione in stazione
E di porta in porta
E di pioggia in pioggia
E di dolore in dolore
Il dolore passerà”

Ivano Fossati, I treni a vapore

“Ah, l’ultimo treno! Ottimo, se la vostra serata è già finita, naturalmente, e potete andare alla stazione a prender l’ultimo oppure il penultimo, più rapido, a vostro piacimento. Però di solito l’ultimo treno incombe su una serata come un coprifuoco, una minaccia di esecuzione sociale. Ricordo ancora la volta in cui, nel 1989…” (Geoff Dyer, Gli ultimi giorni di Roger Federer. E altri finali illustri, ilSaggiatore 2023, trad. di Katia Bagnoli).

Durante la lettura del nuovo libro di Gianni Montieri, Non era un mostro strano, appena pubblicato da 66thand2nd, mi è ritornato in mente questo passo di Dyer, in cui lo scrittore inglese, divagando come il suo solito, parla di treni, da quello a vapore dipinto con toni minacciosi da Turner fino ai treni idilliaci ritratti dagli impressionisti, da quello su cui viaggia il poeta Philip Larkin ne Le nozze di Pentecoste al direttissimo dei cinquanta preso da uno dei personaggi de La  vedova incinta di Martin Amis fino al treno, “l’ultimo treno”, che lui stesso perde insieme all’amico una sera del 1989 dopo essere stato a Londra a un concerto dei Clash. Così per tornare a Oxford, da dove sono partiti, i due amici saranno costretti a viaggiare sul “treno del latte”, uno di quei treni estinti cui la memoria e financo il nome conferiscono immediatamente un’aura malinconica.

Le divagazioni dello scrittore Dyer, quando sembrano allontanarci dal “tema” principale del libro, proprio lì invece ci stanno conducendo:  cioè “nei pressi della fine delle cose” come ha osservato lo stesso Montieri – critico letterario oltre che poeta e scrittore – in una recensione del libro di Dyer uscita sul Manifesto due anni fa con il titolo più che mai azzeccato di Variazioni intorno alla fine.

Inizio e fine, partenza e arrivo sono i binari su cui viaggiano i treni reali e simbolici di cui ci parla Dyer – “certamente il treno, per la maggior parte della mia vita cosciente, è stato un simbolo dell’elegiaco” – e su cui scrive Montieri con un lirismo a tratti struggente; uno stile appunto elegiaco:

Guardiamo fuori dal finestrino, ci scegliamo un paesaggio, diciamo che è il nostro preferito e così allontaniamo la morte. E il treno? È davvero solo la nostra camera con vista o è anche qualcos’altro? Non è il treno, con la sua complessità, con il suo accompagnamento di rotaia, anch’esso un paesaggio, il panorama di qualcuno, qualcuno che lo vede passare di sfuggita, qualcuno che da una casa saluta senza sapere chi, qualcuno che prende appunti, che annota orari, che si siede davanti alle finestre quando sa che di lì a poco passerà il suo treno preferito. Qualcuno che non c’è mai salito, qualcuno che non potrà salirci più e purtroppo lo sa. Un personaggio di Simenon riflette e individua una sensazione nascosta, della quale quasi vergognarsi, che lo metteva in uno stato d’ansia, preda di un turbamento, ogni qualvolta vedeva un treno passare, riferendosi soprattutto ai treni notturni, al mistero che si cela dietro le tendine abbassate e a chi dietro quelle tendine viaggia. Chi è? Dove va? Noi quella scena la vediamo, stiamo sullo stesso binario. Ogni persona, messa in particolari condizioni, è il personaggio di Simenon, può potenzialmente sperare di esserlo.

Oltre al treno, a creare un ponte tra le pagine di Dyer e il testo di Montieri è anche il piglio della prosa nonché la capacità di entrambi di passare con grande disinvoltura dalla descrizione di un luogo visto (o solo immaginato) alla narrazione di un ricordo o aneddoto della propria vita oppure alla citazione di un libro, un quadro, una canzone, su cui non manca mai una riflessione critica ed esistenziale sagace e insieme autentica. Così Montieri ad esempio commenta una poesia di Anna Maria Carpi che racconta di un lungo viaggio in treno e si conclude con il bellissimo verso “Solo un viaggio comune è senza fine”:

Nel testo Carpi esorta gli altri a non scendere alle fermate intermedie, a proseguire con lei fino all’ultima fermata, perché solo insieme agli altri ha senso il viaggio. E meglio ancora se sconosciuti, così che si possano immaginare fatti, vite, nomi. Carpi, viaggiatrice ideale, in un’altra poesia scrive: «anch’io su questa transiberiana – / perché, pensavo, / dove si è in tanti / qualcosa si farà contro la morte». Ed eccoci, che si tratti di Transiberiana o Trenord, essere in tanti, non soli, fa scudo, secondo Carpi allontana la morte. Spesso l’ho pensato anche io. Poco tempo fa ho comprato un biglietto per un regionale alla stazione di Milano, uno di quelli che costano meno, per poter accedere di nuovo ai binari dove di lì a poco sarebbe arrivata mia madre. Per fare le cose per bene, come uno che non vuole dare nell’occhio, sono andato al binario, mi pare fosse il 3, da cui quel treno sarebbe partito, ho osservato gli altri salire e ho aspettato che si chiudessero le porte. Sembravo uno che avesse cambiato idea all’ultimo momento. Dove è andato a finire quel biglietto da viaggiatore mancato? Chi si è seduto nella poltrona che forse avrei occupato per andare in un posto in cui nessuno mi aspettava?

Ma se in Dyer il treno occupa solo qualche pagina, divenendo una delle tante variazioni intorno alla fine, in Montieri le variazioni sono tutte intorno al treno: basta osservare l’indice per accorgersi che un treno tira l’altro come i quattordici capitoli, ciascuno dei quali è seguito da una sala d’attesa, tredici in totale. Nella sala d’attesa numero otto, che ho amato molto, lo scrittore rievoca la partenza dei nonni da Napoli verso Milano subito dopo il terremoto del 1980 e pochi mesi dopo la strage alla stazione di Bologna, e se li immagina camminare “mano nella mano lungo il binario” , li vede, mentre seguono i parenti che sono venuti a prenderli, che “si stringono forte, e che ogni tanto alzano gli occhi al cielo, verso lo stupefacente soffitto della stazione di Milano, e si domandano se lassù da qualche parte ci sia quello che chiamano Dio.”

La sala d’attesa rievoca anche quella della stazione di Bologna a cui è dedicato l’intero capitolo 8 dal titolo risoluto “Sappiamo chi è stato” perché da qui non è possibile passare né tantomeno sostare “senza avvertire una piccola scossa, un turbamento, ancora prima di guardare ­ l’orologio fermo all’ora dell’esplosione, di leggere le incisioni in ricordo delle vittime.” Bologna, città di cui Montieri avverte insieme l’aria spensierata, è “un luogo che sa di gente, di vita, di incroci, di zaini e trolley che salgono e scendono” ma anche “di malinconia, di memoria, del dolore che lo ha attraversato, che lo attraversa.”

Colpisce in questo libro denso di memorie private e collettive, perfetto per un’estate da percorrere sui binari, la capacità, quasi fotografica, con cui l’autore riesce a descrivere doviziosamente l’ambiente del treno (dal tessuto e il colore delle poltrone alle luci dei corridoi dei vagoni, dal paesaggio dai finestrini all’architettura delle stazioni che ci accolgono) evocandone così quell’atmosfera vitale, a tratti caciarona, e insieme malinconica, come nel capitolo in cui Montieri racconta in terza persona della finale Inter-Napoli passata su un treno nel novembre del 1985, ancora ragazzo, e poi da uomo nel novembre del 2024:

Pensa ai treni, a tutti quelli che ha preso e a quelli che prenderà, si domanda se sia ancora lo stesso che si sdraiava per terra in un corridoio di vettura lercio, o se invece è quest’altro che viaggia in business e condivide schermo e sfogliatelle con degli sconosciuti. Si risponde di sì, è il ragazzo sdraiato per terra, è il cinquantenne che sta tornando a casa. In fondo, si tratta di un pareggio, un gol a testa, una partita equilibrata che dura da un sacco di anni e che forse un giorno finirà, magari su un treno tutto trasparente che viaggerà su binari sospesi a mezz’altezza con le partite trasmesse da un maxischermo, con gol in rovesciata segnati nei vecchi scambi di binari o in questi nuovi accanto alle nuvole.

E ancora di più colpisce la capacità di raccontare attraverso il treno le storie e la Storia, la vita e le vite che transitano in questi luoghi e che continuano a pulsare anche quando non ci sono più, o quando una stazione smette di funzionare, e forse è solo frequentata da spiriti come nella scena finale de La città incantata del cineasta giapponese Myazaki. Del resto, si domanda Montieri, “Una stazione dismessa cos’è se non un archivio? Una sorta di scrigno che custodisce, protegge, salva.” E così lo scrittore si immagina di entrare in una di quelle stazioni abbandonate a registrarne i suoni, come fa uno dei protagonisti di Archivio dei bambini perduti di Valeria Luiselli “nei luoghi in cui l’ultimo gruppo di indiani Apache si arrese”, per “mantenere in vita ciò che le pareti hanno trattenuto.”

Ecco, Non era un mostro strano può definirsi uno straordinario archivio di suoni, parole, gesti, immagini, odori che i lettori leggendo potrebbero anche essere tentati di integrare con i propri vissuti. E così la “Bibliografia ragionata e sentimentale” con cui si chiude il libro di Montieri si arricchirebbe di nuovi titoli, tutti ancora da scrivere o anche solo da immaginare. Del resto l’archivio sfida l’infinito.

Condividi

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Autore

lisabentini@tin.it

Lisa Bentini si è laureata in Letteratura Contemporanea a Bologna. Docente di Lettere nella scuola dal 2006 è intervenuta in seminari e pubblicazioni su romanzo, poesia e teatro. Scrive inoltre sulle pagine culturali del Manifesto, sulla rivista on line Limina e sul Blog della casa editrice Topipittori.

Articoli correlati