Pubblichiamo un articolo apparso su Sinosfere, che ringraziamo.
di Simone Pieranni
L’intervento di Fabio Lanza su Sinosfere su quanto sta accadendo a Hong Kong dal giugno scorso, ha il grande merito di allargare il campo: al di là dei limiti che da sinistra si segnalano su alcune caratteristiche della protesta – ripiegamento sul localismo, richiesta di aiuto a Washington e Londra, tutte contraddizioni che in forme diverse si ritrovano anche all’interno di altre mobilitazioni che hanno tenuto banco e sotto scacco gli apparati repressivi degli Stati nazionali per molto tempo, si pensi ai gilet jaunes o alla Catalogna – Lanza segnala che le proteste di Hong Kong riflettono “in maniera polisemica e complessa, una crisi all’interno del capitalismo, nello specifico l’esplosione della tensione fra, da un lato, affermazioni di soggettività politica e desiderio di partecipazione e, dall’altro, un sistema che reprime sistematicamente queste aspirazioni in nome della libertà di mercato”.
Proviamo allora ad aumentare la distanza temporale e proiettarci nel futuro (che è già presente). Bisogna farlo, perché a Hong Kong la protesta ha assunto caratteristiche peculiari anche e soprattutto per strada, cioè nell’azione diretta, e ha visto come protagonisti per lo più studenti o giovanissimi. E ha indicato attraversamenti politici che ci riguardano eccome.
Hong Kong – infatti – può anche essere messa nel mazzo di tante ribellioni contro il neoliberismo che abbiamo potuto osservare nel corso del 2019 ma ha “spinto” più di altre su alcuni elementi specifici. A tratti quanto accadeva a Hong Kong è parso luddismo, a tratti attivismo hacker, a tratti auto-organizzazione mediatica: attaccare fisicamente le telecamere, divellerle, distruggerle (da luglio 2019 sarebbero almeno 900 le videocamere di sicurezza “spente”, senza contare quelle danneggiate o oscurate nelle stazioni delle metropolitane), utilizzare i sistemi tecnologici più utili tra quelli oggi in circolazione per organizzarsi (tanto che Telegram ha denunciato attività di hacker cinesi contro il software proprio perché uno degli strumenti più utilizzati dalla protesta), nascondere o usare il proprio corpo contro chi può utilizzare i corpi per reprimere, gestire con app tutta la comunicazione, fabbricare meme. Tutto questo armamentario evidenzia un punto fondamentale: a Hong Kong è in corso la prima vera rivolta contro il capitalismo della sorveglianza, ovvero il capitalismo nella sua (attuale) fase più avanzata, capace di espropriare – estrarre – dati a costo zero per perpetuare il suo sistema di dominio e rigettare nella povertà strati di masse cognitive cui era stato promesso ben altro. Se qualcuno dovesse storcere il naso di fronte all’associazione fra “Cina” e “capitalismo” potremmo anche parlare di “socialismo con caratteristiche cinesi della sorveglianza”: la sostanza non cambierebbe poi molto.
E i protagonisti di questa forma di lotta sono per lo più giovani. Come segnalato da Sandro Mezzadra quanto sta avvenendo a Hong Kong si colloca “all’interno di una congiuntura nuova, in cui l’investimento e la compenetrazione del tessuto produttivo urbano attraverso le nuove tecnologie assegnano un’importanza particolare a quella che in altri contesti si è chiamata l’’economia della conoscenza’ e a strati di lavoro cognitivo, essenzialmente giovanile”. Nell’ex colonia britannica abbiamo infatti assistito a una rivolta contro quello che Shosana Zuboff (autrice di The Age of Surveillance Capitalism. The fight for a human future at the new frontier of power, edito in Italia da Luiss University Press con il titolo “Il capitalismo della sorveglianza. Il futuro dell’umanità nell’era dei nuovi poteri”) chiama la “terza modernità”, sintetizzabile in questo modo: “una logica economica parassita nella quale la produzione delle merci e dei servizi è subordinata a una nuova architettura globale della trasformazione comportamentale degli individui e delle masse”.1)
E i riot 4.0 non potevano che tirare in mezzo la Cina, attuale massima rappresentante – per quanto con le sue consuete caratteristiche – di questa tendenza globale di cui è addirittura tra le massime esportatrici. Non a caso poco prima di Natale a Hong Kong è andata in scena una manifestazione a favore degli uiguri, la minoranza turcofona e musulmana del Xinjiang (“i prossimi siamo noi” dicevano i manifestanti dell’ex colonia britannica). Il Xinjiang in quanto periferia adatta a sperimentare inosservati (a parte alcuni incidenti di percorso subito assorbiti dalla forza economica di Pechino), Hong Kong in quanto hub finanziario neoliberale, come segnala Lanza: si tratta di due territori nei quali i meccanismi dello Stato di sorveglianza a matrice cinese si esercita.
Minima&moralia è una rivista online nata nel 2009. Nel nostro spazio indipendente coesistono letteratura, teatro, arti, politica, interventi su esteri e ambiente

Cosa vi siete fumati?! La protesta a Hong Kong ha pochissimo a che fare col capitalismo della sorveglianza e moltissimo a che fare con la democrazia rappresentativa.
https://media.ccc.de/v/36c3-10933-what_the_world_can_learn_from_hongkong
https://m.yp.scmp.com/hongkongprotests5demands
https://idlewords.com/2019/08/a_walk_in_hong_kong.htm
Occhio ai depistaggi. I movimenti provocati dalle grandi emergenze sono sempre affiancati da espressioni minoritarie diverse in cerca di visibilità e di alternativa. HK si sta opponendo alla riduzione a provincia cinese. Questo è, il resto è storicamente di nessun rilievo.