Prima di parlare del libro, vorrei fare una premessa; una premessa che di fatto racconta una premessa.

In uno degli ultimi spettacoli di Alessandro Gori/Lo Sgargabonzi ai quali ho assistito, sono rimasto sorpreso, come può rimanerlo chi segue un artista da oltre un decennio, da un incipit nel quale  sottolineava la fastidiosa, non certo da ora, proliferazione di battutine, freddure e frasi sedicenti ficcanti: il riferimento era chiaramente ai social, i quali danno immediata visibilità e riscontro, e magari la fanno pure circolare, quella battuta.

Ovvio: l’intento del comico e scrittore – forse meglio «scrittore comico» – chianino non era tanto tappar la bocca a chi, in piena libertà, vorrebbe far dell’ironia suscitando il nulla, quanto mettere in guardia da un tipo di umorismo spremuto a ogni costo dalle meningi per raccattare qualche like o condivisione: perché più ce n’è, di umorismo, e forse meno fa effetto; soprattutto, più se ne produce, più la qualità scema, e il rischio è di trasformare una tale benedizione propria dei soli esseri umani in qualcosa di nato già stantio, buttato in mezzo a innumerevoli altre scemenze, nel maremagnum della Rete.

Insomma, una premessa necessaria, specie da parte di chi, come comico, nasce in rete nell’ormai lontano 2005 e che nello stesso luogo virtuale trova tuttora una parte della sua forza. Una parte, appunto: fuori dall’internet ci sono i libri e gli spettacoli, e non si può leggere l’artista Alessandro Gori senza tener conto di uno dei tre. È però chiaro che la scrittura giochi un ruolo chiave: la poetica dello Sgargabonzi nasce anzitutto scritta all’interno dell’omonimo blog, sostituito poi dai profili social, e il passaggio al libro con l’ottimo Le avventure di Gunther Brodolini (Fuori Onda, 2013) fu naturale.

La parola era ed è d’altronde la chiave del tutto: sia delle risate – una risata «verde», come Gori ama definirla –, sia delle incomprensioni che le continue frizioni tra mondi all’apparenza inconciliabili hanno suscitato, portando a bollare troppo in fretta tale comicità come cinica, scorretta fino all’eccesso. Addirittura Daniele Luttazzi la definì «sfottò fascista»: errore imperdonabile da parte di uno chi la materia dovrebbe, in teoria, masticarla a dovere.

Eppure, sin dal principio, ho sempre visto Lo Sgargabonzi come il contrario delle accuse, se così vogliamo chiamarle, rivoltegli: Alessandro Gori, come dimostra anche nel suo ultimo libro, Gruppo di leprecauni in un interno (Rizzoli Lizard, 2024), è di fatti un’idealista che malgrado tutto crede nell’uomo e nelle sue debolezze.

Se a una prima lettura i suoi testi possano apparire, a chi frequenta certi territori, una sorta di rimasticatura del miglior Gene Gnocchi (quello dei libri: Il mondo senza un filo di grasso, Stati di famiglia, tra i tanti), di Paolo Villaggio, del quale è innegabile l’influenza, del Nino Frassica degli esordi e del Renato Pozzetto più nonsense, a una seconda e più attenta lettura ci si rende conto di essere dinanzi a qualcosa di più.

In primis, Gori scrive meglio; non solo meglio dei suddetti autori comici che hanno pubblicato libri, ma pure di molti scrittori tout-court in circolazione; in più, il carico di sfumature e di livelli di lettura è nel suo caso notevole. Chi si ferma alla superficie rischia di non capire perché Bordanculo69, per dirne uno, brano non recente eppure ben amalgamato nella raccolta, nella sua veste da tragicommedia intrisa di allusioni sessuali volutamente volgari fino al parossismo, è più tragedia che commedia, nonostante le risate siano al massimo.

E qui tocca scomodare nuovamente Villaggio. Troppo facile, vien da dire, ridere dei suoi primissimi, intoccabili Fantozzi – quelli di Salce, per capirsi. Meno facile capire quando non si deve ridere.

Per esempio: «Al trentottesimo coglionazzo, e a 49 a 2 di punteggio, Fantozzi incontrò di nuovo lo sguardo di sua moglie».

Sfido chiunque anche solo a sorridere durante i pochi secondi seguenti. Magari c’è chi lo fa, ma potrebbe non aver capito nemmeno il significato del verbo ridere, o quantomeno della scena.

Ecco, con Lo Sgargabonzi accade grossomodo lo stesso: ci sono dei momenti in cui si ride e dei momenti di calma, per non dire di commozione.

Letti, uno dei suoi scritti migliori, un capolavoro di poesia vergato in prosa, in coda alla raccolta Confessioni di una coppia scambista al figlio morente (Rizzoli Lizard, 2022), trasposto in una indimenticabile canzone da Avincola con la partecipazione dello stesso Gori, ne è la più eccellente incarnazione:

Furono letti di rivoluzione, col cuore in gola, bagnati di scoperta, dove perdemmo l’innocenza per un’innocenza nuova. Letti che conquistammo o a cui ci consegnammo, letti dove amammo e fummo quasi amati. Letti dove leccammo buchi del culo giocando ad afferrare un’anima. Poi li leccammo tentandolo disperatamente.

Avendola sia ascoltata dal vivo, sia letta sulla pagina, nel primo caso mi è successo in più di un’occasione di sentire delle persone ridere su «dove leccammo buchi del culo», un punto in realtà molto simile allo sguardo della moglie di Fantozzi, benché declinato in modo differente: e nulla mi toglierà dal capo che quelle poche parole siano nientemeno che un modo per mettere alla prova il pubblico – che può ridere di qualsiasi cosa, è pacifico – in tal senso.

Se Letti è il lato più introspettivo, sebbene non sia pure lui un testo recente, è però da lì che bisogna ripartire per affrontare Leprecauni, un libro che segna uno scarto importante nella produzione del Nostro, che qui continua ad alimentare questo suo lato: da sempre presente, ma ora, basti ripensare anche ai versi di Canzoniere dei parchi acquatici (2023), senz’altro in modo più marcato.

Nessuna rivoluzione, ovvio: Lo Sgargabonzi più classico resiste, ancorato al suo immaginario dove l’infanzia e l’adolescenza sembrano non essersi fermate mai. Il collage in apparenza sconnesso, composto di giochi da tavolo, fatti di cronaca, figure pubbliche ripescate dal dimenticatoio, fumetti (non solo) Bonelli, cinema (italiano e commedie in particolare), musica – meglio se Britpop –, marche e sotto-marche di prodotti spariti dagli scaffali delle botteghe e dei supermercati che ricompaiono in qualità di simulacri, è lo stesso: ed è indispensabile per porre in atto la scrittura di gioielli quali I film di paura, dove la reminiscenza autobiografica si unisce a una elencazione di titoli dalla quale inevitabilmente traspare la passione per il genere horror, confluendo infine dentro una finzionalità grottesca dove non manca il retrogusto malinconico.

Troviamo poi delle narrazioni a puntate, delle collazioni di scene madri: Romanzo di formazione e Casa Coma Cose, sviluppate rispettivamente in sei e tre parti. La prima, oltreché sull’evidente destrutturazione, è incentrata sull’usura stessa subita dall’uso e dall’abuso del termine «romanzo di formazione», qui riletto in chiave sgargabonziana, in equilibrio tra il farsesco, l’indicibile, il comico e il tragico più quintessenziali. La seconda, invece, inscena i dialoghi tra i Coma_Cose, duo pop milanese, coppia nella musica e nella vita: il gioco, poiché qui di puro gioco si tratta, fa leva sui testi del gruppo, sui loro calembour (già il titolo lo è), ma anche sul loro essere milanesi all’ennesima potenza; il tutto senza cadere nella presa in giro gratuita e nella facile parodia, così da far risultare divertenti gli scambi pure agli occhi di chi fino a quel momento non conosceva la band.

Arriva poi un episodio determinante, anzi ne arrivano due, entrambi a testimonianza della maturazione artistica di Alessandro Gori.

Partirei da La lunga notte di Pietro Pacciani, anch’esso non freschissimo; eppure, per via di certe peculiarità, non è casuale la sua presenza in questo nuovo volume, anzitutto per l’empatia che, al netto di tutto, l’autore dimostra nei confronti di Pacciani, che all’epoca del processo ai compagni di merende era per l’opinione pubblica il mostro per eccellenza, vuoi per il suo passato e per le violenze fatte subire alle figlie, vuoi per il suo quasi surreale, o quantomeno così oggi ci sembra, coinvolgimento nella vicenda.

Non uno stinco di santo, vien da dire, ma pure un capro espiatorio fin troppo scontato, un modello sbagliato per tutti, da guardare solo per sentirsi migliori; al tempo stesso, dietro la patina del mostro, c’è un uomo debole, dal volto perennemente paonazzo, ignorante e però con delle inclinazioni artistiche, segnato da una vita all’insegna della violenza, subita e inferta.

È una persona disperata e irascibile, Pietro Pacciani; non si sa bene quanto la sua lacrima facile sia frutto di una maschera costruita dalla vicenda giudiziaria nella quale era coinvolto o se della sua vera personalità. È un uomo ormai fisicamente debilitato, così ce lo descrive Gori quando immagina le sue parole scritte la notte prima della sua scomparsa; e a suo modo, per mezzo di questa reinvenzione, Pacciani fa i conti con sé stesso e rievoca il suo passato – in maniera parziale, s’intende: la focalizzazione è tutta sua. Ma non è questo a colpire: piuttosto, la capacità mimetica della prosa nel restituire al lettore un’umanità fragile e disperata, con tutta probabilità inconsapevole delle violenze fatte patire alla moglie e alle figlie. Il mostro viene spogliato dalle sue vesti più banali e rivestito come un personaggio con tutti i crismi dell’universo goriano, senza però perdere di vista l’originale di partenza.

Perché alla fine cosa basta per stare bene? Un album di ricordi con la carta velina perché non si sciupino, una bottiglia di vino sfuso della cantina sociale in offerta, un bottone ritrovato, il pigiama sul termosifone, una lampada di plastica con un diavolo che la tiene stretta.

E anche qui, pare scontato dirlo, non si ride; non troppo, non completamente. Magari si ghigna un po’ durante la lettura del pezzo, portato anche in scena in uno spettacolo dedicato proprio a Pacciani, memori degli spezzoni più involontariamente comici del processo, divenuti, come ahimè troppe altre cose, dei meme nell’Internet 2.0. Però, ricordiamolo, siamo sempre più vicini alla lacrima che alla risata.

 

Vorrei poi concludere con un pezzo che è a oggi uno dei più rappresentativi del suo autore. Si intitola Trattatello definitivo sulla Riviera romagnola: quattro paginette né comiche e né tragiche; forse nostalgiche, perché no. Nulla che abbia la volontà di essere esaustivo, anche se nessuno ha saputo mai esserlo così tanto sul tema; al limite, una dichiarazione d’amore incondizionato a un luogo dell’anima e nel contempo tra i più tangibili al mondo, e che come tale, sia nell’uno sia nell’altro senso, non ha bisogno di essere spiegato troppo da chi lo crea, figuriamoci da chi prova (invano) a farne un’analisi.

 

E la Riviera nemmeno ti stordisce coi discorsi sulle radici e sullo sbarattolare, maa parla soltanto con chi ne comprende la verità più autentica, oltre i cliché e la banalità. Arrivo io e trovo un mare stupendo, limpidissimo, caraibico. Gli chiedo di restare così, perché l’indomani arriverà a rompere i coglioni un mio amico che va al mare in Sardegna. Poi quel mio amico arriva e gli tira fuori sotto al naso mucillagini, cicche, flaconi di sciampo Campus e meduse morte. Se ne va e torna cristallino.

 

Va bene, di tanto in tanto si sorride, con il Gori non ci si può sottrarre. Ma non è questo il punto. Il punto è che Gruppo di leprecauni in un interno, a parte confermare un talento cristallino come solo il mare della Riviera sa essere, ci pone di fronte a un autore in evoluzione.

Benché, come già detto, ci si muova su stilemi collaudati, c’è quel qualcosa in più che continua a differenziare Alessandro Gori dai suoi colleghi. Al di là del livello della prosa già lodato tempo addietro da altri, Claudio Giunta su tutti, dunque assai meglio di come farebbe ora il sottoscritto, troviamo in lui una scrittura comica che a oggi non somiglia a nessun’altra: si ride tantissimo e di gusto, ma a contare veramente sono le pause, i momenti in cui per un attimo il cuore ci torna in gola mentre ripensiamo ai bambini che vorremmo ancora essere, alla nostra personale Riviera.

Dopodiché, tutto si scioglie in una risata.

 

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Autore

renzi@minima.it

Marco Renzi (1989) è dottore di ricerca in Italianistica. Ha scritto di musica per «Audiodrome», «TheNewNoise» e «Indieforbunnies». Ha collaborato per quattro anni alla sezione Re:Books del «Mucchio Selvaggio». Collabora con «Il Foglio», «Minima et Moralia» e «L’Eco del Nulla«». Altri suoi articoli e racconti sono comparsi su «Duemilauno», «PULPLibri», «CrapulaClub», «Nazione Indiana», «In fuga dalla bocciofila», «Narrandom», «Spore», «Bomarscé» e sulle antologie I giorni alla finestra (Il Saggiatore, 2020) e Cronache dalla Quarantena (Nutrimenti, 2020).

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