Photo by Natalie Parham on Unsplash

di Michele Orti Manara

Cosa fanno le persone quando non le stiamo guardando?

In pubblico fingiamo tutti così tanto che non c’è modo di sapere quel che succede quando torniamo a casa, la serratura scatta, e restiamo soli con le nostre cose, i nostri difetti, i nostri odori.

Vale per tutti quanti, in qualsiasi momento.

Vale anche per me, quando venduti gli ultimi biglietti per uno spettacolo apro la porta dello sgabuzzino e poi me la chiudo alle spalle.

Cosa ci sarà là dentro? pensano gli ultimi spettatori mentre entrano in sala, ma probabile sia un pensiero fugace, perché poi il buio della sala se li inghiotte, e comincia il film.

 

Quando mia sorella e io abbiamo undici e dodici anni, e la naturale smania di avere la casa libera il più possibile, un pomeriggio lei tra un sorso di succo di frutta e un morso a un biscotto chiede a nostra madre: «Come mai tu non lavori?».

E lei, che ha davanti tre teglie, una pentola traboccante di ragù e un continente di pasta tirata a mano, senza voltarsi dice: «Perché le tue mutande non si lavano da sole, perché la spesa non viene fin qui sulle sue gambe, e perché se no nessuno avrebbe tempo di occuparsi di queste lasagne del cazzo».

È la prima e ultima volta che dice una parolaccia davanti a noi, che capiamo l’antifona e stiamo buone e zitte finché due ore dopo suonano alla porta, papà è tornato e con lui altri tre uomini che si siedono tutti a tavola, uomini che per noi sono solo nomi di battesimo, tappi che saltano, cenere di sigaretta tra le pieghe della tovaglia e aneddoti che a giudicare dallo sguardo severo di nostra madre non sono adatti a due ragazzine della nostra età.

Anni dopo riconosceremo quegli uomini su riviste, in televisione, invecchiati e osannati come il meglio che il cinema del paese abbia da offrire al mondo.

Hanno mangiato gomito a gomito con mio padre decine di volte, condividendo teglie su teglie di lasagne del cazzo, forse gli hanno anche voluto bene, eppure nessuno di loro – neanche quelli con cui allora mio padre condivideva con generosità le scarse briciole di fama che riusciva a raccattare con fatica e passione – nessuno di loro quando ha visto schiuderglisi davanti le porte del successo si è voltato indietro per portare mio padre con sé.

O forse quelle porte erano un po’ basse, forse per attraversarle era necessario chinare un po’ la testa, ed è stato lui a rifiutarsi di farlo, allergico com’era ai compromessi.

Difficile da dirsi, adesso.

E ormai, chi se ne importa.

 

A un certo punto, pochi mesi dopo l’episodio delle lasagne, nostra madre si ammala.

Non so quale sia stata la diagnosi ai tempi, se succedesse adesso credo che sarebbe: esaurimento nervoso. Fatto sta che non si alza più dal letto, smette di occuparsi della casa, e di noi.

Nostro padre in quel periodo sta girando un film, convinto come sempre che sarà la volta buona, che finalmente il mondo si accorgerà di lui e del suo talento. Rinunciarci per occuparsi di una moglie infiacchita e due figlie in età prepuberale non è tra le opzioni che prende in considerazione (questo non è un ricordo ma una deduzione che mi posso permettere adesso, e su cui non ho dubbi: non c’è nessuno che posso dire di aver conosciuto più in profondità e con infallibile precisione di mio padre).

Insomma, mentre nostra madre vegeta sul letto, per un paio di mesi io e mia sorella stiamo sul set con lui – o meglio: per un paio di mesi veniamo affidate a Silvana, una vecchia costumista che ci riempie di attenzioni; e noi di rimando, ci affezioniamo a lei come alla nonna che non abbiamo mai avuto.

(Passato quel periodo nostra madre rinascerà, anche se non mi è chiaro come. Quello che ho detto su mio padre per lei non valeva: imperscrutabile, volubile, non ho mai imparato a conoscerla del tutto.)

In ogni caso, il set: mia sorella è affascinata dal lavoro di Silvana, passa ore a guardarla cucire abiti, a riadattarli, si fa spiegare tutto sui tessuti, le tecniche, i trucchi del mestiere.

I vestiti invece a me non interessano, a me interessano le facce.

Le facce degli attori che ascoltano le indicazioni di mio padre, sorridono per sua una battuta, e pochi secondi dopo – CIAK! – sono terrorizzati, piangono, muoiono.

Provo a esercitarmi a fare lo stesso davanti allo specchio, allegra triste curiosa divertita impaurita e poi da capo. Ma non è la stessa cosa, io fingo, loro cambiano davvero stato d’animo, e quello che succede alle loro facce è solo una conseguenza.

Sempre più spesso mi intrufolo nel camerino del trucco, con la silenziosa complicità della truccatrice. E lì osservo facce che impallidiscono, facce su cui sbocciano ferite, ma soprattutto una faccia che per esigenze di copione in una sola giornata di riprese invecchia tre o quattro volte, dai sessant’anni dell’attrice alle sue incarnazioni successive: posseduta, scarnificata, mummificata.

Dopo il primo invecchiamento dell’attrice mio padre entra in camerino. Non mi vede – o non gli interessa – si limita a guardare l’attrice riflessa nello specchio e dice: «Perfetto».

«Facciamo qualcosa anche per le mani?», chiede la truccatrice.

«Non occorre,» risponde lui «tanto inquadriamo solo viso e busto, non ne vale la pena».

L’attrice, lo avevo già notato prima, ha due mani bellissime: dita affusolate, nessuna macchia né irregolarità, e all’anulare della sinistra un anello con una pietra rossa grande come una nocciola (anello di sua proprietà, che anche mio padre nota, trova perfetto per il personaggio e le chiede di tenere addosso anche sul set).

L’attrice durante le sessioni di trucco tiene gli occhi chiusi, la testa immobile e leggermente reclinata all’indietro, ma le sue mani non smettono di muoversi, le dita che suonano uno strumento invisibile tamburellando sulla finta pelle bordeaux del bracciolo della sedia da trucco. Dita che sono il contrario delle mie, così tozze, sempre sporche di qualcosa, con le unghie mangiate fino alla carne.

Le osservo, così aristocratiche, rimanere sempre uguali mentre il viso a cui appartengono si accartoccia un po’ alla volta, uno strato di trucco alla volta.

Mentre gira la scena della seduta spiritica mio padre cambia idea. Decide che i primi piani della medium e degli altri partecipanti non bastano più, anche perché vuole a tutti i costi che l’occhio rosso dell’anello entri almeno in un’inquadratura. Quindi chiede ai macchinisti di ingegnarsi per una ripresa dall’alto – e quelli masticano una sequela di bestemmie, si arrabattano come possono, e alla fine portano a casa l’inquadratura dall’alto, in cui le mani dell’attrice si vedono eccome, stese sul panno scuro del tavolo. Lo spettatore medio, arrivato a questo punto, ha ancora negli occhi il viso spettrale della medium di qualche fotogramma prima, e non fa caso alle mani che non sono invecchiate.

Non mi viene in mente nulla che possa descrivere meglio di questo episodio quello di cui mio padre era capace quando lavorava: convincere due macchinisti sovrappeso ad arrampicarsi su una scala (uno per filmare e l’altro per tenere il primo sospeso per la cintura), e portare a casa una scena piena di difetti e incongruenze di cui nessuno si accorgerà perché troppo occupato a guardare altrove. Un gioco di prestigio fatto con una tuba sfondata e un coniglio di pezza, eppure un gioco di prestigio che funziona.

Quando quella giornata di riprese finisce io sono di nuovo nel camerino dove la truccatrice rimuove uno strato alla volta le fasi della possessione dal viso dell’attrice. Prima lo avevo visto invecchiare un po’ alla volta, mentre adesso ringiovanisce, e mi sembra che questo prendersi gioco del tempo riassuma tutta la grandezza del cinema. Del resto, di riflesso, anche mio padre sul set mi sembra più giovane.

Mancano ancora sette anni al momento in cui mio padre mi metterà di fronte alla scelta tra studio e lavoro, ma alla fine di quella giornata, io ho già deciso che da grande seguirò le sue orme, che non c’è nulla che mi interessi di più che passare la vita sul set. Qualsiasi mansione andrà bene, mi dico, pur di restare a contatto con quello che ho visto accadere al viso dell’attrice.

Mi rimangerò tutto solo qualche settimana dopo, ma in nessun periodo della mia vita, neanche da adulta, sarò convinta di qualcosa con la stessa, inscalfibile certezza.

 

Un giorno, a inizio riprese, mentre beve e insulta un caffè che a suo dire è indecente, mio padre viene avvicinato con cautela da un’assistente.

«La vogliono al telefono» dice l’assistente, tormentandosi una ciocca di capelli.

Al telefono c’è la madre della ragazzina che avrebbe dovuto recitare le scene in programma quel giorno, e che invece è stata ricoverata d’urgenza per un attacco di appendicite. Ne avrà per almeno due settimane, forse tre.

«Potete aspettarla?» chiede la madre.

«Non possiamo no, cazzo!» grida mio padre, che già si sente braccato dai ritardi accumulati, dal costo del teatro di posa che sta mandando a catafascio il conto economico del film.

Sbatte giù il telefono e si rinchiude nel suo camerino senza dare ulteriori istruzioni.

Troupe e attori, senza niente da fare, passano tutta la mattina a bighellonare in giro per il set. I costumi appesi senza nessuno dentro, i rari prop di scena in lattice che sbucano dalle scatole di cartone e non fanno più paura.

Ogni tanto dal camerino di mio padre arriva un’imprecazione, o il rumore di qualcosa che viene preso a calci. E poi, mentre si stanno distribuendo i cestini per il pranzo, mio padre riemerge dal camerino, iperattivo.

«Mangiate in fretta,» dice «abbiamo perso tutta la mattina e dobbiamo girare le scene con la bambina entro oggi».

«Quindi la ragazzina viene?» chiede l’aiuto regista.

«No,» risponde mio padre «quella non viene. Ma ne abbiamo qui un’altra e usiamo lei, andrà benissimo».

Quando ci ha comunicato che saremmo andate al lavoro con lui in attesa che nostra madre si riprendesse, era stato molto chiaro: durante alcune scene, le più spaventose per ragazzine della nostra età, non ci sarebbe stato permesso di stare sul set. La decisione insindacabile su quali scene sarebbe spettata a lui.

«Quando vi dico di andare fuori seguite Silvana, senza fare storie. Non ho tempo e soprattutto voglia di ripetervi le cose cento volte, intesi?».

Intesi, ma adesso tutte le cautele sembrano essere state sacrificate per il bene del film.

Silvana mi fa provare due camicie da notte: la prima è troppo lunga, la seconda perfetta. Poi mi truccano appena, giusto un po’ di polvere chiara in faccia e un po’ di quella scura attorno agli occhi. Quando la truccatrice ha in mano un terzo pennello e io sto per chiedere a cosa serva, mio padre entra nel camerino, mi prende il mento tra pollice e indice, mi gira la testa verso destra e sinistra. «A posto così» dice.

Poi mi accompagna sul set, una mano tra le scapole che accompagna e nello stesso tempo spinge – un gesto che conosco bene, è quello che fa sempre nei momenti in cui un altro padre ti darebbe la mano. Percepisce qualcosa, forse si rende conto di essere stato troppo brusco prima, di non avermi neanche chiesto se me la sento.

«Andrà tutto bene» dice. «Ho bisogno che tu faccia solo un paio di scene, sarai bravissima. Bravissima».

Non me lo aveva mai detto prima, non me lo dirà mai più dopo.

La scena di svolge in una stanza da letto, potrebbe essere la mia se fossi figlia unica. Lenzuola color malva e un pupazzo appoggiato al cuscino, una scrivania con sopra qualche libro e una foto incorniciata, un armadio, una sedia con un vestito appoggiato sullo schienale, una specie di baule appoggiato al muro. La stanza non ha soffitto, e solo tre pareti. Al posto della quarta una decina di persone – aiuto regista, direttore della fotografia, macchinisti – sagome scure con gli occhi puntati su di me, sagome che bisbigliano e si aspettano qualcosa che io non sono sicura di potergli dare.

E poi c’è Silvana, seduta in un angolo su una sedia pieghevole, con le mani abbandonate in grembo. Riesco a vederle la faccia. Sorride, mi rassicura.

«Ti ricordi quando siamo andati al lago, due estati fa?» chiede mio padre, adesso anche lui un’ombra scura nel gruppo.

«Sì».

«E ti ricordi quando tua sorella ha perso il braccialetto, si è messa a piangere, e papà si è tuffato dalla barca per andare a recuperarlo? E allora ti sei messa a piangere anche tu, perché avevi paura che papà non riemergesse più?».

«Sì».

«Benissimo. Quello di cui abbiamo bisogno oggi è che quando te lo dico io tu ti ci ripensi, che tu riesca a sentirti di nuovo così. Pensi di potercela fare?».

Ecco come fanno, penso io. Ecco perché le mie facce allo specchio sembravano false, e quelle degli attori no: non fingono e basta, pensano a qualcosa che li faccia sentire come devono sentirsi durante la scena.

«Credo di sì» dico.

«Ottimo. Allora, dobbiamo girare due scene. All’inizio della prima tu sarai fuori da quella porta. La devi aprire, come se stessi giocando a nascondino. Non hai ancora paura, qui, d’accordo? Sei più che altro incuriosita ed eccitata da qualcosa che pensi di trovare dietro la porta. La apri piano piano, entri e guardi fissa davanti a te. Tutto chiaro?».

«Sì».

«Girata questa ci fermiamo un attimo, cambiamo un paio di cose, e quando ricominciamo tu pensi a quel giorno sul lago. Proviamo, dai. Signori, si gira».

Non sono sue le mani che mi prendono per le spalle e mi guidano fuori dalla porta, non è la sua la voce a dirmi «Resta qui finché non ti diamo il via».

E mentre sono lì, immobile, le ombre si muovono, prendono posizione, abbassano le luci. La stanza adesso è immersa in una penombra azzurrina, una notte simulata che renda possibile vedere quello che succede, mentre il corridoio dove sono io si accende di una sfumatura gialla/arancione.

«Ciak…», urla una voce, «Azione» urla, e poi mio padre inizia a guidarmi come fossi un cane, o un burattino.

«Avvicinati alla porta, così, sei curiosa, vuoi sapere cosa c’è dietro, piano, così, adesso aprila un po’ alla volta, perfetto, inizia a entrare ma fermati sulla soglia, ancora un po’, ancora un po’, adesso fai due passi avanti, uno, due, ferma! Ferma lì! Stooop!».

«Ottima» dice mio padre. «Per ma va bene, usiamo questa».

Io cerco la sua faccia ma ho un faretto puntato negli occhi, mi devo accontentare della soddisfazione che sento nel tono della sua voce.

Silvana con le mani mima un applauso muto, sembra fiera e quasi commossa, mi sento bene, mi sento al mio posto, sempre più convinta che nel mio destino ci sia il cinema. Penso a mia sorella che starà giocando a fare la sarta in un camerino mentre la piccola Arianna è qui, al centro dell’attenzione, è un’attrice ormai, raggiante, bravissima Arianna.

Poi inizia la scena successiva.

«Resta lì dove sei» dice mio padre, mentre tutto attorno le sagome si muovono, fanno cose che non riesco a vedere, invadono la stanza, e trascinandosi dietro la cinepresa si piazzano a due metri da me.

Non riesco più a vedere Silvana, ho caldo, la camicia da notte mi pizzica la schiena.

La cinepresa si avvicina ancora, occhio scuro e senza espressione.

«Adesso guarda fisso davanti a te, e pensa al lago, d’accordo? Tu pensa solo a quello, poi quello che ti sta spaventando nel film lo aggiungiamo dopo, nel montaggio».

Ciak, azione.

E allora io provo a tornare a quel pomeriggio, afoso come l’aria dentro agli studios, l’odore viscido del lago, la testa di papà scottata dal sole là dove i capelli sono radi, la sua testa che si immerge, ci penso e guardo fisso nella cinepresa…

«Stooop» urla mio padre. «Arianna, non devi guardare dritto in macchina, se no la scena non funziona!».

Non credo che a questo punto stiano girando, ma se lo facessero sulla pellicola ci sarei io che incasso la testa nelle spalle – il mio marchio di fabbrica, la mia firma quando qualcuno mi critica.

E mio padre, che mi conosce bene almeno quanto io conosco lui, esce dall’ombra, si avvicina e si inginocchia.

«Nina,» dice, e il diminutivo non è casuale «colpa mia che non te l’ho detto prima, colpa mia. Ora, ascolta. Guarda fisso un punto, una spanna a sinistra della macchina, e pensa al lago, ok?».

«Ok» dico, con la sensazione che sia più preoccupato della buona riuscita della scena che del mio stato d’animo.

Poi il rito riparte daccapo, ognuno al suo posto, si gira, e io che mi ripeto in testa: una spanna a sinistra, il lago, una spanna a sinistra, il lago, ma a forza di ripeterlo mi concentro sulla ripetizione e non su quel che dovrei fare, e quando me ne rendo conto è già tardi, perché mio padre sta già urlando.

«Stooop! Arianna concentrati però, cazzo! A cosa stai pensando? Torna sulla terra, torna al lago, su!».

E ricominciamo, tutto da rifare, è come uno di quegli incubi in cui le cose si ripetono e tu puoi solo stare a guardare.

Stavolta parto bene, fisso il punto immaginario, mi sembra di riuscire a sentire il fruscio della pellicola nella macchina da presa, mi sembra di vederla, un lembo di strada lucida e sempre più corta tra me e la fine di questa giornata che si sta dilatando all’infinito, torno al lago, ci sono, e in quel momento mio padre urla «Il lago, Arianna, papà sta affogando e non lo vedrai mai più, papà ti sta abbandonando, ti lascia da sola!».

Funziona.

Quando arriva lo stop Silvana si avvicina e mi fa i complimenti, e così fanno altre due o tre persone della troupe, io ringrazio ma non riesco a liberarmi dall’inquietudine, dal pensiero che non è stato il ricordo del lago a guidarmi, l’orrore che avevo in faccia non derivava dalla paura di non vedere più riemergere mio padre, ma da quella di deluderlo ancora una volta, qui e ora, di costringerlo a interrompere di nuovo la scena.

Invece è soddisfatto, dice che la scena è buona, e io ho finito. Hanno finito tutti, almeno per oggi. Iniziano a smontare mentre io sono ancora lì impalata, senza che nessuno mi dica cosa fare. La stanza, la mia stanza nel film, nel giro di pochi minuti non esiste più, ne resta solo il pavimento.

Mi ritrovo in camerino con Silvana, che mi sfila la camicia da notte dalla testa e quando mi si strofina sul naso sento odore di canfora, di cipria e di sudore non mio.

Mi rimetto i miei vestiti e quando esco dal camerino c’è mia sorella, che mi fissa mi invidia non parla.

Non parlo neanche io, non le dico che non sono stata io a chiedere di recitare e che comunque è stato orribile, che mi ha fatto sentire come un animale raro e deforme in una teca di vetro.

Non dico nulla perché non servirebbe a toglierle quello sguardo torvo dalla faccia, e perché ho passato tanto di quel tempo a invidiarla che almeno per una volta siamo pari.

 

Appena finite le superiori, mio padre mi chiede: «Che vuoi fare, studiare o lavorare?».

«Lavorare» dico io, che della scuola ne ho abbastanza da un po’.

«E che lavoro?».

«Non saprei, uno qualsiasi».

«Non credere che avrai molta scelta, se smetti di studiare».

«È uguale» dico io. «Va bene anche la commessa, o la cassiera in un supermercato».

«Be’, il miglior film horror di tutti i tempi è ambientato in un supermercato» dice lui accendendosi una sigaretta.

Ma non fa a tempo a occuparsi di quello che farò, perché due mesi dopo, durante un alterco con il responsabile della casa di produzione che ha finanziato quello che secondo lui sarà senza dubbio il suo capolavoro, mio padre viene stroncato da un infarto.

Al suo funerale riappaiono tutti quelli che anni prima hanno mangiato alla nostra tavola, vengono intervistati, lodano le qualità di mio padre, la sua visionarietà, qualcuno in uno sprazzo di sincerità fa cenno anche al suo caratteraccio.

Li odio, uno per uno.

Ma rivederli mi fa sentire di nuovo quel profumo, mi rimette addosso la smania di avere a che fare col cinema. Una parte di me crede che sia destino, un’altra non crede nel destino ma non fa alcuna differenza perché non crede in nulla.

E così, mentre è mia sorella che finisce alla cassa di un supermercato, mia madre usa la fama di mio padre – seppure postuma e di nicchia – come referenza per me, e ottiene qualche colloquio di lavoro.

Solo un vecchio amico di mio padre alla fine passa sopra alla scarsità delle mie competenze e mi fa una proposta. Possiede alcune sale in città, e in una di quelle si è appena liberato un posto come cassiera.

La paga è discreta, l’ingratitudine è peccato, accetto.

Dopo qualche mese scopro che nel cinema in cui lavoro, sotto le scale che portano alla galleria, c’è uno sgabuzzino. Scaffalature che vanno dal pavimento al soffitto, polvere, merde di topo negli angoli, qualche scarafaggio che corre a nascondersi appena accendi la luce, e centinaia, forse migliaia di locandine dei film che sono stati proiettati in sala da quando il cinema è stato aperto.

Nei vent’anni che ho lavorato come cassiera ho passato in quello stanzino tutti i tempi morti tra un ingresso e l’altro, e buona parte delle pause pranzo, a frugare in quell’immenso archivio privo di qualunque criterio. Tiro fuori un poster ripiegato, lo apro, leggo i nomi del regista degli attori. Alcuni film li ricordo, di altri non ho mai sentito parlare. Quando la pausa finisce e torno al mio posto lascio impronte di polvere sui biglietti che vendo, sulle banconote che maneggio. E aspetto solo che la prossima proiezione cominci, aspetto di tornare nello sgabuzzino e pescare un altro poster, e poi un altro ancora, con la cocciuta convinzione che prima o poi mi capiterà tra le mani quello di un film di mio padre. Magari proprio quello in cui ho fatto la mia unica apparizione come attrice.

Quando sono sola nello stanzino, quando nessuno mi guarda, penso a papà che affoga, e cerco di salvarlo come posso.

 

Condividi

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Autore

redazione@minimaetmoralia.it

Minima&moralia è una rivista online nata nel 2009. Nel nostro spazio indipendente coesistono letteratura, teatro, arti, politica, interventi su esteri e ambiente

Articoli correlati