di Sofia Rigoli
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Del mio cane mi sono sempre fidato. È un beagle piccolo e vecchio, siamo cresciuti insieme. Viviamo in una zona ad alto rischio di incendi, dove le foreste che ci circondano passano più tempo a bruciare di quanto non ne passino a respirare aria pulita. Sin dal primo momento in cui ha messo piede in casa nostra, il cane ha cominciato ad abbaiare a ogni canadair che attraversasse il cielo. Abbaiava come un forsennato, come se fosse posseduto. La cosa peggiore era che sembrava saper riconoscere un velivolo dall’altro. Mai una volta che abbia abbaiato a un elicottero o a un aeroplano: erano solo i canadair a infastidirlo. Perciò mia madre lo aveva chiamato Canadair. Io ho sempre pensato che era stata una cattiveria chiamarlo come la cosa che odiava di più, ma ormai il nome del cane era quello e nessuno glielo poteva togliere. I miei genitori me lo hanno comprato quando avevo undici o dodici anni con la scusa che non avevo amici e stavo sempre a casa. Più o meno ha funzionato, perché effettivamente io e lui abbiamo passato tutti i giorni insieme negli ultimi dieci anni.
A quei tempi mia madre e mio padre dicevano a tutti che ero un bambino introverso e timido e riservato e tutte queste frasi fatte che aiutano i genitori a inquadrare i figli in modo da spiegarsi perché sono venuti fuori in un certo modo. In realtà non ero né introverso né timido, forse un po’ riservato sì, ma neanche troppo. È che semplicemente non mi piacevano gli altri bambini. I miei compagni mi sembravano degli alieni che non sapevo come approcciare ma soprattutto che non mi interessava approcciare. Parlavano un’altra lingua, e per quanto mi sforzassi io la loro proprio non la comprendevo. Discutevano di calcio o di videogiochi o non so che altro, ma a me sembrava di sentire solo un sacco di rumore uscire dalle loro bocche. Pensavo fosse una cosa dovuta all’età, speravo sarebbe cambiato tutto andando al liceo, invece semmai era peggiorato. I ragazzi si erano messi a parlare di ragazze e di culi e di tette e io non sapevo che farmene di tutte quelle chiacchiere.
In ogni caso, i miei genitori avevano cominciato a preoccuparsi. Da che mi avevano preso il cane per non rimanere da solo il pomeriggio a che mi rimproveravano di passare troppo tempo chiuso in casa con lui. È più o meno in quel periodo che ho iniziato ad andare dallo psicologo. Io non ci volevo andare, naturalmente, però i miei hanno insistito così tanto che ci ho rinunciato e li ho accontentati. Andare dal dottore Falaci non mi è mai piaciuto, l’ho sempre trovato senza senso. Negli anni mi ha diagnosticato una quantità infinita di disturbi che non sono nemmeno sicuro esistano, e che sono assolutamente sicuro di non avere. Ora, non ho la pretesa di essere la persona più sana su questa terra, però mi sembra logico non mi voglia fidare di qualcuno il cui guadagno è direttamente proporzionale a quanto malato sono.
Non mi veniva difficile spiegarmi perché ogni anno diceva ai miei genitori che avevamo ancora molto lavoro da fare insieme, che ero un ragazzo fragile e sensibile e così via. Mi ero ripromesso che appena avrei fatto diciotto anni avrei smesso immediatamente, e invece ho continuato ad andarci comunque, più per abitudine che per altro. Finalmente a un certo punto mi sono deciso: sono entrato nel suo studio e gli ho detto che quello sarebbe stato il nostro ultimo incontro. Lui non sembrava molto sorpreso, non sembrava interessargli molto in generale. Mi aspettavo avrebbe provato a convincermi o quantomeno mi avrebbe chiesto di rifletterci su, e invece niente. Avevo scelto di smettere di vederlo perché i nostri incontri stavano diventando frustranti. Mi sembrava di non avere nessuno nella mia vita che fosse sincero con me. Nessuno che mi dicesse “sì, qui hai sbagliato,” o che si arrabbiasse con me.
Erano tutti degli ipocriti, i miei genitori in primis e il mio psicologo di certo non era da meno. Mi dicevano sempre che tutto era risolvibile, che non avevo fatto niente di tragico, che il tempo avrebbe sanato ogni cosa. Ogni cattiveria che usciva volontariamente dalle mie labbra diventava un “malinteso” e ogni provocazione un “fraintendimento che si può chiarire.” Ho sempre creduto di non avere una corretta percezione della realtà, e se nessuno mi corregge quando faccio qualcosa di sbagliato, smetto di credergli ogni volta che mi dicono che non l’ho fatto. Per questo le sedute con lo psicologo stavano diventando più inutili del solito, perché se non puoi contare sulla sincerità di qualcuno allora non puoi contare affatto su di lui. Mi sono detto che tanto a casa c’era sempre Canadair ad aspettarmi, e che alla fine a lui andavo bene così.
Da quel momento in poi ogni giovedì pomeriggio sarei stato libero dagli impegni, e la cosa mi disturbava. Gli altri pomeriggi della settimana erano altrettanto vuoti, perché non avevo mai niente da fare. Uscivo raramente (e comunque sempre la sera), e non andavo in palestra né niente del genere, però queste ore libere di giovedì pomeriggio mi rendevano irrequieto. L’idea che per diversi anni della mia vita quello spazio era stato impegnato dalle sedute mi portava a sentire un buco nella mia quotidianità. Ero annoiato e frustrato e la cosa influenzava il resto della settimana. In quel periodo ero assonnato senza fare niente, mangiavo poco e spesso come una mosca, accontentandomi di qualsiasi scarto trovassi in frigorifero. Avevo rare interazioni sociali, nessuna amicizia, vivevo bene senza alcun interesse che funzionasse anche solo da passatempo e senza respirare aria pulita. Sapevo che mi mancava qualcosa, però non ne sentivo la mancanza.
Qualche sera mi costringevo a uscire, andavo a prendere una birra con i miei vicini di casa, nel bar in fondo alla strada. Avevo smesso di studiare, l’università mi annoiava. Mi ero detto che avrei iniziato a fare qualcos’altro, ma non mi ero mai deciso su cosa. Così i miei genitori avevano continuato a pagare gli studi a vuoto e io mi ero inventato che avevo solo allentato la presa per concentrarmi meglio (d’altronde ingegneria è una facoltà seria, importante, mica tipo lettere o filosofia che non servono a niente e che potrebbero seguire pure i ragazzini delle medie). Ogni tanto mi inventavo di aver fatto un esame e riferivo qualche voto che fosse nella media, né troppo alto da non essere credibile né troppo basso da essere preoccupante. Loro ci cascavano ogni volta.
Avevo smesso di andare a lezione perché avevo litigato con un professore che sosteneva che le università fossero accessibili a tutti, mentre io insistevo che fossero diventate delle aziende private e mi rifiutavo di credere che non lo sapesse anche lui. Mi aspettavo che i miei colleghi sarebbero stati d’accordo con me, mi aspettavo che mi avrebbero difeso. E invece erano intervenuti a turno per condividere il loro punto di vista che si allineava perfettamente con quello del professore: non è vero che il diritto allo studio non è di tutti, del resto ci sono le borse di studio. Una collega in particolare si era alzata in piedi, mi aveva guardato negli occhi e mi aveva detto che io non avevo comunque nessun diritto a lamentarmi, perché al contrario di lei non partecipavo attivamente alla vita politica universitaria. Il primo anno lei e la sua associazione avevano cercato di arpionare anche me invitandomi a riunioni e seminari, ma io mi ero divincolato non appena avevo capito. In ogni caso, il professore mi aveva invitato a sedermi e lasciare che la lezione proseguisse oppure a andare via. Non ricordo cosa ho detto, uscendo dall’aula, ma ricordo di aver giurato che non mi sarei più costretto a stare in una stanza con gente così. La cosa peggiore era il modo in cui parlavano tra di loro, come se fossero tutti intellettuali sessantottini figli di impiegati statali e non figli di medici e notai. Per come li vedevo io, erano tanti piccoli finti-anarchici che trovavano la loro libertà nel sedere ordinati in fila per due.
La gente crede di essere intelligente solo perché ha un’opinione. Io ho un sacco di opinioni, ma almeno non penso di essere intelligente. Anzi, proprio perché so di non esserlo me ne sto zitto a casa mia e al massimo parlo con il cane, invece di torturare tutti con le mie teorie e supposizioni. In un certo senso, però, ero incuriosito da come i professori riuscissero a persuadere intere aule di centinaia di persone facendogli credere di avere ragione, un po’ come faceva la telepredicazione degli anni ’80. Pensavo che anche io sarei stato bravissimo in un ruolo del genere, e per un periodo mi ero convinto che avrei dovuto fare il venditore, uno di quelli porta a porta. Sarei stato capace di vendere qualsiasi stronzata a chiunque, agli uomini in giacca e cravatta appena tornati a casa dopo lavoro che non vedono l’ora di mettersi a tavola e ti darebbero qualsiasi cosa pur di farti andare via oppure a quelle povere casalinghe, così disperate che la mia visita sarebbe stata la parte più interessante della loro giornata.
Prendere in giro la gente non mi è mai venuto difficile. Non perché la mia bussola morale fosse malfunzionante, ma perché quello era semplicemente il modo in cui girava il mondo e io non ci vedevo niente di male.
Però non è vero che non mi interessava di niente e di nessuno. Anzi, certe volte mi sembrava di essere condannato a volere più bene agli altri di quanto gli altri ne volessero a me. Credevo che mia madre e mio padre mi volessero bene, però non ne ero sicuro. A volte mi sembrava che fossero semplicemente affezionati a me, un po’ perché dovevano, perché ero il frutto del loro sangue e della loro carne, e un po’ perché vivevo sotto il loro tetto. A parte i nostri legami di parentela, non trovavo nient’altro che avessimo in comune. Non c’era niente che ci unisse o che ci avvicinasse tra di noi, niente che mi facesse pensare che mi avrebbero voluto bene anche se non fossi stato loro figlio o che gli sarei anche solo stato simpatico. Pure Canadair mi voleva bene, però certe volte quando aprivo la porta d’ingresso e me lo trovavo davanti, mi ritrovavo a pensare che anche lui mi scondinzolava perché voleva da mangiare, perché io gli servivo per sopravvivere, non perché era contento di vedermi e basta. E avere bisogno di qualcuno non è la stessa cosa di volergli bene.
A volte invece pensavo che fosse più lui a fare compagnia a me che il contrario, come avevano pianificato i miei genitori anni prima. Voglio dire, lui sarebbe stato benissimo anche senza di me. Io senza di lui mi sarei sentito solo. Alla fine la storia del cane che è il migliore amico dell’uomo è una cazzata che ci siamo inventati perché i cani con noi non ci sanno parlare, e a noi fa comodo credere che qualcuno che non può comunicare con noi se potesse comunicare ci direbbe che ci ama.
Una di queste sere in cui ero tornato a casa brillo e confuso, avevo aperto la porta e avevo trovato Canadair davanti a me. Mi aspettavo che mi avrebbe accolto come ogni altro giorno avvicinandosi con la coda allegra, invece aveva cominciato ad abbaiarmi contro. Avevo allungato la mano verso di lui per accarezzarlo, per fargli vedere che ero io, e lui invece mi aveva morso. Non mi aveva riconosciuto. Saltai indietro, ma ormai il danno era fatto. Aveva affondato i denti nella mia carne con convinzione e mi aveva lacerato il palmo. Lo avevo guardato sconvolto e impaurito. Non capivo il motivo di quell’aggressione, mi sentivo ferito. Mi ero chiesto se fosse possibile che avesse intuito che avevo avuto dei dubbi nei suoi confronti, e mi ero impegnato per ricordarmi che era solo un cane, che non solo non poteva capirmi ma che di certo non poteva leggermi nel pensiero. Rimaneva però il fatto che ero stato tradito dal mio unico amico. Canadair non sapeva di esserlo, non conosceva il peso di quel morso ingiustificato. Magari aveva le sue ragioni, chissà. Forse amici non ne avevo e non ne avevo mai avuti. Non me la sentivo di rimanere nella stessa stanza con lui e non avevo il coraggio di attraversare il corridoio per raggiungere la mia camera, così decisi di aspettare fuori casa. Chiusi la porta dietro di me e mi sedetti sul pianerottolo con la mano sanguinante stretta nel giubbotto. Cercai di ricordarmi a che ora sarebbero iniziate le lezioni il giorno dopo: se mi fossi svegliato presto magari avrei fatto in tempo ad andare.
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