Questo pezzo è uscito su IL.
(Okay, spoiler, ovviamente).
Nelle prime due stagioni di Misfits c’è un solo momento in cui uno dei protagonisti (una serie di giovani condannati ai servizi sociali per piccoli reati, che all’improvviso, dopo una pioggia di meteoriti, si ritrova investita di superpoteri, sic) e cioè Nathan parla in modo serio: è nell’episodio 6 intitolato Nuovo ordine. È in piedi su un terrazzo davanti a una piccola folla che si è radunata in strada, e minaccia con la pistola una ragazza che è il capo il capo di una specie di setta di nuovi puritani che stanno facendo proseliti a una velocità stupefacente grazie a una capacità incredibile di manipolazione mentale.
Nathan la minaccia perché vuole salvare i suoi amici (Alisha, Simon, Kelly, Curtis) che sono stati nel giro di un giorno e una notte plagiati: costretti a stigmatizzare la loro vita di misfits per imboccare la strada di un rigore morale scrupoloso e pedantissimo. Si è finto uno dei “convertiti”, indossando un completo elegante, avendo toni e movenze da amish, ma ora – dichiarato il travestimento – tiene in pugno la guru e arringa al capannello che guarda verso il terrazzo. Dice: “Lei vi ha fatto credere che dovreste essere così, ma non è vero. Siamo giovani! È normale per noi bere troppo. È normale per noi comportarci male e scopare come scimmie! Il nostro compito è divertirci! Ecco la verità! E se, alcuni di noi andranno in overdose o impazziranno, ma Charles Darwin ha detto ‘La frittata non si può fare senza rompere delle uova’ ed è di questo che sto parlando. Rompere delle uova! E con questo intendo… farsi come delle zucchine con tutte le droghe possibili. Dio, se poteste vedervi ora! Mi si spezza il cuore. Indossate dei cardigan! Noi avevamo tutto! Abbiamo mandato a puttane tutto, più e meglio delle generazioni che ci hanno preceduti. Noi eravamo davvero bellissimi! Siamo dei cazzoni. Io sono un cazzone e voglio essere un cazzone fino alla fine dei miei vent’anni, magari fino all’inizio dei trenta! E sono pronto a farmi mia madre, prima di lasciare che lei o chiunque altro, mi porti via tutto questo!”.
Nathan ha le lacrime agli occhi, di lì a poco comincerà a spintonarsi con la leader dei nuovi puritani, fino a cadere dal terrazzo e rimanere infilzato negli spunzoni di una ringhiera appuntita; come un angelo malamente precipitato, come il figlio di Romy Schneider quando provò a scavalcare il cancello della sua villa.
Tutta la scena è maledettamente drammatica – capita che alle volte il suono rarefatto di Misfits riesca a regalare alle vicende di questo gruppo di post-adolescenti sbroccati e cafonissimi un’aria da free-cinema inglese. Quando Nathan è morto (nonostante i sei gradi di incredulità che una serie teen-drama su un gruppo di supereroi loro malgrado può insufflare), mi sono realmente dispiaciuto. Non soltanto: mi sono anche sentito coinvolto dalle sue parole d’addio al mondo. Sono stato convinto da quest’elogio della cazzonaggine. (“We’re screw-ups”, in inglese). Fino a quel momento, e da quel momento in poi Nathan non parla mai seriamente, è sempre ironico, volgare, caustico, un cazzone. Dice cose del tipo:
Kelly: “Perchè non vai a prendertelo in bocca?!?” / Nathan: “Mi piacerebbe, ma non ci sono mai arrivato.” / K.: “Oh, fai troppo schifo!” / N.: “Andiamo. Tutti ci abbiamo provato, no? Una volta mi sono legato una corda ai piedi e ho cercato di portarmeli alla testa. E avevo una cosa come sei cuscini… Mi sono quasi rotto il collo. C’ero quasi. Un millimetro mi sembrava un chilometro”. Oppure: “Appena prima di cominciare il servizio sociale, c’è stato un incidente con una ragazza. L’ho rimorchiata nella sala di un dentista dove doveva fare un intervento di chirurgia orale e così usciamo insieme. Due bicchieri, un paio di kebab, e poi andiamo dritti a casa sua e cominciamo a scopare. Io avevo preso un po’ di ritmo ed ero proprio sul punto di scaricare la merce, sospeso nell’attimo del piacere puro, quando bang, si aprono le porte dell’inferno, ho fatto la tripletta”, “Scusa non ho capito? Cos’è la tripletta?”. “La tripletta: quando vieni, vomiti e cachi tutto nello stesso momento. Tre funzioni fisiologiche: fare la tripletta”.
Ho visto le prime due serie di Misfits nell’estate di due anni fa. Non era un bel periodo. Ero in vacanza estiva, dopo un anno logorante a insegnare a scuola e a tenere faticosamente il passo della mia vita di adulto stressato. Ero arrivato finalmente a luglio, ma ora non ero soltanto sollevato, ero inerte. Senza lena, non riuscivo a fare granché; quasi che per riuscire a funzionare dovessi reimmettermi nell’automatismo adrenalinico che mi aveva tenuto in piedi per tutto l’anno feriale. E poi covavo una nostalgia singolare che non avevo mai creduto di poter provare. Mi mancavano i miei studenti.
Fare l’insegnante è un mestiere bellissimo, vi dicono, per tanti motivi, ma da un punto di vista neurobiologico mi viene da dire, fare l’insegnante è un mestiere invidiabile perché è un mestiere istologicamente anti-depressivo. Essere circondati per cinque giorni a settimana ragazzi che nella maggior parte dei casi non hanno idea di cosa sia la calcificazione della sofferenza, che nella stessa mattinata possono passare da una delusione abissale all’euforia più esplosiva, può diventare – per chi ha un umore melanconico, tipo me, tipo me di due anni fa – una dipendenza. Mi resi conto che mi mancavano i miei studenti, ma mi mancavano soprattutto quelli che mi avevano rotto il cazzo durante tutto l’anno, arrivando costantemente mezz’ora dopo la lezione, nascondendosi tra i cappotti mentre spiegavo, sdraiandosi sotto la cattedra prima che entrassi in classe, interrompendomi con delle supercazzole mal congegnate: mi mancavano i cazzoni.
Le venti ore di Misfits (considerato le puntate che ho visto due volte, i pezzi che ho rivisto in inglese senza sottotitoli, i pezzi che mi sono andato a ricercare su youtube), chiuso in casa in una Roma canicolare, mi hanno fatto da metadone. I miei studenti cazzoni, o Nathan – lodi sperticate a questo personaggio di puro Es, un Harpo Marx del nostro millennio entropico – sono diventate l’epitome di quella che per me è la speranza.
È raro ma mi capita sempre più spesso di avere a che fare con ragazzi di 15, 16 anni precocemente adultizzati, che mostrano sintomi da anoressia, ansie da prestazione parossistiche, sono cinici, imitano l’umorismo tranchant degli adulti, s’infastidiscono della volgarità, quasi scocciati di dover attraversare gli anni dell’adolescenza, e mi dico che se devo trovare un’immagine della fine della civiltà penso a questo tipo di disincanto, un mondo senza cazzoni, la supernova dell’universo, e allora sto dalla parte di Nathan.
Christian Raimo (1975) è nato a Roma, dove vive e insegna. Ha pubblicato per minimum fax le raccolte di racconti Latte (2001), Dov’eri tu quando le stelle del mattino gioivano in coro? (2004) e Le persone, soltanto le persone (2014). Insieme a Francesco Pacifico, Nicola Lagioia e Francesco Longo – sotto lo pseudonimo collettivo di Babette Factory – ha pubblicato il romanzo 2005 dopo Cristo (Einaudi Stile Libero, 2005). Ha anche scritto il libro per bambini La solita storia di animali? (Mup, 2006) illustrato dal collettivo Serpe in seno. È un redattore di minima&moralia e Internazionale. Nel 2012 ha pubblicato per Einaudi Il peso della grazia (Supercoralli) e nel 2015 Tranquillo prof, la richiamo io (L’Arcipelago). È fra gli autori di Figuracce (Einaudi Stile Libero 2014).
