di Sergio Peter
Ho imparato ad apprezzare i benefici dell’editing sul new jersey molti mesi dopo l’incontro con Santillana. Non è neanche il suo vero nome. Era fissato con Krsna; una volta al bar dell’autostrada aveva iniziato a gridare ad alta voce dei pezzi di Fato antico e fato moderno. Gli avventori chiedevano:
“Che cazzo hai bevuto?”
“Un goccio di Santillana”
Da quella sera lo chiamavano così.
Avevo allora nelle mani un manoscritto da un milione di battute. Cinque anni dietro a quella cosa, a riguardare le virgole, gli accenti acuti, le maiuscole e i doppi spazi, mesi e mesi ad inseguire il maestro su e giù per le fiere, di fianco sul camion coi sacchetti pieni di inserti…
Poi però, preso dalla smania di pubblicare, una notte ero andato all’internet point di Piazza Miani. Mandai un’e-mail spontanea all’editore dei miei sogni. Vagavo sotto i postumi di una serata con Filo; fatto sta che la mattina dopo vado a rileggere, mica ho scritto:
Gentile Adelchi,
ho un romanzo nel cazzetto
vi allago
serafino brunaldi (serabruna@gmail.com)
Che disastro! Di allegati per fortuna non ce n’erano, ma mi avrebbero messo nella lista nera per sempre – nome/cognome/e-mail bollati come spam – e fatto girare la voce nell’ambiente. Sarei rimasto in eterno, nonostante l’impegno di un lustro, un povero stronzo.
Solo Santillana continuava a credere in me, per una specie di spirito di condivisione: doveva aver vissuto anche lui dei momenti di esilio radicale. C’eravamo conosciuti nel parcheggio dell’autogrill Cantalupa. Facevo il giardiniere all’Hotel Alga, part time il pomeriggio.
Ci vedevamo fuori dalla fabbrica, lavorava per una ditta di scarpe. Ci trovavamo in pausa pranzo, usciva in canotta, smanicato, tatuaggi tribali sulle braccia. Toglieva le sneakers nere (calzini non ne portava mai) e si metteva stravaccato sullo spartitraffico. Aspettava un pasto caldo. Gli portavo la verzura che cucinavo io stesso, quella grigia del nostro orto, bobi, pastinache, patatine da mangiare con la buccia, carote idem, la prima insalata; a volte avevo un po’ di tonno in scatola, riso basmati, minestrone. Se riuscivo a rimediare il thermos, tiravo fuori gli spaghetti aglio olio peperoncino ancora caldi. Poi a stomaco pieno implorava il caffè, coca-cola o pepsi, qualsiasi bevanda purché contenesse caffeina. Io mi tenevo in tasca le redbull, gliele porgevo, due/tre lattine da 15cl; gli si illuminavano gli occhi.
Solo allora potevo estrarre il manoscritto dallo zaino. Santillana era dotato di quella particolare capacità detta “lettura veloce” – una cartella ogni dieci secondi – faceva degli scarabocchi con la matita da lavoro, quelle rossoblu, e parlava tra sé e sé. Poi mi guardava, sempre con lo stampato appoggiato sul new jersey. Faceva ballonzolare la testa.
Usava il pilone di calcestruzzo a mo’ di contrappeso, puntellato da una parte con gomito e schiena. Io restavo fermo ad ammirare la sua opera di editing, chiedendomi fin dove potessimo arrivare insieme. Purtroppo nei nostri incontri, tra primo, sigaretta, caffè, ammazzacaffè, i minuti effettivamente dedicati allo scritto erano circa diciotto, mai di più, tra le 13.39, quando finiva di mangiare e le 13.57 quando doveva rientrare. Teneva i commenti per gli ultimi tre minuti.
Avevo quella finestra di tempo per chiedergli come stessi andando, se la direzione fosse giusta, se il mio testo sullo sciacallo dorato fosse finalmente pronto, a suo parere. Ma ogni volta rimandava, diceva di ripassarci sopra, renderlo più fluido, orecchiabile. Dovevo usare frasi brevi, i capitoli mai superare le tre pagine. Più male, cattiveria, perché la luce circostante risplenda nitida, diceva. Spazio ai dialoghi, il monologo è passato di moda. Gli aggettivi banditi, gli avverbi meno della merda. Non avere a cuore le anime dei personaggi. Pensa alla stella Sirio, usala come bilancino, mi ammoniva.
Era intitolato Aureola Animale. Me lo restituiva pieno di sottolineature, con la polvere di cemento tutta sparsa sui fogli. Mi diede alcune dritte decisive sulla struttura generale. Ordinò dei tagli dolorosi. Fu lui a suggerirmi l’idea dell’attacco in medias res:
«Il canide dorme nell’isola di plastica del Lambro-Olona, giù prima della chiusa. È sazio, posa il corpo su un Tango sgonfio, che gli fa da cuscino. Ha tutto il pelo cosparso di sangue non suo. Intorno alla testa un cerchio verde di materia ologrammatica».
Per lungo tempo non ho capito perché voleva che ci vedessimo proprio lì, e non magari al bar, o al parco, seduti su una panchina. Chiunque vedendoci da fuori avrebbe pensato che stessimo facendo altro, qualcosa di illegale: fumarci una canna, tirarci una striscia, taggare sul blocco di cemento con le bombolette rosa BAAL CULO ˦ 81
L’ho capito alla fine. Solo quando un libro ti cattura anche in una posizione scomoda, sdraiati sul cemento duro, caldo, inquinato e affilato, se il testo ti trasporta fuori da quel contesto, perfino lì, senza bisogno d’altro, allora è davvero pronto, aveva detto. Lo sapeva dagli anni passati a leggere Zolla nelle piazzole di sosta.
Compresi che il romanzo era ultimato quando vidi Santillana cadere di lato, sbucciarsi il gomito, sfregare la tempia sull’asfalto, e poi ridere, sbraitare a crepapelle ecco, ecco, ecco! Era uscito da sé ed entrato nelle pagine, del tutto: s’era dimenticato di sostenersi alla barriera. Lo vidi scappare scalzo gridando di felicità, o forse bestemmiando di dolore per le ferite alle piante dei piedi.
Questo era e resta uno dei principali benefici dell’editing sul new jersey: la corsa libera lungo il guardrail.
Diceva che avrei dovuto proporlo in giro con uno pseudonimo e che sarei presto salito sul carro dei vincitori. Mi suggerì di farmi chiamare Basilio Palamasi. Assaporava già i filetti, e il caviale, e i piccioni che gli avrei offerto al ristorante. Era convinto che ne avrebbe usufruito egli stesso, a piene mani, in quanto editor e ghostwriter principale di Aureola Animale. Non vedeva l’ora di lasciare il lavoro da operaio. Aveva già anticipato qualcosa al padrone. Voleva ritirare la stazione di servizio e farne una grande scuola di scrittura basata sul culto indiano delle mucche.
Alla fine accadde davvero, il libro uscì per JL&Mirror, il più grande editore del continente. Solo che, quando andai a cercare il maestro per dirglielo, non riuscii a trovarlo. Dalla fabbrica mi dissero che da una settimana era sparito, lasciando una canotta sporca nell’armadietto e le pedule. Me le consegnarono come fossi un parente.
Ritornai fuori, sul nostro spartitraffico preferito. Appoggiai una copia del libro al blocco di cemento. Aveva 480 pagine ed era dedicato al più grande editor allora in circolazione, a insaputa di tutti, il mio amico Gianmaria, detto Santillana, già camionista, già incollatore di suole per il calzaturificio Bonomi di Badile.

Vanni Santoni (1978), dopo l’esordio con Personaggi precari ha pubblicato, tra gli altri, Gli interessi in comune (Feltrinelli 2008, Laterza 2019), Se fossi fuoco arderei Firenze (Laterza 2011), la saga di Terra ignota (Mondadori 2013-2017), Muro di casse (Laterza 2015), La stanza profonda (Laterza 2017, dozzina Premio Strega), I fratelli Michelangelo (Mondadori 2019), La verità su tutto (Mondadori 2022, Premio Viareggio selezione della giuria), Dilaga ovunque (Laterza 2023, Premio selezione Campiello). È fondatore del progetto SIC (In territorio nemico, minimum fax 2013); per minimum fax ha pubblicato anche Emma & Cleo (in L’età della febbre, 2015) e il saggio La scrittura non si insegna (2020). Scrive sul Corriere della Sera.
Il suo ultimo romanzo è Il detective sonnambulo (Mondadori 2025).
