
Foto di Mikhail Pavstyuk su Unsplash
Leggendo una poesia di Roberto Bolaño, per il canale streaming di «Decamerette», ho involontariamente sostituito in piedi ci sono solo i cordoni / della polizia con in piedi ci sono solo i cordoni / della poesia, mi è parso da subito uno dei più bei refusi di sempre. L’idea di una nuova rubrica è nata quel giorno, un appuntamento che facesse l’esatto contrario di ciò che fanno i cordoni della polizia: avvicinare. Accorciare le distanze. Per ogni numero si parlerà di una, due o più poesie, di vari poeti, cercando un filo comune, facendo sì che versi lontani si tengano per mano.
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Prendiamo qualcosa che precipita e finisce al suolo, come pioggia, come neve, e facciamo finta che quel qualcosa sia tutto, che niente possa rimanere troppo tempo in alto. Poi però tutto ciò che cade a terra cosa fa? Sparisce, smentisce, si rivitalizza, si scioglie, torna in altre spoglie, sosta lungo le soglie, gli argini. Prendiamo un disturbo, una nevrosi, qualcosa che esiste e subito dopo si sottrae. Smentiamo ogni nostra convinzione e ricominciamo daccapo. Guardiamo a una deriva, a qualcosa che stride, a un disturbo visivo, acustico, a una mancanza di immaginazione e di immaginario. Proviamo a osservare l’inesistente, ovvero quello che appare tra una cosa tangibile e l’altra. Prendiamo il fango, ricaviamone qualcosa. Stiamo nel tremito e nelle cose a venire. Cosa è storia e cosa è futuro. Cosa è in fondo la poesia, niente poco meno di niente e così può piovere, come nei testi di Clelia Verde, può stare insieme alle visioni notturne, tra ruggine e nuvole, come nelle parole di Cristina Alziati, oppure può essere smentita come una vertigine che sale e si riavvolge su sé stessa, farsi bianco e smentirlo scrivendosi, come nei versi di Silvia Patrizio.
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«Carinaro.
È incredibile che con questo caldo riaprano le fabbriche.
Soprattutto questa, dove m’insegnarono le sirene di fine
turno del metalmeccanico.
I tagli delle lamiere sulla carne, la certificazione ISO e
mettici tu il dannato numero che più ti aggrada.
In itinere, al passaggio delle bufale, bastava spegnere
il motore della macchina a aspettare.
E io aspettavo, e fra un memo e l’altro mi chiedevo sempre
ma io, qui, cosa ci sto a fare?
Oltre a scrivere al mio amico di penna, intendevo.
Me lo chiedo ancora, e mentre si sposa le linee riaprono».
Questa poesia apparentemente semplice di Clelia Verde, inclusa nella raccolta Piove tutto (Edda, 2022) racchiude molti scenari. Gioca con il tempo e con la memoria, con le cose che non ci sono più e con quelle che ritornano, se tutto piove, tutto ritorna, ricompare e si ripropone in una nuova forma, sostanza sfumata se vogliamo, ma presente. E allora una vecchia fabbrica che riapre scatena un cortocircuito che riporta indietro odori, scenari, visioni di altri tempi, d’infanzia e giovinezza. Ed ecco che compare un passaggio a livello, che non è quello per i treni, ma solo un livello naturale cui ci si adegua. Passavano le bufale, nelle campagne del casertano e tagliavano le strade, chi arrivava in macchina faceva, senza bisogno di segnali, quello che facciamo mentre attendiamo il passaggio di un vecchio regionale. Spegneva il motore e attendeva. E Clelia Verde scrive di un’altra attesa, quella per la vita, con la voglia che da giovani si sente per andare altrove senza bufale ma con grattacieli, con possibilità, I sogni sono un teatro strano e gli ultimi due versi, accelerando, mettono insieme una ragazzina che scrive a un amico di penna e la donna che aspetta di nuovo che una linea venga riaperta, e il tempo diventa uno solo, splash, e l’amico di penna oggi e sempre si sposa. La potenza dei ricordi, la consapevolezza che le cose vanno eppure mai del tutto, qualcosa rimane, sta da qualche parte, e allora tentiamo un racconto, pioviamo insieme al resto, cadiamo ma senza timore. Verde più avanti scrive che la poesia è Dio sotto mentite spoglie, viene da pensare che la poesia è meglio, perché siamo sicuri che esista, Dio chissà.
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Come ricavare dal fango
il senso corale del danno?
Ci si addestra a enumerare
i personaggi della storia:
la matta l’adultera la vedova
la madre la croce l’esercito
di girasoli in marcia compatta
a rinominare la luce.
Mettendoci mani e cuore, volendo rispondere alla domanda dei primi due versi di questa poesia di Silvia Patrizio, ma falliremmo, ogni domanda in poesia contiene molte risposte che non sempre cogliamo e apre ad altre numerose domande, nuove che siano, o vecchie formulate in altro, modo, forse migliore. L’autrice indaga il passato, la memoria, ma in maniera libera, senza timori, cercando di far dialogare i tempi e il tempo attraverso versi compatti, freschi, che alternano molto bene luci e il loro contrasto/contrario. Dove c’è il colore giallo di un fiore, compare l’ombra da contrapporre o, al contrario, come accade in questa poesia, in cui quello che appare un mero elenco di personaggi, come quelli dei tarocchi, che siano matta, adultera, vedova o che si amplino in figure simboliche come la croce, insieme con ritmo e in assenza di virgole, affinché non ci si perda un passo, inesorabili, diventano un bellissimo esercito di girasoli che chiaramente vediamo. Un esercito di girasoli che marcia compatto cui viene affidato il più importante dei compiti, la più decisiva delle missioni: rinominare la luce. In un’altra poesia leggiamo poi c’è il resoconto del dolore come se anche di questo si potessero offrire una serie di appunti, magari un elenco scritto punto per punto, ma l’autrice sa che non si può e di nuovo sposta con un balzo la nostra attenzione l’alfabeto che precipita su tutto, di cicatrici / che si avverano e noi le vediamo, la cicatrice è un segno, se si avvera ritorna in vita, ci riporta alla ferita.
La poesia di Silvia Patrizio è tratta da Smentire il bianco, Arcipelago edizioni.
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L’amàca
Con certezza posso dire soltanto
contro che cosa, a volte, ho scritto. Il resto?
Oltre la notte dondola
fra luce e buio la mia amàca
tesa ai margini acuti di grazia
che un fiore
la ruggine dei rovi trafiggendo
ostende.
Due versi aprono questa poesia di Cristina Alziati, e apparentemente chiudono con una domanda: Il resto? Ma non è proprio così, non è soltanto così, perché quel resto è anche una risposta, un certificato, un mondo altro che s’apre, una visione come quelle che spesso accompagnano i versi di Alziati. Il testo è tratto da Quarantanove poesie e altri disturbi (Marcos y Marcos, 2023), un libro pieno di grazia, di prospettive universali e piccoli gesti, nuvole, cieli, stelle e poi stanze semivuote, oggetti che vogliono parlare, cucine piene di presenze – come in certi romanzi sudamericani -, che sia un po’ sudamericana pure la poeta nata a Bolzano, ogni tanto mi domando. Vengono questi pensieri perché la letteratura e – in modo speciale – la poesia toglie di mezzo i confini e quando leggiamo il verso tesa ai margini acuti di grazia non pensiamo andare a certi scenari dei racconti di Silvina Ocampo e infatti ci andiamo. Torniamo ai primi due versi, Alziati, decreta di essere certa – riguardo alla scrittura – di sapere solo contro che cosa (e nemmeno sempre) ha scritto. La poeta sa che in fondo solo contro si scrive sul serio, anche quando si scrive di una carezza o di un bacio, mettere la penna all’inizio della pagina significa porre in essere una sfida. Poi però c’è il resto, che si dispiega in sei versi che paiono sovvenire da altri mondi, altri poesie. E sono fatti di grazia proprio come il verso citato prima e ostendono – e noi ringraziamo – un fiore trafitto dalla ruggine dei rovi. Ci si può commuovere per molto meno. La poesia fa questo, ondeggia tra reale e visione, come l’amaca di Alziati che dondola e ci trasporta altrove, senza riserve. E questo è il resto, ciò che conta. Un verso chiude una poesia: Vedo da vetri di carta la notte sfinita sfinire e noi da quei vetri guardiamo e come la notte – grazie alla poesia – sfiniamo.
Gianni Montieri, è nato a Giugliano in provincia di Napoli. Scrive per Doppiozero, minima&moralia, Esquire Italia, Huffpost e il manifesto, tra le altre. Prova a incrociare la letteratura con lo sport per L’ultimo uomo, Rivista Undici. I suoi libri di poesia più recenti sono Ampi margini (2022) e Le cose imperfette, editi da Liberaria. Ha pubblicato per 66thand2nd due titoli Il Napoli e la terza stagione e Andrés Iniesta, come una danza. Vive a Venezia.
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