Negli ultimi anni ho scritto molto di videogiochi. Più di qualcuno tra amici lettori, abituato a leggermi a proposito di cinema, musica, libri e cose di provincia, ne è rimasto piacevolmente sorpreso: “Questa cosa dei videogiochi prima o poi me la devi spiegare”. Ci provo adesso.
Ho ripreso a videogiocare seriamente nel 2016, a trentaquattro anni. Per una quindicina d’anni avevo smesso quasi del tutto. Ho ricominciato per via di una curiosità puramente intellettuale, almeno all’inizio. Tra il 2010 e il 2015 ho lavorato all’interno dei programmi delle politiche giovanili della Regione Puglia: all’epoca, frequentando adolescenti e giovani adulti, mi aveva colpito l’impatto di giochi come Assassin’s Creed e soprattutto Grand Theft Auto sul loro immaginario. Così ho riacceso la mia Xbox 360 e ho iniziato a recuperare i titoli persi per strada.
Ho scoperto subito che i videogiochi contemporanei erano una cosa in parte molto diversa da quelli della mia infanzia e adolescenza – ho trovato lo stesso scarto artistico e tecnologico che passa tra il cinema muto e gli odierni blockbuster hollywoodiani. Inoltre, nei miei anni di lontananza l’industria videoludica era diventata molto ricca e potente (molto più di cinema e musica) con tutti i compromessi che ne conseguono, mentre in fatto di innovazione tecnologica era ancora più trainante che in passato, debordando in altri settori. Nel frattempo, ho registrato anche i passi avanti sul fronte della cosiddetta legittimazione culturale, in parte grazie ai prodotti derivati (film e serie tv tratti da videogame), molto più probabilmente per via della normalizzazione della pratica del gioco attraverso il gaming mobile, i free to play e in generale l’online (Fortnite, Call of Duty, Minecraft, FIFA, ma anche Candy Crush, FarmVille, eccetera).
Dopo aver ripreso, ho iniziato quasi subito a scriverne. Per due motivi. Quello videoludico è stato il primo linguaggio espressivo con cui sono venuto in contatto, da bambino. Mettere nero su bianco ciò che provavo videogiocando è stato utile a razionalizzare le mie emozioni, ma anche a raccogliere le suggestioni che provenivano dalle storie sempre più interessanti raccontate dai videogame (è il caso di The Last of Us e Death Stranding, per fare due esempi). Tuttavia, credo che scrivere di videogiochi sia stato soprattutto il modo per fornire una giustificazione intellettuale, culturale e in qualche modo economica alle ore passate su PlayStation, Xbox e Switch (nonostante la lunga assenza, non ho saltato neppure una generazione di console), presentandomi come un adulto rispettabile ai miei stessi occhi. Il che, con tutta evidenza, è una cretinata. La verità è che quello che mi piace – che mi è sempre piaciuto – del videogiocare è proprio la possibilità di non esistere da questa parte della realtà in cui sto scrivendo in questo momento. La possibilità di non essere produttivo, di stare altrove con quasi tutto me stesso.
Come quando si legge un romanzo o si guarda un film, certo. Ma con molta più intensità. Come accennavo, ho iniziato a giocare da bambino, alle elementari (la storia è la stessa di tanti: mio padre ha portato a casa il primo computer per lavoro – lo utilizzava per disegnare insegne luminose – poi sono arrivati i videogiochi, le sale giochi, le console, eccetera). Insieme a cinema, tv e fumetti (e molto prima dei romanzi), i videogiochi hanno dato vita al mio immaginario e sopratutto si sono presentati come linguaggio e possibilità espressiva, nel senso che non solo gli sviluppatori, ma anche io stesso potevo esprimermi in quei mondi alieni.
In fondo, un videogioco è un mezzo di comunicazione e di scambio tra esseri umani come tanti, per quanto ipermediato dalla tecnologia. Si tratta di co-creare una storia, sia pure attraverso interazioni più o meno previste e scriptate, invece che starsene a subire semi-passivamente un racconto attraverso un film o un libro. Fin da bambino, giocando potevo manipolare mondi, provare a cambiarli, perturbarli (questo è, in fin dei conti, il videogiocatore: un perturbatore di mondi altrui), sviluppando abilità fisiche e mentali all’interno di un perimetro di stimolazioni sensoriali che nessuna altra esperienza poteva darmi.
Single player, single prayer
La dimestichezza che ho sviluppato fino ai vent’anni con mouse, tastiera e controller non l’ho mai persa. Quando ho ripreso a videogiocare da adulto era come se non fosse passato un solo istante da quando avevo smesso. Il piacere che mi procura l’interazione con lo schermo è tuttora molto simile a quello che si prova nel suonare (premi dei tasti, questi lanciano input che producono istantaneamente suoni e movimenti), anche per via dell’abilità manuale spesso richiesta sui comandi di gioco – proprio come su uno strumento musicale. Ci sono giochi molto ritmati, per così dire, che mi fanno percepire come uno stato di trance onirica, altri che mi trasportano in un’altra dimensione attraverso paesaggi che non saprei descrivere, in cui sento di essere stato davvero (e che talvolta fotografo come se ci fossi stato davvero).
In generale, le ore che passo a giocare sono preziosissime, perché sottratte all’uso, al commercio umano di cose grevi – almeno se giochi in solitaria, senza contatti né competizione con gli altri come nel mio caso. Mi è capitato di videogiocare e non sentire il dolore fisico dopo un intervento chirurgico, e neppure la stanchezza, la febbre, il caldo, lo stress. Altre volte lo stress mi è stato procurato dal videogioco a cui stavo giocando, perché evidentemente mi ci stavo dedicando con troppo zelo, fino a perdere il sonno – ignoro tuttavia se sia il cervello ancora attivo, a non farmi dormire in questi casi, oppure le ossa che scricchiolano su un vecchio materasso (ma i pensieri notturni sono le ossa del cervello).
Per me il videogioco oggi è una pratica, e in quanto tale diventa sempre più difficile da spiegare, da verbalizzare. Mi è successo di recente di rigiocare un titolo di paio di anni fa, Cocoon, in cui l’interazione con l’ambiente dà vita alla risoluzione di enigmi particolarmente brillanti in una galassia misteriosa, a contatto con membrane insieme meccaniche e viventi, in un rituale senza tempo che restituisce vita al cosmo, cannibalizzandolo… Ecco, un gioco come Cocoon non saprei raccontarlo (anche se ci ho provato), perché è l’essenza stessa del linguaggio videoludico. Un linguaggio di cui si fa esperienza, che non si può spiegare o parafrasare se non per puro diletto, come si farebbe tra amici col modellismo, la risoluzione di un puzzle o il montaggio di un set Lego.
C’è però una cosa che mi colpisce, quando si prova a raccontare un videogioco a qualcuno che non sa nulla di videogiochi: di solito si inizia con “Tu sei…” (un idraulico coi baffi, un assassino segreto, un’archeologa ricca e avventurosa, una principessa decaduta, un temibile pirata…) per proseguire barcamenandosi tra la descrizione di una trama piuttosto confusa e intraducibili meccaniche di gioco. Quel “Tu sei” mi fa pensare un po’ al “C’era una volta” delle fiabe – anche se questa suggestione non risolve il problema: raccontare un videogioco non è come stare lì a contribuire a dare vita a uno spazio fisico alternativo.
Spazio fisico che è virtuale come la maggior parte degli ambienti in cui ci aggiriamo quotidianamente da quando, coi telefoni, l’internet social ha iniziato a infestare le nostre vite. Credo che il mio tornare sul videogioco sia stato anche conseguenza della stanchezza per i social, per il progressivo disfacimento delle relazioni umane all’interno delle piattaforme di socialità virtuale in cui mi ero calato a partire da metà anni Novanta, e che nel mio caso, insieme ad altri interessi da adulto serio e rispettabile, mi avevano portato ad abbandonare i videogiochi. A un certo punto ho preferito tornare a interagire con ambienti e personaggi puramente digitali e completamente automatizzati, in uno spazio sicuro – quantomeno per i giochi giocati offline e in solitaria, come dicevo prima – in cui non c’è possibilità di essere equivocati, né alcun obbligo di curarsi della responsabilità di quello che diciamo e facciamo. Uno spazio per lo più libero dalle dinamiche estrattive delle piattaforme, per cui oggi finiamo col produrre valore economico (ed essere alienati anche in quel tipo di produzione) perfino nei momenti che dovrebbero essere sottratti al lavoro. Essere improduttivi è un lusso, che possiamo permetterci grazie ai videogiochi e più in generale grazie al gioco.
Il perturbatore
Sulla composizione della parola “videogioco” ho, anche per questo, cambiato idea. Per molto tempo ho pensato che il sostantivo “gioco” fosse un problema, che fosse limitante per un discorso che puntava a sottolineare il valore artistico e culturale dell’esperienza videoludica. Oggi non mi pongo questo problema e anzi penso che il punto di forza del videogame sia proprio la sua essenza ludica: è un gioco, è interessante per quello.
Ma non voglio farne una questione in qualche modo “morale”, non voglio idealizzare, magnificare, provare a convincere, anche perché l’industria videoludica, nel complesso, ha gli stessi problemi di tutto l’intrattenimento contemporaneo (bolle e speculazioni finanziarie, tensione verso gigantismo e crescita infinita, enshittification, eccetera). Non escludo che i videogiochi possano essere rilevanti nella crescita culturale degli esseri umani, ma è un argomento che mi interessa sempre meno, come trovo sempre meno interessante la spinta alla legittimazione culturale del medium. Credo che il rischio sia sempre quello di rendere noiosa un’esperienza che di suo è puro divertimento. E che non deve essere necessariamente educativa o edificante (e dunque normalizzata & neutralizzata) per inseguire una legittimazione in ambiti culturali o addirittura accademici. Gioco a molti giochi stupidi, con storie e trame del tutto inconsistenti, che mi divertono un sacco. Potrei azzardare che i videogiochi violenti mi rendano più mansueto nella vita di ogni giorno, ma non saprei se questo è più un pregio, oppure un limite. Ogni tanto mi succede di sentirmi preso in una spirale di dipendenza, e allora cerco di mettere un po’ di distanza tra me e le console. Poi però mi manca come l’aria muovermi in quei mondi alternativi, avverto il bisogno fisico di tornarci, di fare a pezzi qualcuno, di saltare da una piattaforma all’altra tra le guglie di una cattedrale virtuale o nuotare in acque profonde e inesistenti.
So bene, inoltre, che c’è differenza tra un adulto che non ha rinunciato a giocare (la maggior parte degli animali smette di farlo solo quando è troppo anziana o malata) e un consumatore infantilizzato da aziende che puntano sulla solitudine e sulla nostalgia di tanti utenti ripiegati su sé stessi. Ma credo che non ci sia nulla di più infantile del discorso pubblico attuale, delle cose – anche molto serie, purtroppo – di cui parliamo e soprattutto di come ne parliamo (sui social, ma anche sui giornali); d’altro canto dubito che la soluzione sia teorizzare troppo sulle cose che facciamo per sottrarci al tran tran delle fesserie e delle cattiverie che ci avvelenano ogni giorno, specie se queste cose salvifiche assumono i contorni di riti, collettivi o privati, piccoli o grandi che siano.
I videogiochi con cui sono cresciuto e molti di quelli che gioco tuttora sono questo, un piccolo rito quotidiano, non troppo codificato, di personale e barbarica baldoria. Il mio rock’n’roll. Posso scriverne o meno, ma vorrei che continuassero a suonare forte, fregandosene del buono e del cattivo gusto corrente, come hanno sempre fatto, come forse rischiano di fare un po’ meno in futuro.
Nota
A dispetto di quanto scritto, c’è molta socialità attorno alla mia idea di videogiochi. Semplicemente, si trova fuori dai momenti in cui gioco. Queste mie riflessioni devono molto alle conversazioni intrattenute negli anni con diverse persone. Ad esempio con Gilles Nicoli di Ludica e con Stefano Gualeni, che ho intervistato qualche tempo fa (e che mi ha suggerito il fondamentale Ballare di architettura di Riccardo Fassone, pubblicato da Einaudi). Ma voglio citare anche Dario Marchetti, che racconta i videogiochi in Rai nella trasmissione Altri mondi (con Lorenzo Fantoni e Mattia Pianezzi) e nella sua newsletter Videoludica Obscura, e ancora Stefano Besi con Giochetti, i miei cugini e tutti gli amici con cui il discorso dura da una vita… Quasi tutto quello che ho scritto sull’argomento, soprattutto all’inizio (adesso vado un po’ più breve), è invece debitore del bellissimo Voglia di vincere di Tom Bissell e in parte del seminale L’invasione degli Space Invaders di Martin Amis – entrambi pubblicati da ISBN Edizioni, entrambi in attesa di una nuova edizione in italiano.
Marco Montanaro (1982) vive in Puglia, dove si occupa di scritture e comunicazione. La sua newsletter si chiama Sobrietà.
