 
			Le storie di Mariana Enriquez mi fanno pensare che in fondo i fantasmi che tanto ci spaventano non sono altro che degli emarginati. È appena uscita per Marsilio la sua ultima raccolta di racconti, Un luogo soleggiato per gente ombrosa, e gli amanti delle sue storie terrificanti ma anche ambigue e misteriose troveranno, come suol dirsi, pane per i loro denti. Enriquez è ormai, oltre che un’autrice giustamente celebrata, una scrittrice di culto, amata fra gli altri da un’icona del rock come Patti Smith e da un premio Nobel come Kazuo Ishiguro e soprattutto da scrittori della sua generazione quali Dave Eggers o – per spostarci nella letteratura in lingua spagnola – Guadalupe Nettel e Andrés Neuman.
Dave Eggers ha scritto che Mariana Enriquez si raffronta con la vita e con la morte e che ciò la avvicina a Roberto Bolaño. Il paragone non mi sembra azzardato, sebbene da qualche tempo quasi tutti gli scrittori sudamericani nati negli anni Settanta – in pieno “boom”, poco dopo la pubblicazione di Cent’anni di solitudine – siano accostati all’autore di I detective selvaggi e di 2666. Tuttavia è vero che, come Bolaño, o come l’argentino Roberto Arlt, Enriquez scrive della vita e della morte ma anche degli ultimi, dei paria della società bonaerense, dai disoccupati ai drogati fino ai mendicanti e ai bambini poveri. Però scrive anche di streghe, e di donne. O di donne che si tramutano in uccelli, per esempio. O di lesbiche, di omosessuali. E poi di fantasmi, certo. Di fantasmi che non si danno pace, direi. Forse, innanzitutto, Mariana Enriquez scrive di follia, o per essere esatti di quello spaventoso tipo di follia che ci fa credere nel soprannaturale, nell’ultraterreno.
“Una lo sa quando sta diventando pazza” dice la narratrice di uno dei suoi racconti, I miei tristi morti (nella traduzione di Fabio Cremonesi), “e non accade da un giorno all’altro, nemmeno come conseguenza di un trauma. Tutto, tutto nel corpo è un processo. Anche la morte.”
Analogamente, tutto o quasi tutto nei racconti di Enriquez è un processo che si muove nel tempo, provocando nei personaggi – e di conseguenza nel lettore – uno straniamento iniziale che non è quasi mai improvviso bensì, appunto, protratto fra le pagine. Il lettore si abitua man mano all’orrore e all’ambiguo delle vicende narrate come se stesse vivendo un incubo dal quale però non è certo di volersi svegliare, come i protagonisti del racconto Un artista locale, che pur intendendo andarsene non riescono a trattenersi dal farsi condurre nella spaventosa casa dell’artista, una specie di mostro senza ossa accudito da un manipolo di vecchie streghe.
Questa è una delle peculiarità che distingue le opere di Mariana Enriquez da gran parte della letteratura gotica contemporanea, dove tutto sembra invece muoversi ai forsennati ritmi delle serie televisive. I suoi personaggi procrastinano, non urlano quasi mai, spesso non sanno più quello che sono – quello che siamo – e sono perciò sconvolti. Sono donne e uomini spaesati, persi, folli, disperati come le vite che fino a quel momento sono stati costretti a vivere. Sono persone che vorrebbero ribellarsi o salvarsi ma che non ne sono capaci. Non c’è salvezza nella letteratura di Mariana Enriquez.
Mariana Enriquez è una scrittrice marcatamente contemporanea, cosa non scontata per un’autrice di letteratura gotica. Le sue pagine sono pervase dalle crisi economiche che hanno paralizzato l’Argentina negli ultimi decenni. I suoi personaggi – le sue donne tanto spaventate quanto coraggiose, tanto colpevoli quanto innocenti – dicono frasi del tipo: “In genere il fascismo inizia con la paura e si trasforma in odio”, ribattendo ai terrori razzisti che provano i vecchi argentini bianchi di fronte ai giovani immigrati neri o meticci che devastano il loro quartiere.
Il fascismo inizia con la paura e si trasforma in odio. Quindi l’odio, sentimento che talora può manifestarsi in modo disumano, nasce dalla spavento, che invece è un sentimento profondamente umano. In questo senso il fascismo, ossia le dittature che hanno caratterizzato l’America latina nel secondo Novecento, è o è stato anche e innanzitutto umano, cioè nostro. Il fascismo ci è appartenuto. Noi – noi argentini, noi italiani: noi uomini – siamo stati fascisti. Ancora: Gustavo, il bambino scomparso nel racconto Il cimitero dei frigoriferi, non può non far venire in mente i tanti desaparecidos argentini, le migliaia di giovani innocenti pianti dalle madri ormai bisnonne (o ormai morte) di Plaza de Mayo. L’Argentina contemporanea non si è ancora liberata né dei suoi fantasmi né dei suoi orrori. Mariana Enriquez lo sa e ce lo racconta e forse – mi dico, ma non ne sono sicuro – il genere a cui appartengono le sue opere, l’horror, è soltanto un pretesto narrativo, la cornice necessaria al quadro. Enriquez scrive di terrore perché la nostra realtà è terrificante.
Tutto questo, me ne rendo conto, è molto. Il punto è che chi fa letteratura di genere, se non copia gli stantii prodotti hollywoodiani, scrive sempre per parlare d’altro. Così i personaggi di Enriquez sembrano spesso sul punto di voler abbandonare il loro stato di esseri umani “normali” – sono depressi, drogati, malati, poveri, comunque inadeguati – pur senza mai poterlo fare del tutto. Non c’è liberazione, non c’è riscatto. Le donne e gli uomini di Enriquez sono costretti in quel luogo straniante posto fra l’aldiquà e l’aldilà, fra l’ombra e il sole, dove si manifestano gli spettri e il male. Un non-luogo che forse non esiste e che tuttavia ci è necessario per continuare a vivere. Come la letteratura, o i sogni. O gli incubi, direbbe la tenebrosa Mariana Enriquez.
Edoardo Pisani, nato a Gorizia nel 1988.

 
                    
				 
                    
				 
                    
				 
                    
				 
                    
				