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Sabato 21 marzo, Kabul

Un’isola di calma ed eleganza in un mare di traffico e clacson. Un fortino sempre più militarizzato. Nel corso degli anni il Serena Hotel – dove giovedì 20 marzo 4 giovani barbuti sono riusciti a infiltrarsi e a uccidere 8 persone al ristorante – si è chiuso su se stesso. Le mura di cemento esterne più alte e robuste, i controlli più attenti. Per difendersi dai taleban, che qui già erano entrati nel 2008 facendo sette vittime. Ma un po’ anche dai poveracci che dal bazar sul lungofiume Kabul spuntano sulla grande piazza del parco Zarnegar, gesticolando ai conducenti dei taxi collettivi. Fuori i gas di scarico anneriscono il mausoleo dell’emiro Abdur Rahman Khan, appena restaurato. Dentro, dall’altro lato della strada, l’aria pulita dell’hotel Serena. Le stanze linde, arredate all’orientale ma senza ammiccamenti. Attrezzate sale conferenze. Un ristorante ricercato, dove perfino l’inglese parlato ai tavoli risulta ovattato. Cene professionali o galanti, qualche scollatura. Occidentali impacciati nei loro ampi vestiti all’afghana. Disinvolti afghani in completi scuri, tagliati con cura dai sarti del quartiere Bahrestan. L’hotel Serena è il posto dove incontrarsi, per chi conta qualcosa in città. Il posto da espugnare, per i Talebani. Un fragoroso effetto mediatico con risorse ridotte. Pezzi grossi locali e soprattutto stranieri, cioè importanti. Nei giorni scorsi due altre stragi erano passate quasi inosservate: al bazar di Maimana (provincia di Faryab, nord-ovest del paese, confine con il Turkmenistan) e a Jalalabad, verso il confine con il Pakistan. I morti erano di più, ma afghani, con un minor peso specifico sul piatto della comunicazione. Colpendo il Serena hotel, la capitale e gli stranieri, i turbanti neri hanno fatto il loro spot elettorale. E già annunciano i prossimi.

Domenica 22 marzo, Kabul

Solo oggi il bazar è tornato a macinare affari a pieno regime, le macchine a intasare le strade e Kabul a essere la città chiassosa e inquinata di sempre. Venerdì e sabato erano ancora giorni di festa. Giorni in cui stare in famiglia o con gli amici, per festeggiare il Nowroz, il nuovo anno. “Ma qui a Kabul non si festeggia più come prima. Una volta si ballava di più, si faceva musica. Ora è tutto cambiato”. A rimpiangere i bei tempi andati è un distinto signore cinquantenne. Abita a qualche centinaio di metri da Chicken Street – la via prediletta dai freakettoni negli anni Settanta che venivano a cercare le prelibate resine afghane -, a qualche edificio di distanza dall’ambasciata dell’India, più volte presa di mira dai barbuti, a due passi dalla sede dell’Unione europea. È un uomo che può rivendicare nobili discendenze. Veste un abito cucito su misura, porta un foulard al collo, i capelli accompagnati all’indietro con il gel. Venerdì ero suo ospite per cena. In una casa retrò, costruita negli anni Sessanta, sopravvissuta alla furia edilizia, arredata con cura dall’anziana madre e amministrata da una governante cicciottella dallo sguardo bonario. Le foto appese alle pareti raccontavano degli avi, dei legami di sangue, della storia passata del paese. Quella attuale non piace molto a quest’uomo che vive molti mesi in Belgio e rientra in Afghanistan solo per stare con la madre e curare gli affari. Per lui, la parentesi del governo talebano, anche se breve, ha interrotto molte tradizioni. “Per fortuna, non quelle culinarie”, aggiunge prima che vengano portate in tavola delle coppe di frutta secca: “deve mangiarle, è tradizione qui da noi”, dice. “Le abbiamo fatte in casa”.

Lunedì 23/martedì 24 marzo, Kabul/Mazar-e-Sharif

8 milioni di dollari e qualche spiccio. Qui a Kabul c’è chi pretende di sapere la cifra intascata in questi anni da Karzai con il suo “sistema mafioso”, fatto di politica e affari. Il posticipo della firma sul trattato bilaterale di sicurezza con gli Usa? Una mossa per prendere tempo mentre negozia la buona uscita e mette al riparo dalle brutte sorprese il patrimonio accumulato. Il futuro quando lascerà l’Arg, il palazzo presidenziale? Anche se il suo candidato – Zalmai Rasoul – non dovesse vincere, continuerebbe a influenzare il quadro politico. Nessuno dei candidati è poi così autonomo. Neanche lo storico rivale, Abdullah Abdullah, leader dei tajiki dell’Alleanza del nord.

A Kabul non si fa che parlare di politica. Della transizione dal sistema di potere Karzai a un nuovo sistema, che dovrà convivere con il precedente, chiunque vinca il 5 aprile. Zalmai Rasoul, già ministro degli Esteri dal 2010 al 2013, è il candidato di Karzai. Ma è debole. Privo di carisma. Senza sostanza. Così dicono in molti, temendo che Karzai gli metta a disposizione le risorse – economiche e non solo – dello Stato e del governo. Mobilitando o facendo comparire  voti essenziali. Un aiuto per sostenere una candidatura sbiadita.

Abdullah Abdullah – anche lui già ministro degli Esteri dal primo governo a interim fino al 2005 – gira in lungo e in largo il paese. In ogni comizio ripete il mantra preventivo e accusatorio delle frodi. Alle presidenziali del 2009 rinunciò al ballottaggio, accusando Karzai di aver rubato. Oggi ammonisce dal “commettere errori”. Ma secondo alcuni si starebbe già annusando con il presidente uscente, per evitare che l’eventuale ballottaggio diventi infuocato e veda entrambe le cordate perdenti. Abdullah Abdullah non è il solo a insistere sulle frodi. Ogni tanto un leader politico si affaccia in tv o alla radio e minaccia peste e corna in caso di brogli. L’accusa è rivolta a tutti. Tutti frodano, pare. Degli 11 candidati nella lista iniziale solo due non avrebbero falsificato le 100.000 firme necessarie per la candidatura, mi raccontano qui a Kabul. Per tutti gli altri, la Commissione elettorale indipendente avrebbe dovuto fare buon viso a cattivo gioco. L’ultimo in ordine di tempo a invocare trasparenza è stato il potente governatore di Balkh, Mohammad Atta. Non è candidato ma sta facendo valere tutto il suo peso politico (aiutando proprio Abdullah Abdullah), con cui condivide l’appartenenza al partito Jamiat-e-Islami.

Chi sembra acquistare peso politico è il terzo grande favorito, Ashraf Ghani, il tecnocrate colto a cui Karzai ha affidato il coordinamento del processo di transizione. Nel 2009 guadagnò un misero 2.9% di voti. Oggi è forte. Rischia di vincere. Anche grazie a una piccola, grande rivoluzione: l’aver rotto la tradizionale formula del ticket presidenziale. Quello che rispetta il peso demografico delle “etnie politiche”: il candidato presidente pashtun (il gruppo maggioritario), il primo vice tajiko, il secondo hazara. Ghani come secondo ha scelto invece Dostum, leader della comunità uzbeca. Senza di lui l’ex rettore dell’università di Kabul e funzionario della Banca mondiale sarebbe un cavallo spompato. Con il secondo vice Sarwar Danish (già ministro della Giustizia), punta ai voti degli hazara delle province centrali. Con Dostum farà il pieno di voti in alcune province settentrionali. Ghani ha mandato giù il curriculum insanguinato del generale Dostum, pur di averlo con sé. Ma a condizione che il leader del Jumbesh-e-Milli facesse mea culpa sui crimini passati: Dostum ha farfugliato qualcosa sulle proprie colpe, “simili a quelle di tanti”.

E Ghani – dipinto come un uomo metodico e supponente votato al potere – ha incassato il suo appoggio. Potrebbe essere quello fondamentale per entrare dalla porta principale dell’Arg. È temuto dai rivali. Tanto da essere al centro di una vera e propria campagna diffamatoria: nei villaggi rurali gira la voce che non sia musulmano. Che sia un kafir, un infedele. E che sua moglie sia perfino ebrea. Certo Ghani non piace ai mullah, ai conservatori religiosi. Ma piace molto ai giovani istruiti. E’ su di loro che conta. Sena disdegnare il consenso dei comandanti locali – quanti hanno guadagnato il potere combattendo negli anni precedenti. Perché in Afghanistan senza di loro non si va da nessuna parte. E senza buoni interlocutori si capisce poco della politica locale: per capirne qualcosa di più mi sono affidato ai miei referenti più fidati: Mir Ahmad Joyenda, già parlamentare, attivista della società civile, commentatore televisivo ambito da tutti; Hamidullah Zazai, direttor di una organizzazione non governativa che promuove il pluralismo dei media. Aziz Rafiee, il volto più noto della società civile post-talebana. Timur Hakymiar, direttore di una fondazione culturale. E l’italiano Fabrizio Foschini, analista politico dell’Afghanistan Analysts Network. Oltre a un paio di altre persone.

Giovedì 27 marzo, Mazar-e-Sharif/Kunduz

1 Toyota corolla, 5 passeggeri, 300 km, 4 ore di percorso, tre posti di blocco, due soste per pisciare e 700 afghanì (9 euro circa) da pagare. E’ il bilancio del viaggio di oggi da Mazar-e-Sharif a Kunduz (passando per Pul-e-Khumri). Mazar è la principale città della provincia di Balkh, il centro culturale del nord-Afghanistan, dove ha sede l’università più prestigiosa e più ambita di questa parte del paese e dove la gente viene per lavorare o cercare lavoro. Qui l’economia tira. Grazie ai traffici transfrontalieri con l’Uzbekistan, favoriti dall’unico tratto di ferrovia dell’intero Afghanistan. E grazie alla gestione autoritaria ma convincente del governatore Mohammad Atta Noor. Ha convinto gli imprenditori locali e stranieri che Mazar può davvero diventare un hub commerciale dell’Asia centrale. Sono arrivati soldi e coperture politiche. Lo scorso giugno è stato inaugurato il nuovo aeroporto internazionale. 63 milioni di dollari, sborsati principalmente dai tedeschi e dagli arabi degli Emirati. È un gioiello di efficienza, a paragone degli altri scali afghani, Kabul compresa. Atta rivendica di aver fatto bene. È un pezzo grosso della politica nazionale. Non è in corsa per le presidenziali del 5 aprile ma come mi racconta Zamir Saar, già giornalista per Pajhwok e lettore di lingua pashto alla Balkh University, sta usando il suo peso politico per assicurarsi un ruolo di primo piano. Quello di governatore o di ministro, se vincesse Abdullah Abdullah, leader dei tajiki dell’Alleanza del nord. Ora che è morto il maresciallo Fahim, il vice-presidente sostituito da Qanooni, i margini di manovra per Atta sono ancora più ampi. Staremo a vedere su quale poltrona si siederà in futuro.

Anche Kunduz, capoluogo dell’omonima provincia, cerca di crescere grazie ai legami con il nord, in questo caso con il Tajikistan. Ma le cose non vanno come dovrebbero. Rispetto a qualche anno fa l’intera provincia è molto più sicura, ma ogni tanto arriva qualche “scossa”. E’ successo un paio di giorni fa, quando un kamikaze si è fatto esplodere tra la folla che seguiva una partita di buzkashi. Venti i morti, molti i feriti. La notizia è stata poco raccontata, fuori dall’Afghanistan. Perché Kunduz non è Kabul. E perché nel frattempo, proprio a Kabul, i turbanti neri mettevano a segno un colpaccio: l’attacco alla sede della Commissione elettorale indipendente, l’organismo che ha il compito di organizzare le elezioni. Gli scontri tra i Talebani e le forze di sicurezza sono andati avanti per ore, catturando l’attenzione dei media. Il contraccolpo psicologico è stato forte: prima l’attacco al Serena Hotel di Kabul, destinato agli osservatori internazionali, che lì alloggiavano. Poi quello agli osservatori nazionali. Due su due. Un successo per la propaganda dei seguaci del mullah Omar, che hanno minacciato e ribadito di voler colpire i seggi elettorali e chiunque sia legato alla “farsa delle elezioni”.

Girando per le animate vie del centro di Kunduz (vedi foto), il ricordo dell’attentato di pochi giorni fa sembra già svanito. Me lo conferma Jamaluddin Saberi, giovane lettore alla facoltà di Legge e scienze politiche dell’università privata Salam. “Più che degli attentati, la gente teme le frodi. In più, è molto disillusa. Anni fa aveva molte aspettative, oggi disilluse”. Per Saberi la partecipazione al voto potrebbe essere scoraggiata dal disincanto, piuttosto che dalla paura degli attentati. Il giorno dopo l’attacco, c’erano migliaia di persone per il comizio di Abdullah Abdullah, che qui macina consenso anche grazie all’appoggio dell’uomo forte della provincia, Mir Alam Khan. Non ha posti governativi, ma almeno duemila uomini pronti a prendere le armi in qualunque momento. Fa quel che vuole nella provincia di Kunduz. E si accorda con chi gli pare, come mi raccontnoa molte delle persone incontrate: Hedajatullah Haqmal, giovane preside della facoltà di Legge e scienze politiche dell’università di Kunduz; l’energica Marzia Rostami, direttrice di un’organizzazione non governativa che lavora per i diritti delle donne e degli adolescenti; Habibullah Shinwari, dell’Afghan Civil Society Forum Organization; il ricercatore Taib Zundai; l’attivista Jawad Aiazi, che cerca di convertirmi all’Islam e di farmi sorbire 30 puntate di un programma tv su uno dei compagni di strada del profeta Maometto, etc etc.

Tra i sostenitori del dottor Abdullah c’è anche Sami, uno dei ragazzi dello staff del Kunduz hotel. Albergo statale gestito in modo svogliato ma simpatico, ha il fascino dei vecchi edifici dalla bellezza tramandata. Di giorno, quando è illuminato dal sole, sembra tornare a splendere. Di notte, quando la città si fa silenziosa e le luci si spengono, diventa spettrale. Gli ampi corridoi deserti, dove bighellonano solo i ragazzi dello staff, pronti a sfottersi e inseguirsi. Il più piccolo è proprio ,Sami, ed è il bersaglio di tutti. Lui sta al gioco e rilancia divertito. Alle 18.30 bussano alla porta. Mi trovo davanti un omone con la barba brizzolata. È il capo della Nds, la National Directorate of Security, i servizi segreti che qui sono un po’ meno segreti che altrove. Dietro di lui, gli uomini armati. “La solita storia”, penso: con un paio di giorni di ritardo le forze di sicurezza si accorgono di uno straniero che scorazza per la città. Poco abituati, quasi increduli, vanno a controllare. A volte finisce bene, con una pacca sulle spalle e tante scuse. Altre volte meno. Come quella volta a Farah, nel sud-ovest del paese, quando in piena notte mi tirarono fuori – “per motivi di sicurezza” – da una stanza offerta dal direttore dell’ospedale provinciale.

Qui a Kunduz è tutt’altra storia. Sono venuti a controllare che l’unico cliente dell’hotel sia in regola. Che non sia una minaccia. È in arrivo un pezzo grosso: Gul Agha Sherzai. Già governatore della provincia di Kandahar e, fino a poche settimane fa, di quella di Nangarhar (al confine con il Pakistan), Sherzai è uno dei personaggi politici più conosciuti del paese. E anche uno dei più criticati. E’ accusato di aver trafficato armi, droga, di aver fatto accordi sottobanco con i Talebani quando era governatore di Kandahar, di essersi intascato milioni di dollari con le tasse sui traffici transfrontalieri con il Pakistan, da wali di Nangarhar. Lui ha sempre negato. Ma le accuse sono aumentate di anno in anno. Così come il suo peso politico. Cresciuto a tal punto che ha rassegnato le dimissioni pur di presentarsi alle presidenziali. Non vincerà, questo è certo. Ma potrà vendersi al miglior offerente, per il ballottaggio.

Il suo arrivo al Kunduz hotel provoca uno sconquasso. I ragazzi dello staff, abituati alla letargia, schizzano da tutte le parti. Ufficiali dell’esercito, della polizia e della Nds si alternano, facendo su e giù tra il primo e il secondo piano. Arrivano degli anziani signori con dei turbantoni in testa, da pashtun doc. Si mettono in fila, l’uno dietro l’altro ad aspettare l’uomo-buldozer, come viene soprannominato (il soprannome gli è stato dato da Karzai, e Sherzai ha scelto prorprio il buldozer come smbolo elettorale). Gul Agha Sherzai arriva su una jeep bianca sulle cui fiancate fanno bella mostra due manifesti elettorali con il suo faccione ben pasciuto. Si avvia verso l’ingresso dell’hotel, riceve un mazzo di fiori. Entra e dispensa molte strette di mano e qualche abbraccio. Sale al primo piano portandosi dietro una scia di persone. Nella sala conferenze concede qualche battuta al pubblico, poi dà l’arrivederci a domani, per il gran comizio. Vedi foto

Sherzai e gli uomini del suo staff vanno via. Rimangono tutti gli altri. Aspettano la cena. Gentilmente offerta dalla ditta. Ci sono sostenitori venuti fin da Kabul. Businessmen che lo rispettano “perché ha ricostruito la provincia di Nangarhar e saprà ricostruire l’intero paese”. Fanno finta di credere nella sua vittoria. Sanno che non ha chance. E che la sua partita si gioca tutta al secondo turno, quando potrà offrire un bel pacchetto di voti al migliore offerente in cambio di un ministero. Finita la cena, tutti a casa. In albergo rimane qualche ospite. E una nutrita schiera di militari. “Noi stanotte non dormiamo”, dicono rassegnati.

KUNDUZ, sabato 29 marzo

I giornalisti di Ariana tv hanno perso di vista il candidato. “È dal governatore di Kunduz, andiamo!”. “No, no, sta raggiungendo il Pamir hotel per il comizio”. Al Pamir Hotel Sherzai ancora non c’è. La sala è semivuota. Qualche decina di persone e i molti volontari che gli organizzano la campagna elettorale. Ne incontro due, entrambi di Jalalabad, che sono qui a Kunduz da una ventina di giorni. Sono venuti in anticipo per assicurare che la sala si riempia. Nel nord Sherzai è debole. Anche qui a Kunduz. I sostenitori vanno trovati con ogni mezzo. Gli si organizza il viaggio dai villaggi, in cambio di qualche spicciolo e di un pranzo assicurato. Prima però dovranno sorbirsi il comizio. Qualcuno dovrà perfino sventolare dei cartelli che inneggiano a Sherzai.

Quando la sala è gremita, arriva il buldozer. Prima di lui parlano i notabili locali, i leader comunitari e religiosi, che cominciamo a riscaldare la sala. Poi è il suo turno. Il dito puntato verso il pubblico, Sherzai alterna accuse a Karzai e agli altri contendenti con battute ben piazzate. Il pubblico applaude e ride. Lui suda e ingrana la marcia. “Il governo Karzai è corrotto”, urla. “Zalmai Rasoul e Ashraf Ghani sono sostenuti dai russi e dagli iraniani”. Rivendica di essere un uomo semplice, che si è fatto da solo. Di aver sempre vissuto in Afghanistan, di essere legato alla sua terra, di rispettare tutte le etnie e di volere una patria forte e indipendente (proprio come lui). Ogni tanto qualcuno del giro più stretto sale sul palco, gli ruba il microfono con una mossa concordata e lancia lo slogan sicuro: “Nari Takbi – Allah Akbar”.

Il comizio si chiude tra grandi applausi e turbanti poggiati sulle teste di alcuni sostenitori. Sherzai sale al piano superiore, dove sono segregate le donne e i bambini. Anche lì viene accolto trionfalmente, mentre il pubblico è invitato a raggiungere la sala da pranzo. Tutti corrono. Si forma una ressa. Con il mio traduttore Enajatullah siamo invitati al piano superiore. Dopo pranzo ci sarà l’intervista, concordata il giorno prima con il suo consigliere politico, che non lo perde di vista un attimo. Appena ci vede, Sherzai non si trattiene: “Karzai? Un gran figlio di puttana”.

Domenica 30 marzo

Non è stato facile lasciare i ragazzi dello staff del Kunduz hotel (vedi foto). Scalcagnati, poco professionali, ma sempre sorridenti e generosi. Ieri sera abbiamo mangiato insieme, divorando due polli in pochi secondi. Ci ha poi raggiunto Khaluddin Dawlat, che ha insistito per fare una foto insieme, così da postarla su facebook (da queste parti uno straniero è cosa rara). Khaluddin lavora per una organizzazione non governativa. Ha una faccia così simpatica da conquistarti subito. Un viso buffo e plastico che sembra di gomma. E’ un bravo ragazzo, dicono tutti di lui, qui a Kunduz. Eppure non disdegna qualche scorrettezza: gli chiedo delle elezioni presidenziali come faccio con tutti – piccoli e grandi, mullah e aspiranti bevitori di vino. Mi mostra la tessera elettorale, senza la quale non si è ammessi al voto. Poi ne mostra un’altra. Poi un’altra ancora. Infine un’altra. 4 tessere elettorali, rivendica tutto contento, con ingenuità disarmante. 4 voti anziché uno. Se tutti facessero come lui, la comunità internazionale potrebbe brindare alla grande partecipazione del popolo afghano alle elezioni del 5 aprile. Mi sarebbe piaciuto saperne di più di lui e dei suoi “traffici elettorali”, ma a un tratto si è accorto di aver detto ciò che non si deve dire. Ha cambiato discorso.

Il giorno dopo, al mattino, ho lasciato Kunduz per Faizabad. Ancora una volta con un taxi collettivo. Una Toyota corolla con 5 passeggeri e un autista dal sorriso smagliante, gli occhi azzurri, i capelli impomatati e una parlantina fitta fitta da togliere il respiro. Tra i passeggeri, un vecchio con la barba e tre ragazzetti dalla faccia furba. Avevano fatto compere a Kunduz, dove le cose costano meno che a Faizabad. Kunduz è collegata al nord a Dushanbe (Tajikistan), a sud con Kabul e a ovest con Mazar-e-Sharif. E’ un centro di passaggio. Faizabad invece è all’estremità nord-orientale del “grande impero” afghano, a pochi passi con il Tajikistan più povero. La Cina è a due passi, ma i commerci ancora latitano, anche perché il governo cinese ritarda la costruzione della strada che dal Wakhan afghano condurrebbe nel Xinjiang, il Turkestan cinese: teme che i musulmani uighuri del Xinjiang possano radicalizzare la lotta con il governo centrale di Pechino, se influenzati dai jihadisti e dai Talebani.

Per questo molti commercianti del bazar di Faizabad fanno spesso la spola fino a Kunduz. I 500 afghani (6,5 euro circa) del viaggio si recuperano rivendendo a prezzi più alti le cose acquistate a Kunduz. Ci vogliono soltanto 4 ore di macchina. L’ultima volta che ero capitato da queste parti venendo proprio dal Tajikistan era nel 2009. La strada – pessima – era in costruzione. Oggi è liscia come l’olio, almeno per gli standard afghani. È una delle più sicure del paese e anche delle più belle

Da Kunduz a Taloqan, a circa un’ora di tragitto, si procede in pianura, immersi nei campi coltivati, di un verde brillante in questo periodo. Si costeggiano canyon scavati dai fiumi, protetti da basse montagne accartocciate su se stesse, dove il colore orca si mischia al verde intenso e al rosa degli alberi in fiore. Nei campi, pastori con le greggi di pecore, mucche, bambini a dorso di asino. Sui bordi della strada, bambine che escono da scuola, donne che tornano verso casa, custodite dal burqa. Superata Taloqan, la strada comincia a salire e scendere, di nuovo a salire con una serie di dolci curve, per poi aprirsi sulle cime innevate che indicano il Badakhshan, una delle province più povere del paese, di cui Faizabad è capoluogo. L’unico checkpoint è proprio al confine tra la provincia di Kunduz e quella di Badakhshan. I poliziotti conoscono l’autista e gli fanno cenno di passare, altrove gli chiederanno qualche soldo.

Più ci si inoltra nel Badakhshan e più si ritrova l’Afghanistan contadino, l’Afghanistan povero e contadino. L’Afghanistan che riesce a vivere senza elettricità (a Faizabad c’è soltanto per 4 ore al giorno), ma che non riuscirebbe a farlo senza gli asini. Animali preziosi come la vita. Se ne vedono tanti anche a Faizabad, che rimane un centro agricolo. Eppure la città è cambiata molto, negli ultimi anni. Shar-e-now, la città nuova, ha conquistato posizioni. Qualche nuovo ponte collega Faizabad ai distretti oltre il fiume. Una volta saliti nella parte alta, nella città vecchia, il colpo basso: il bazar non c’è più. Al posto di quella stretta via sui cui lati si affacciavano le botteghe di legno, un’ampia strada, sterrata per ora, ma talmente larga da aver rotto l’equilibrio del luogo. Rimane Pul-e-Khosti, il ponte sotto il quale si tiene il mercato del bestiame. E rimane la guesthouse della cooperazione tedesca (GIZ), anche se vuota: con il 2014 che si avvicina perfino i tedeschi – che qui hanno fatto cose importanti, sostengono i badakhshì, con “poche chiacchiere e molto pragmatismo” – stanno tirando i remi in barca.

Vengono a trovarmi Khooshqadan Osmani e Wahidullah Haidari. Il primo fa il giornalista. L’altro insegna letteratura dari in una scuola superiore. Osmani è anche uno dei candidati per il rinnovo del consiglio provinciale. In città, ogni tanto spunta qualche suo poster elettorale. Sono pochi, e piccoli. Niente in confronto a quelli dei notabili della città. Tra questi c’è Abu Aman. È un signore con la barba lunga e bianca, vestito da dignitario, lo sguardo un po’ annacquato dei vecchi. Si è fatto la reputazione come muhajed, poi come religioso, infine come politico. E’ stato senatore, capo della sezione provinciale dell’Alto consiglio di pace (l’ente governativo che ha il compito di negoziare con i barbuti), capo della Shura-e-ulema (il consiglio dei religiosi). È candidato alle provinciali. E uno dei sostenitori più accaniti del candidato presidente Abdullah Abdullah. Come lui tajiko, e come lui membro del Jamiat-e-Islami. Abu Aman dice che se Abdullah non dovesse vincere (per lui è scontato che vinca) i Jamiati prenderanno le armi. Perché Abdullah è il presidente che tutti gli afghani vogliono. L’equazione è semplice per lui: se Abdullah non sarà eletto, sarà a causa di brogli.

Abu Aman dice cose interessanti, su cui varrà la pena tornare. Molto meno interessante l’intervista con un altro religioso, il mawlawi Ziahuddin, anche lui membro della Shura-e-ulema. Ha il naso lungo e storto, gli occhi grandi e un po’ invasati, i capelli neri schiacciati sulla fronte, il sorriso generoso. Abita in campagna, a 6 km da Faizabad e due passi dall’università statale, in una casa semplice. Nel cortile scorazzano galline e agnellini. Lo intervisto ma è reticente. Bisogna tirargli fuori le risposte con le pinze. Si sbilancia solo sull’accordo con gli americani, che non gli piace. Sostiene che andrà a votare, ma non dice per chi. “Ancora non sono convinto”. Uscendo di casa, su un davanzale noto un volantino elettorale di Abdul Rasul Sayyaf, il candidato dei mullah e di chi vuole custodire la purezza dell’Islam afghano.

La delusione per l’intervista svanisce di fronte allo spettacolo maestoso del gran finale del buzkashi di Faizabad, un evento che si tiene due sole volte all’anno. Migliaia di persone si accalcano su una collina che domina un grande spazio di terra battuta. Altre sono accovacciate sulle mura che ne delimitano il perimetro. Al centro, i giocatori a cavallo. Oggi è l’ultimo di dieci giorni di competizione. 10 i distretti coinvolti. 2 le squadre a fronteggiarsi. Migliaia i dollari messi in palio, oltre alla fama e al prestigio. Questa volta a conquistare il vessillo blu è la squadra del distretto di Argo. I vincitori a cavallo si fanno travolgere dalla folla. Girano per gli spalti. Tornano a rivendicare l’entusiasmo dei fan. Poi, dopo l’ennesimo giro, si allontanano. Tornano in campagna. A dorso dei cavalli.

I sostenitori salgono sui camion, gonfi di gente. Io punto in direzione opposta, verso la città vecchia. Lì mi fermo in una chaikhana (sala da tè) della piazzetta principale. È al secondo piano, un ottimo punto di osservazione. Entro in sala. Passo inosservato. Un uomo col pakol in testa e la barba nera come il carbone sta tenendo un infuocato comizio improvvisato. Critica tutti i candidati alla presidenza tranne uno, il dottor Abdullah. Gli altri lo ascoltano silenziosi, annuendo con la testa e scambiandosi sguardi complici. Poi si alzano uno a uno. Tolgono le sciarpe dal collo e le stendono con cura. Fanno segno di unirmi. Si aspettano che preghi con loro. “Sono uno straniero”, farfuglio. Sono un po’ increduli. Poi cominciano a pregare. Io li guardo, in un angolo.

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g.battiston@gmail.com

Giornalista e ricercatore freelance, direttore dell’associazione di giornalisti indipendenti Lettera22, collabora con quotidiani e riviste tra cui l’Espresso, il manifesto, Gli asini, il Venerdì di Repubblica, oltre che con Radio3 e l’Ispi. Docente di “Tecniche di reportage” alla Scuola di giornalismo della Fondazione Lelio Basso, è coordinatore scientifico di Collettiva.org e dal 2010 al 2018 ha curato il programma del Salone dell’editoria sociale. Con Giulio Marcon ha curato "La sinistra che verrà. Le parole chiave per cambiare" (minimum fax 2018). Per le edizioni dell’asino ha pubblicato "Arcipelago jihad. Lo Stato islamico e il ritorno di al-Qaeda" (2017) e due libri-intervista: "Zygmunt Bauman. Modernità e globalizzazione" (2009) e "Per un’altra globalizzazione" (2010). Dal 2008 si dedica all’Afghanistan con viaggi, ricerche, saggi.

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