Una nuova puntata della rubrica a cura di Anna Toscano. Dieci domande a poetesse e a poeti per cercare di conoscere i loro primi avvicinamenti alla poesia, per conoscere i loro albori nella poesia, quali siano stati i primi versi e i primi autori che li hanno colpiti, in quale occasione e per quali vie, e quali i primi che hanno scritto. Le altre puntate sono quifoto copertina © Anna Toscano

Qual è la poesia che hai incontrato, e quando, che ti ha fatto pensare, per la prima volta, che fosse qualcosa di fondamentale?

Non c’è una poesia precisa che sia stata per me una soglia, un inizio. C’erano le filastrocche e le storie che mia nonna sapeva a memoria e che mi recitava nel suo grande letto, dove spesso mi piaceva restare a dormire. Venivano dalla scuola che aveva frequentato nei primi del ’900 (lei è del 1910) fino alla “settima”; si confondevano con le preghiere – era infatti molto credente. Ricordo la forza che avevano quelle parole che uscivano dalle sue labbra e si reggevano nell’aria senza bisogno di alcun sostegno e, a un certo punto, come rispondendo a una legge precisa, rimavano, risuonavano l’una con l’altra. Questo ritmo, questo canto diluito, era una conferma della loro verità. Non si poteva fare altro che ascoltarle senza perdere una sillaba, fino a che l’ultima vibrazione rientrava nel silenzio.

Qual è il primo autore o autrice che ti è rimasto/a in mente come poeta?

Il mio primo autore e amore è stato Cesare Pavese. L’ho amato come il primo fidanzato. L’ho incontrato all’inizio dell’adolescenza, quando l’amore è assoluto e per sempre. Seguendo la sua voce ho lasciato i libri dell’infanzia, e mi sono avventurata nelle pagine senza illustrazioni. È stato un amore iniziatico, un amore che mi ha donato un mondo o, meglio, che mi ha aperto la magia del mondo che quotidianamente vivevo, nei miei giochi in campagna. Ho raccontato questa esperienza in una prosa che si intitola Dentro un orizzonte di colline, raccolta con traduzione inglese di John Taylor in un mio libro ancora inedito in Italia, The Butterfly Cemetery. Selected Prose (2008-2021). Ricordo lo smarrimento di fronte a quei caratteri neri che si susseguivano senza soluzione di continuità, senza la promessa di un’immagine colorata. E poi, a un tratto una voce che viveva nella pagina, fraterna mi camminava accanto e raccontava, mentre attraversavamo insieme il paesaggio. L’ho seguita in tutti i libri che trovavo di Cesare Pavese.

C’è stata una persona o un evento nella tua infanzia, o giovinezza, che ti ha avvicinato alla poesia? Chi era? Come è accaduto?

Negli anni delle elementari, era mio padre a leggere a me e a mio fratello, prima di addormentarci. Le tigri di Mompracem, Il conte di Montecristo… e fu lui a suggerirmi poi quel libro di Pavese (forse La luna e i falò), il mio primo libro senza disegni. Glielo avevo restituito, delusa, non trovando niente tra le pagine fitte di scrittura. Poi lui mi lesse qualche pagina ad alta voce, e allora si liberò quel ritmo, quella cadenza magica, che ho continuato a seguire nella voce di Pavese. Fu mio padre il tramite fondamentale del nostro incontro e probabilmente della mia passione per la letteratura. Ricordo un periodo della mia adolescenza in cui vivevo nell’attesa di potere rientrare in quella dimensione totale in cui mi portavano i libri, dopo la scuola. Questa esperienza di vita potenziata, espansa, sulla soglia di più realtà, è raccolta in una poesia del mio primo libro, Mala kruna:

Leggo stesa, il libro sul torace
è il mio terzo polmone
che s’apre e si richiude.

Come un anfibio stavo sulla sponda.

Quali sono i primi libri di poesia che hai cercato in una biblioteca o in una libreria?

I primi libri di poesia che ricordo sono le Elegie duinesi di Rilke, La terra desolata di Eliot (lo cito con il titolo tradizionale che aveva l’edizione di allora), e un libro che non è in versi ma che è stato per me una sorgente di poesia, Il diario dell’inquietudine di Fernando Pessoa. Questi libri che, nel terremoto di una vera “terra devastata”, non saprei ritrovare ora a casa, erano tutti sottolineati a matita così tenacemente che la sottolineatura a volte diventava una sorta di fondamento della parola stampata. La traccia di una passione assoluta e quasi disperata, che non trovava pace di fronte a nessuna rilettura, e che si placava forse solo nel pensiero di ritrovare quei versi, quei brani, quando avrei riaperto il libro. Oltre alla sottolineatura che confinava con l’incisione, c’era una seconda, successiva pratica attraverso cui cercavo di venire a patti con quella bellezza incandescente che mi raggiungeva attraverso le parole: dedita e devota amanuense, ricopiavo a mano, con la penna, in un mio quadernino, quei passi sottolineati, formando così una sorta di mia antologia personale. Il problema è che con libri come quelli che citavo prima, avrei dovuto procedere alla trascrizione integrale. Questo esercizio di trasfusione della bellezza, questo tentativo di portare nel mio corpo le vibrazioni di quelle parole, avveniva anche nelle mie camminate in strade laterali, vicino casa: avevo con me i testi trascritti su alcuni foglietti, e li leggevo ad alta voce per impararli a memoria, dal profondo del mio amore, by heart, come si dice in inglese. L’intento era anche quello di avere in me una sorta di prontuario di salvezza, una cassetta del pronto soccorso per ogni evenienza.

Il primo verso, o la prima poesia, che hai scritto e che hai riconosciuto come tale: quando è stato e in quale circostanza?

Ci sono alcuni testi che ho scritto negli anni del liceo e che non ho mai pubblicato. Credo che, nella loro freschezza, stiano bene nelle scatole in fondo agli armadi dove conservo questa scrittura che ha preceduto Mala kruna, il mio libro d’esordio. L’unica eccezione è una plaquette d’arte a cura dell’incisore Giordano Perelli, uscita nel 2001 con quatto miei testi che aveva scelto allora Marco Ferri, un poeta che, con la sua lucidità di sguardo, negli anni è stato per me un riferimento. Riporto l’ultimo di questi brevi testi, che dà anche il titolo alla plaquette, Le parole che io cerco:

Ci saranno pure le parole che io cerco
quella sensazione della pelle sulla pelle
se è possibile tra noi scambiarsi un gesto.

I testi della mia adolescenza, lasciati affondare nel buio, si sono fatti probabilmente humus da cui è poi nata quella che, nei primi anni dell’Università, ho riconosciuto come una lingua. E così l’ho accolta, come una liberazione, una salvezza. L’ho poi scandita e lavorata fino all’ossessione per cercare la forma che le apparteneva, con cui poteva entrare nel bianco, e mettersi in viaggio.

Quando poi i versi sono arrivati copiosi, quali sono stati i tuoi pensieri?

Questo non è mai accaduto, rispondevano a un tempo loro, segreto, imprevedibile e ingovernabile. È solo abbastanza di recente, che invece mi ha raggiunto la sensazione di non essere abbandonata, di potere ritrovare, anche nelle circostanze più insperate, il sottile filo di voce, come un filo d’acqua che può essere ricoperto e ostruito dai detriti dell’esistenza, ma che, se incontra attenzione, sa affiorare, manifestarsi, anche soltanto attraverso una traccia di umidità, una crepa, dei licheni sul muro.

Quando hai avuto tra le mani le tue prime poesie pubblicate, cosa è accaduto?

Cessate le fatiche e i ripensamenti, ci si ritrova con il proprio libro in mano. Anche quei versi che continuano a emanare un sottile stato di allarme, come non avessimo fatto il possibile per farli funzionare, tacciono come i grandi pilastri della corrente elettrica: più ci si avvicina, più si sente l’aria vibrare come per un’enorme arnia.

Così si conclude Un verso è una vasca e altri appunti sulla poesia, una breve sequenza di prose in cui ho raccolto l’esperienza che ha portato alla nascita del mio primo libro, dall’accogliere in se stessi la voce, fino a ritrovarla pubblicata. Ciò che è accaduto poi è un meraviglioso viaggio fatto di incontri inaspettati, e soprattutto della condivisione di qualcosa che continua a donarsi ad altri occhi che portano ogni volta alla luce il significato. Quando ci si accorge che la vita che affiora dai versi non porta il nome che compare in copertina, ma si rigenera, sorprendendo lo stesso autore del libro, c’è nell’aria uno sciame di gioia.

La poesia per te è più di una fede o quasi una fede?

Mi viene in mente un gioco che è tornato ad essere per me quasi quotidiano, quello di fare il puzzle (mia figlia che compie tra qualche mese tre anni, lo ama molto). Nel caos di una distruzione si apre uno spazio per ricominciare. Uno spazio vuoto. Si inizia dagli angoli, che sono certi. Questo è il segreto, la legge interna del puzzle. Un verso ha qualcosa di simile a questi pezzi d’angolo: nel vuoto traccia una direzione; un inizio-fine che continua, che permette di ricostruire un mondo.

Quei pezzi sparsi sul pavimento, assomigliano alle nostre esistenze, così travagliate da grandi mutazioni come per il movimento di una placca tettonica: forse avvertiamo soltanto i sussulti, e ogni tanto qualche terremoto, qualche devastazione, come un’epidemia, una guerra. Ma la possibilità di ricominciare, di trovare il pezzo d’angolo, e ricomporre i frammenti del mondo, resta in noi, tra le nostre mani.

La poesia inizia? 

Inizia insieme al mondo, è quel rumore cosmico che alcuni scienziati riconoscono come un residuo del Big Bang. O forse inizia ancora prima, come diverse religioni raccontano, come Verbo, Ohm, vibrazione che è all’origine di ogni cosa. A ogni modo non inizia certamente da un essere umano né da un libro. I poeti sono sostanzialmente traduttori, tramiti. Per questo, fin da Mala kruna, ho scelto di iniziare i miei testi con la lettera minuscola. Poi rispetto la normale ortografia, dopo il punto fermo, porto la maiuscola.

Ogni poesia inizia da un ascolto, il più possibile totale, assoluto. I poeti non fanno altro che accogliere, custodire, con il loro corpo. Assomigliano a un secchio che raccoglie la pioggia. Questa immagine, forse riaffiorata in me dalla visione di Nostalghia, ha generato questi versi del mio secondo libro, Pasta madre:

secchi sparsi nella stanza,
quaderni vuoti. Torneranno
a frantumare come infiltrazioni
ma piangi pure e impara
dalle grondaie colme
acquasantiere
sulla porta dove ognuno
si medica le mani.

La poesia finisce?

La poesia non inizia e non finisce, si trasforma, parafrasando la famosa legge. Quella che sembra una fine è un ingresso nel silenzio, un cambiamento di stato, simile al passaggio tra la pioggia e le nuvole.

Questa dinamica di inizio e fine genera il ritmo, da cui la poesia prende forma. Proprio perché contiene il ritmo, lo stesso che è nella natura, nel cosmo, la poesia resta per noi, nel nostro tempo lineare e sordo, una sorgente di salvezza.

Non c’è una fine neanche dopo l’ultimo verso di un testo. Come nel cucito, il punto porta il filo a riaffiorare in un nuovo movimento. E nasce così un altro tratto di cucitura, un secondo testo. Un libro di poesia si costruisce secondo questo stretto rapporto tra un testo e il seguente e in particolare tra l’ultimo verso di un testo e l’inizio del successivo. Non c’è fine neanche dopo la conclusione di un libro. C’è solo, spesso, un più ampio tratto di silenzio. Riemerge il filo, in un nuovo testo che apre un nuovo libro. Solo con il tempo ci si accorge di come siamo fedeli a questo movimento di fine inizio, di come siamo strumenti che risuonano nel ritmo.

 

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1 commento

  1. PENSIERO SCRITTO :
    L’IMPORTANZA E LA PREDILEZIONE CHE RISERVO AL PENSIERO SCRITTO, SIA ESSO POETICO CHE DI PROSA LIBERA, SI EVINCE DA COME ADOPERO IL TESTO D’OGNI MIO COMPONIMENTO E, DAL MESSAGGIO CHE GLI ATTRIBUISCO. VEICOLARE TEMI CHE MI PREMONO E, CHE DESIDERO SUGGERIRE AL LETTORE, E’ UNO SOLO DEI MIEI SCOPI PRIMARI POI CHE, QUANDO SCRIVO ASPIRO AD ANALIZZARE E POI SINTETIZZARE I PENSIERI CHE FLUISCONO LIBERI, PER RACCOGLIERE OGNI RICORDO ATTINENTE ALL’ARGOMENTO TRATTATO CHE, FUNGE DA MOTIVO PORTANTE E, AIUTA A RICOSTRUIRE IL MIO EQUILIBRIO INTERNO . IL PENSIERO E’ FUGGEVOLE E, NON RIMANE A SUGGELLARE UN MODO DI COMPORTAMENTO, UNA MANIERA DI VIVERE; VA DEFINITO, RICOSTRUITO AFFINCHE’ POSSA RIMANERE NELLA NOSTRA SINGOLA E POI COLLETTIVA COSCIENZA, DONANDOCI CERTEZZA D’ESISTERE E CONSAPEVOLEZZA DI SCEGLIERE. IL PENSIERO, PER ESSERE GRADITO AI PIU’, DEVE PRESENTARE FORMA ESSENZIALE, CONTENUTO PREGNO, E SCORRERE ARMONIOSO NEL SUO DISPIEGARSI, COMPRENSIBILE E CONDIVISIBILE PER CHE EQUILIBRATO IN OGNI SUA PARTE ; VA DA SE CHE, SE SCRITTO, RIVEDUTO E CORRETTO PUO’ SODDISFARE CHI LO ESPRIME E CHI LO ACQUISISCE, RIMANENDO LAPIDARIO NELLA MENTE E NEL CUORE DI CHI LO VUOLE CAPIRE E/O ADOTTARE .

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Autore

a.toscano@minima.it

Anna Toscano vive a Venezia, insegna presso l’Università Ca’ Foscari e collabora con altre università. Un’ampia parte del suo lavoro è dedicato allo studio di autrici donne, da cui nascono articoli, libri, incontri, spettacoli, corsi, conferenze, curatele, tra cui Il calendario non mi segue. Goliarda Sapienza e Con amore e con amicizia, Lisetta Carmi, Electa 2023 e le antologie Chiamami col mio nome. Antologia poetica di donne vol. I e vol. II. Molto l’impegno per la sua città, sia partecipando a trasmissioni radio e tv, sia attraverso la scrittura e la fotografia, ultimi: 111 luoghi di Venezia che devi proprio scoprire, con G. Montieri, 2023 e in The Passenger Venezia, 2023. Fa parte del direttivo della Società Italiana delle Letterate e del direttivo scientifico di Balthazar Journal; molte collaborazioni con testate e riviste, tra le altre minima&moralia, Doppiozero, Leggendaria, Artribune, Il Sole24 Ore. La sua sesta e ultima raccolta di poesie è Al buffet con la morte, 2018; liriche, racconti e saggi sono rintracciabili in riviste e antologie. Suoi scatti fotografici sono apparsi in guide, giornali, manifesti, copertine di libri, mostre personali e collettive. Varie le esperienze radiofoniche e teatrali. www.annatoscano.eu

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