“Era una bambina dalla pelle bianca come i dolcetti di riso a forma di mezzaluna”, scrive Han Kang per descrivere la sorella morta poche ore dopo il parto e prima che l’autrice nascesse. Il libro bianco parte da qui, dal racconto intimo di un lutto privato (per così dire ereditato) che la scrittrice coreana, Premio Nobel 2024, saprà trasformare in una riflessione sulla vita e sulla morte, percorrendo in punta di piedi il confine invisibile che le separa. Mentre lo leggevo, nella magnifica traduzione di Lia Iovenitti, mi è tornata in mente l’atmosfera rarefatta de La bambina di neve, struggente racconto di Nathaniel Hawthorne, in cui una misteriosa “sorellina di neve”, obbligata a scaldarsi davanti alla stufa dal padre della storia affinché non prenda freddo, si scioglie lasciando al proprio posto una malinconica pozzanghera. Sarà per la mussola bianca come la neve che avvolge la piccola sorella di Kang? o per il nome che il padre le aveva dato in cui è contenuto un carattere cinese che vuol dire proprio neve? O forse il rimando inevitabile al racconto di Hawthorne è nato dal passo in cui Kang evoca le zollette di zucchero, anticipando peraltro la storia narrata in Non dico addio:
L’estate precedente, quando la mia vita privata aveva cominciato a disfarsi come una zolletta di zucchero in un bicchiere d’acqua, in un periodo in cui c’erano solo i segni premonitori dei veri addii che sarebbero seguiti, avevo scritto un racconto intitolato «Addio». Era la storia di una donna di neve che si scioglieva sotto il nevischio. Ma quello non poteva essere davvero il mio congedo finale.
Comunque sia Il libro bianco è colmo di suggestioni e di trasformazioni che ne accompagnano felicemente la lettura. Del resto bianca è la spuma delle onde, la nebbia che avvolge la città, ma anche la pomata e la garza sulla ferita, e bianco è un pugnetto di sale, il riso, il ghiaccio, il latte che sgorga dal seno. Bianco è il sudario. È così: per scrivere questo libro Han è partita da una lista intorno alla quale sono nate piccole prose poetiche, “finestre sul mondo”, come lei stessa le ha definite, raggruppate poi in tre sezioni denominate Io, Lei, Tutto è bianco. Perché con la consueta capacità di cambiare voce narrante l’io di Kang diventa nella seconda parte lei come anticipato dallo stesso titolo Lei.
La scrittura concede non solo il privilegio di immedesimarsi in qualcun altro ma, come nel caso di Han Kang, di entrare addirittura nei panni della sorella morta e soprattutto mai conosciuta, forse per darle quella vita che non ha potuto vivere e che lei ha invece vissuto non senza un senso di colpa: “se posso donarti questa vita”, scrive Han a conclusione della prima parte. C’è però un terzo movimento, assolutamente necessario quando si fa letteratura, che volge la storia personale al plurale: è nella terza parte quando la scrittrice si abbandona a tutto quel bianco, trasformando la storia della piccola sorella in una storia universale. Qui, rimbalzando dall’io al tu, e viceversa, Han inscena un autentico dialogo impossibile con la sorella. Solo allora potrà congedarsi:
Non morire. Ti prego, non morire.
Dischiudo le labbra e mormoro le stesse parole che udisti aprendo i tuoi occhi neri, tu che non potevi ancora capirle. Le scrivo calcando la penna su un foglio bianco. Credo non ci siano parole migliori per dirsi addio. Non morire. Continua a vivere.
Ma il bianco è un colore della vita o della morte? si domanda per tutti noi la stessa scrittrice mentre parla delle magnolie bianche fatte piantare dopo la morte di due compagni di università:
Aveva letto che nelle lingue indoeuropee blank (vuoto), blanc (bianco), black (nero) e flame (fiamma) condividevano la stessa radice. Era questo che rappresentavano le due magnolie bianche, con la loro breve fioritura a marzo – fiammelle bianche e vuote che abbracciavano l’oscurità?
Senza dubbio il bianco è un colore che la scrittrice associa a un trauma non elaborato completamente, la morte della sorella scoperta attraverso i racconti e silenzi dei familiari, e per questo subìto, come accade anche ne L’altra figlia di Annie Ernaux (L’orma, 2016) a cui Il libro bianco mi ha in parte rimandato: “TI VEDO SDRAIATA AL MIO POSTO E SONO IO A MORIRE”, scrive Ernaux.
Ma come spesso succede ai traumi più dolorosi in Han Kang il lutto della sorella assume altre forme, si traveste, nascondendosi dietro altri eventi come il morso di un cane bianco capitato a Kang bambina. Tant’è che quando durante una trasmissione radiofonica in cui le chiedono quale sia stato l’evento più triste, Han racconterà del cane: la bambina bianca come un dolcetto e il cane bianco si sovrappongono creando un corto circuito su cui la scrittura ritorna ossessivamente nei frammenti che compongono questa storia ma che ritroviamo sparsi anche nei romanzi precedenti: quando ad esempio la protagonista de La vegetariana, Yeong-hye, ricorda di essere stata morsa a nove anni da un cane bianco.
E poi c’è il bianco della neve che volteggia in quasi tutti i libri di Han Kang. In Atti umani è un cumulo di neve ghiacciata a nascondere la lapide di Mangwol-dong, ne L’ora di greco il primo sogno che la protagonista racconta allo psicoterapeuta è quello di lei bambina, sola in una strada piena di neve, in Non dico addio, suo ultimo libro, una bufera di neve accompagna senza sosta la protagonista in un viaggio contro il tempo per salvare il pappagallino dell’amica, scoprendo così un’altra neve, più impenetrabile e dolorosa, quella che Paul Celan ha definito “la neve del taciuto” come si legge nella traduzione di Moshe Kahn di una delle poesie più note e intense del poeta: “Con alterna chiave/ apri la casa in cui/ la neve del taciuto fluttua” (Paul Celan, Poesie, L’orma, 2024).
È la neve della Storia, con la maiuscola, che fa capolino nei romanzi di Han quando meno te lo aspetti; e che di colpo si rivela qualcos’altro. Come nel filmato che la scrittrice vede al museo dell’insurrezione di Varsavia: “Man mano che l’aereo si avvicinava lentamente alla città, appariva un paesaggio ricoperto da una neve biancastra. Solo che non era neve.” Bensì “grigie macerie”, cenere.
È a Varsavia, dove è andata a vivere con il figlio per un breve periodo che Han inizia a pensare al Libro bianco, ed è Varsavia la città dove ambienterà lo stesso libro, creando uno stupefacente cortocircuito tra il volto della sorellina e della città:
A lei che ha conosciuto lo stesso destino di questa città. Che è morta, o è stata annientata, ma si è ricostruita da sé, con tenacia, sulle sue rovine carbonizzate. E che, per questo, è ancora nuova. Una persona che porta addosso uno strano fregio – il segno chiaro e netto di unione tra i resti di pilastri e vecchi muri di pietra e le parti nuove costruite sopra.
(Dedico questo pezzo ad Anna Toscano e Gianni Montieri, e alla loro Venezia)
Lisa Bentini si è laureata in Letteratura Contemporanea a Bologna. Docente di Lettere nella scuola dal 2006 è intervenuta in seminari e pubblicazioni su romanzo, poesia e teatro. Scrive inoltre sulle pagine culturali del Manifesto, sulla rivista on line Limina e sul Blog della casa editrice Topipittori.
