di Francesca Giannoni
“Blocchi di turchese”, “cime natie libere”, “mare in tempesta pietrificato”: queste sono immagini letterarie usate per descrivere le Alpi Apuane, una fila di vette che si stacca dell’Appennino e si affaccia sul mar Tirreno.
Ciascuna di esse porta un nome che si lega a secoli di storia popolare: “Sagro”, “Altissimo”, “Croce”, “Grondilice”. Negli anni Trenta Fosco Maraini scalava queste cime, ispirandosi poi ai loro nomi per scrivere le sue poesie metasemantiche.
La cima più alta arriva fino a un massimo di 1947 metri, sufficienti perché figure come Carlo Carrà e altri pittori le dipingessero. Il monte Pania compare nell’Inferno dantesco (Pietra Pana), ed è rappresentato anche nella Galleria delle Mappe Geografiche dei Musei Vaticani.
In virtù di rapporti culturali come questi, che nascono dal dialogo tra individuo e paesaggio, lo scrittore Eugenio Turri ha coniato l’espressione di “iconemi”, ovverosia elementi segnici che, se sommati, restituiscono l’immagine di un paesaggio sulla quale la popolazione fonda la propria identità.
Le Alpi Apuane sono iconemi versiliesi, ma anche una singolarità geologica globale, poiché si tratta di una finestra tettonica che, normalmente, si troverebbe all’interno della crosta terrestre. Invece affiora e porta con sé, in superficie, il marmo bianco, accecante desiderio di un’economia ormai parossistica del lusso, a discapito di un bene facente parte del patrimonio indisponibile comunale – la cui funzione è dichiarata pubblica dal Codice civile (art. 826).
E mentre il marmo di Carrara è celebrato e trasportato in tutto il mondo, le Alpi Apuane e il loro profilo culturale sono quasi misconosciuti, continuando a ridursi a causa di un silenzioso lavoro di escavazione, null’altro che la perdita di ciò che le compone.
Eppure, questi monti rientrano a pieno titolo in quello che si può definire un paesaggio culturale, tutelato dall’articolo 9 della Costituzione e da un’intera parte del Codice dei Beni Culturali e Paesaggistici (42/2004), che dispone piani per la tutela, dove compaiono espressioni come “esigenze di ripristino dei valori paesaggistici” e “minor consumo del territorio”.
C’è anche il trattato della Convenzione Europea del Paesaggio (Firenze, 2000) che fa leva sulla sensibilizzazione della società civile, incoraggiando ogni stato membro a riconoscere il paesaggio in quanto fondamento identitario della popolazione.
Da tempo, però, l’attività estrattiva che interessa le Alpi Apuane mina indelebilmente l’integrità paesaggistica, percorsa da una grande rete di cave, veri e propri portali d’accesso che immettono a una perdita incontrollata, quanto innecessaria, del nostro patrimonio.
Ci si è chiesti a lungo: come conciliare la salvaguardia ambientale e paesaggistica con la pressione antropica che induce al consumo del bene, seppur protetto?
La vicenda è complessa, oltre che secolare, e inizia con le denunce dei poeti latini «sicché se Ottaviano poté pensare di rendere Roma marmorea, udiamo ancora Plinio e Ovidio temere che si distruggano i monti stessi» (Magenta, 1877).
Si incontrano poi molti viaggiatori europei che lasciano opinioni deluse e varie perplessità nella letteratura artistica di questi paesaggi («mais ce sont les ouvrages de l’homme que j’accuse ici, et non ceux de la nature, qui sans doute serait partout belle en Italie, si on ne la contrariait pas», Louis Simond, 1828).
Un alpinista britannico di nome Douglas William Freshfield ebbe l’idea, nel 1876, di considerare il carattere paesaggistico al pari di un’opera d’arte, e scrisse «What Giotto’s Campanile is to Florence, this marble mount is to all Val d’Arno».
Oggi, nel 2025, l’equivalenza non viene ancora colta, i beni paesaggistici del Codice rimangono beni culturali che non ce l’hanno fatta.
Anche un giovane John Ruskin, nel 1840, passava davanti alle Apuane, annotando sul suo Diario Italiano che «è incredibile che questo splendido marmo debba essere cavato in uno degli scenari montani più belli d’Italia». Viene da pensare che proprio qui abbia avuto un’intuizione, visto che poco tempo dopo poneva le basi per la nascita della moderna tutela paesaggistica.
Oggi, le strategie di salvaguardia e valorizzazione del paesaggio soffrono le conseguenze estreme di un macchinoso sistema burocratico.
Nella Costituzione, l’art. 117 (lettera s) non menziona la tutela del paesaggio, che va ricavata tra l’ambiente e i beni culturali. Nella giurisprudenza del settore, la distinzione tra gli ambiti del “paesaggio”, del “territorio” e dell’“ambiente” ha sempre faticato a cristallizzarsi, e ancora oggi rimangono gli strascichi di una nebulosa.
C’è poi la conflittuale e confusa sovrapposizione di competenze, deleghe verso una gestione piccola, locale del territorio, che, come fa notare Salvatore Settis, è vulnerabile a “fattori di distorsione della tutela” – nonostante il Codice 42/2004 detti la preminenza del valore paesaggistico (sì, davvero).
Un’analisi ravvicinata della documentazione regionale svela l’imbarazzante disfunzionalità della pianificazione, con verbali delle conferenze di servizi che riportano frequenti rinvii, inesattezze e negligenze.
Ma non serve andare così nel particolare: è sufficiente uno sguardo sull’uso che la più ampia giurisprudenza fa del lessico, per capire quanto siano deboli gli strumenti che si interfacciano con i valori del nostro paesaggio.
La pianificazione studiata per le Alpi Apuane enumera una serie di “Aree Contigue di Cava”, dove “contigue” farebbe intendere che i siti estrattivi si trovino fuori dall’area protetta, quando la cartografia pubblica le evidenzia intercluse al perimetro.
Compare inoltre, ciclicamente, l’espressione “coltivazione di agri marmiferi”, che è frutto di un comune uso erroneo: dal latino cultu(m), il termine abbraccia l’area semantica della cura, che porta alla creazione. Si coltivano orti, talenti e perle. Ma il lavoro nelle cave corrisponde piuttosto a un’estorsione, un processo che implica solo una pars destruens e nessuna costruens. Lo stesso discorso può essere applicato alla parola “agro marmifero”.
E poi c’è l’uso improprio del termine “ripristino”. Sarebbe a dire un viaggio nel tempo di milioni di anni fa? Ripristinare significa “rimettere nello stato primitivo” (prīs), ma è elementare il concetto per cui, estraendo blocchi o scaglie lapidee dalle montagne, non è possibile ricreare in quei siti qualcosa che ha impiegato milioni di anni per formarsi. Anche l’operazione di restauro può ripristinare al massimo la funzionalità di un monumento o il significato di un’opera, ma non l’hic et nunc.
Comprendere la cultura del nostro paesaggio, è il primo passo per una tutela davvero efficace; la condanna dello sfruttamento sarebbe una conseguenza logica, non qualcosa da richiedere. Al contempo, le opere di scrittori, pittori e fotografi hanno dimostrato le possibilità dell’arricchimento dato da uno scambio fertile e sostenibile con il territorio. Il risultato della gestione attuale permette ogni giorno l’ecocidio e il culturicidio delle Alpi Apuane.
Non si tratta di una trasformazione naturale inevitabile, ma di processi distruttivi la cui causa è unicamente antropica: è evidente agli occhi di tutti, anche dei più restii ad ammetterlo. Quello che non sembra essere chiaro è che gli ultimi, tristi destinatari di questa gara all’annientamento, sono gli stessi che lo hanno cominciato.
Minima&moralia è una rivista online nata nel 2009. Nel nostro spazio indipendente coesistono letteratura, teatro, arti, politica, interventi su esteri e ambiente

Un articolo veramente interessante e ben scritto che nasce dalla tesi per la Specializzazione in Storia dell’Arte (Scuola di Specializzazione in BB.storico-artistici dell’Università di Roma ‘La Sapienza) della dott.ssa Giannoni, da me seguita come relatore.
L’argomento è di estrema attualità, viste le minacce alle competenze attribuite alle Soprintendenze territoriali (organi periferici del Mic) sulla tutela del Paesaggio.
Perfettamente ricostruito il percorso che conduce al riconoscimento nelle Alpi Apuane di un contesto paesaggistico di altissima valenza culturale