Con “La valigia dell’autore” proviamo a creare un racconto e una mappatura della scrittura per il teatro in italia. Drammaturghe e drammaturghi italiani di questo primo quarto di XXI secolo si raccontano, riflettendo attorno al metodo, agli incontri essenziali, all’immaginario che hanno plasmato sul palcoscenico (G.G.).
Puntata n°11 – Sedici domande a Magdalena Barile, drammaturga e autrice televisiva, coordinatrice del Corso di scrittura per lo spettacolo della Scuola Civica di Teatro “Paolo Grassi” a Milano, unico corso di laurea in Italia di questo tipo, dove insegna Tecniche di scritture drammaturgiche. Ha collaborato con artisti e compagnie come Motus e Accademia degli Artefatti, e spazi come il Teatro dell’Elfo e il Piccolo di Milano, realizzando sia commissioni che testi autonomi, come Gentleman Anne e One Day, progetto di 24 ore di teatro mai andato in scena, di cui esiste una pubblicazione per i tipi di Titivillus.
Dove nasce la prima scintilla della tua scrittura teatrale, l’idea di partenza e l’incipit: in sala o sulla scrivania?
Sono raramente regista dei miei testi e l’idea di partenza per un nuovo testo non nasce in sala, ma nemmeno alla scrivania: nella maggior parte dei casi nasce negli spazi dell’arte visiva. Sono una frequentatrice assidua di mostre e musei, di arte contemporanea come di antichità, passando per i musei etnografici e quelli di storia delle città o del folclore locale. È nella contemplazione delle opere di artiste o artisti visivi che comincia a farsi strada una nuova idea teatrale che è sempre debitrice e interlocutrice di altre conversazioni artistiche. Ammiro il grande lavoro di sintesi e stratificazione che si trova dietro le immagini. Io sono negata per il disegno, amo i colori ma è un amore da dilettante. Quello che cerco di fare con i testi è creare immagini: faccio ritratti, costruisco motivi architettonici e floreali, strutture di pensiero in sospensione che attendono i corpi per prendere vita.
L’altro luogo dove nascono le mie idee è la lettura. In questi ultimi anni sono immersa nei materiali di studiose e studiosi in ambito filosofico, ecologico e femminista sul cambio di orizzonte necessario ad affrontare in senso trasformativo lo stato attuale dei valori culturali e delle strutture sociali.
Come funziona la parte di scrittura in solitaria? Dove scrivi? Quante ore al giorno? Hai una routine?
Non ho una routine e non scrivo tutti i giorni per il teatro. Se non ho un testo a cui lavorare scrivo altro: articoli, progetti o mi dedico ai miei diari. Ho un diario dedicato alle pratiche botaniche dove annoto gli esiti dei miei esperimenti con semi e talee e un altro dedicato alle mie panificazioni naturali. Quando lavoro a un testo teatrale che sia una commissione o un progetto mio, passo molte ore al computer, senza impormi regole. Se scrivo perdo il senso del tempo. Di solito scrivo di getto materiali che trovano ordine solo successivamente. Scrivere è la parte più facile: la parte maggiore del lavoro è abitare lo zibaldone di frammenti e dare forma al corpo testuale.
Quando scrivo di solito sono a casa mia a Milano, seduta al mio tavolo bianco in legno stampato a quadretti che è il mobile più bello che ho. Una scrivania che è la pagina di un quaderno.
Come funziona la revisione dei tuoi testi? Sono influenzati dal lavoro in sala? Riscrivi scene che vengono provate?
Quando il testo incontra la scena, è destinato a cambiare. Possono essere piccole modifiche come tagli e aggiustamenti o grandi modifiche come intere scene che saltano, cambiano di senso e in certi casi ne prendono uno contrario all’originale. Se i testi teatrali sono la rete di salvataggio del lavoro in sala, la scena insegna tantissimo a chi scrive. Una cosa che mi capita spesso è di riscrivere il finale nel processo creativo collettivo delle prove. Profetico è il realizzare che i finali non si scrivono da soli. La mia prima esperienza di scrittura scenica come drammaturga (2008) è stata con la Compagnia degli Artefatti, diretta da Fabrizio Arcuri. Ero giovane e inesperta ed essere buttata nell’arena di un gruppo di attrici e attori fuori classe (fra gli altri e le altre, Daria Deflorian, Michele Andrei, Gabriele Benedetti), riuniti da un regista per creare un’opera mondo di 24 ore di teatro e performance, è stata una bella scuola. Arcuri mi dava quotidianamente degli spunti per scrivere delle scene. Dopo le prove andavo a casa, scrivevo fino a notte alta e magari il giorno dopo non mi veniva chiesto quel materiale ma solo una pagina di appunti disordinati sottratti a un mio quaderno, quella poteva essere la base per nuove improvvisazioni. Io soffrivo nel vedere come frammenti sparsi e incompiuti potessero essere preferiti a scene che mi erano costate tanta fatica. Non era la maglia della mia scrittura acerba a interessare ma lo spazio vuoto e generativo fra i pensieri condivisi, frasi appuntate di fretta, puntini di sospensioni, trattini al posto dei nomi dei personaggi, le ripetizioni, le parole fuori posto. Quell’esperienza è stata una grande palestra teatrale e mi ha insegnato moltissimo sul lavoro di scrittura scenica. One Day non è mai andato in scena per questioni produttive (anche se esiste un libro che ne raccoglie i testi) ma è stato un percorso generativo per molti degli artisti che vi hanno partecipato.
Carta o computer? Che differenza c’è per te? Il mezzo influenza la scrittura?
Ho sempre una penna con me, se non ho la carta prendo appunti su dépliant, fazzoletti, scontrini (è diventato difficilissimo ora che sono così scivolosi), margini di libri. Quando sono a casa scrivo solo al PC, che mi aiuta a fare ordine. Quando sono alle prove segno le mie osservazioni o le modifiche da fare su quaderni e quaderni che comincio e non finisco mai perché li moltiplico. Ho note di spettacoli di dieci anni fa sul quaderno che porterò alle prove di oggi. Non sono una feticista della carta: per me la pagina bianca è materiale ma anche digitale, l’una è il prolungamento dell’altra, sono alleate.
Hai dei rituali per la tua scrittura? Scaramanzie?
Quando vado alle prime dei miei spettacoli, indosso sempre un anello, che chiamo l’anello drammaturgico: è fatto con il tasto grigio di una vecchia tastiera di computer con la scritta FINE.
Qual è il testo teatrale che nella tua carriera ha rappresentato il momento di svolta? E perché?
Il 2010 lo penso come un anno di svolta. Lavoravo come autrice per la televisione (Albero Azzurro, Camera Café, Affari di Famiglia) ma cercavo in ogni modo di continuare a fare teatro. Grazie ad un progetto autoprodotto chiamato Bancone di Prova, che riuniva giovani autrici e autori e una regista, Maria Antonia Pingitore, sono approdata al Teatro i – che all’epoca a Milano era la casa della drammaturgia contemporanea – e ho scritto Lait o della potenzialità luminosa dei corpi umani. Lait è un testo sulla luce dei corpi che avevo cucito sulle radianti personalità di Federica Fracassi e Milutin Dapcevic. Questo lavoro, poi diretto da Renzo Martinelli, mi ha portato fortuna. Il testo ha girato, è stato tradotto, pubblicato e presentato in molte lingue grazie al lavoro di Fabulamundi Playwriting Europe; è poi approdato al Fringe Edinburgh Festival per la regia di Laura Pasetti. In quello stesso anno ho scritto il testo Fine Famiglia per la compagnia Animanera con cui ancora collaboro. Fine Famiglia ha fatto più di cento repliche dal 2010, l’ultima l’anno scorso. È un risultato importante per uno spettacolo di drammaturgia contemporanea. Il noto e compianto critico Renato Palazzi venne a vederci e registrò il grande divertimento che si scatenava in sala: lo definì un segnale di un fenomeno di costume e disse che per le compagnie nate nei centri sociali cominciava il tempo sacro del disimpegno: va bene la ricerca, vanno bene le performance trasgressive, ma adesso lasciateci liberi di ridere.
A quale dei tuoi testi sei più affezionata? E perché?
I testi che ho scritto sono legati alle persone che con me e senza di me hanno lavorato per portarli in scena. Ho scritto Gentleman Anne durante la pandemia perché Elena Russo Arman, artista e donna di teatro, mi ha proposto di lavorare intorno alla figura di Anne Lister, una nobildonna lesbica che, nell’Inghilterra dell’Ottocento, ha vissuto la sua vita senza mai conformarsi. Si dice che il suo matrimonio (simbolico) con la nobildonna che amava sia il primo sposalizio fra donne della storia. Questo testo ha debuttato al festival lgtbqi+ “Lecite Visioni” e poi è stato portato in scena al Teatro dell’Elfo di Milano da Russo Arman che ne è regista e attrice insieme a Maria Caggianelli Villani, le musiche sono della chitarrista e compositrice Alessandra Novaga. Da questo lavoro sono nati amori, amicizie importanti e due pubblicazioni: una italiana con Vanda Edizioni, Gentleman Anne e altre pièce femministe,e una inglese. Il testo, per la traduzione di Margherita Laera, è incluso nella pubblicazione Methuen drama anthology of contemporary italian plays ed è stato messo in lettura al Royal Court Theatre di Londra grazie al progetto Fabulamundi.
Quale dei tuoi lavori è stato il più difficile? E perché?
Ida Marinelli del teatro dell’Elfo di Milano mi ha proposto nel 2021 di scrivere per lei un lavoro ispirato a Peggy Guggenheim, la famosa collezionista d’arte. Il testo de La Collezionista ha avuto una lunga gestazione perché la direzione si è presto spostata dal biopic a un testo originale che prendesse ispirazione dalla vita della Guggenheim ma non solo, anche da altre due figure femminili che hanno abitato il palazzo di Venezia che ora ospita la sua fondazione: sono la Marchesa Casati Stampa, celebre musa e opera d’arte vivente, e Doris Capirossi, socialite, collezionista e figura influente nella politica inglese del Novecento. Nel processo di scrittura ci sono stati tanti fuochi che hanno reso la stesura particolarmente elaborata. Intanto c’era la mia volontà di restituire a Ida Marinelli, che mi ha dato completa fiducia, un materiale fertile e immaginifico dove lei, attrice di culto e amante dell’arte, potesse stare comoda per portare al suo pubblico il racconto di un’altra figura femminile che come lei aveva fatto dell’arte la sua vita. Allo stesso tempo, in accordo con il regista Marco Lorenzi e con la stessa Marinelli, volevamo cogliere l’opportunità di parlare del mondo dell’arte contemporanea, delle sue storture ma anche estasi. Volevo parlare di Noi, del teatro, delle rinunce, dei personalismi, della ribellione nell’arte, del sogno, di un sistema pubblico che volta le spalle alla cultura. L’arte che parla di sé stessa rischia l’autocompiacimento e, se poi lo fa portando in teatro un museo che è anche un teatro che è anche un museo, rischia di perdersi nel suo abisso. Ho scritto questo testo con l’ambizione di farne un quadro espressionista astratto che riuscisse a comunicare su diversi piani (forse troppi?). Il pubblico ha premiato questo lavoro, molti addetti ai lavori dell’arte contemporanea sono venuti e hanno applaudito la nostra diva, il viale del tramonto dell’arte contemporanea e i colori di un tramonto veneziano.
La tua scrittura e il tuo metodo sono cambiati nel tempo? Come?
Ogni testo che scrivo è sempre come fosse il primo. Mi chiedo come farò, come potrò mai arrivare a trovare le immagini, le parole, il giusto equilibrio fra pieni e vuoti, fra luce e ombra. Venti anni fa ero più spavalda e più sicura nella ricerca di dispositivi drammaturgici originali, sentivo l’esigenza di provocare e disturbare, come spesso accade ai giovani artisti, non sempre assecondavo questo istinto ma dovevo farci i conti. Oggi che si è disturbato e provocato abbastanza, mi sembra più ambizioso provare a dare un po’ di speranza. Non è cambiata però la centralità del corpo dell’attrice e dell’attore nel mio processo di creazione.
Cos’è per te oggi la drammaturgia? Di cosa deve occuparsi? Cosa la distingue dalla letteratura e dalla scrittura per il cinema?
Se il teatro è il nostro doppio, allora cambierà sempre e necessariamente forme e fuochi man mano che il pensiero e le narrazioni cambiano prospettiva. La drammaturgia in cui mi riconosco oggi è sempre meno realistica, aristotelica, verticale, emozionante, di denuncia, senza pietà. La drammaturgia che mi parla e con cui vorrei avere un dialogo è un dispositivo aperto, contaminato, inclusivo e accogliente dove si costruiscono visioni per una trasformazione delle narrazioni.
La scrittura teatrale, su tutte, permette un’enorme libertà espressiva che impone tuttavia, più degli altri linguaggi, l’incontro con gli altri elementi di cui è infusa: il corpo, il tempo, la musica, lo spazio, la luce. La drammaturgia che è l’alfa e l’omega di un evento molto più grande di lei, il fatto scenico, si nutre di quello che crea e provoca, senza mai determinarlo veramente. È un inseguimento poetico.
Come autrice e docente, mi dedico allo scavo di una scrittura che si assuma la responsabilità di quello che rappresenta. Se la scrittura vuole essere trasformativa, è inutile e forse nocivo rappresentare sui palcoscenici la stessa realtà che vorremmo cambiare. Più proficuo e generativo è immaginare mondi e realtà alternative come, ad esempio, società che non si basano sul profitto o sullo sfruttamento, corpi che non sono identità fisse, ma soggettività in trasformazione, e trovano la loro forza nelle connessioni e non nel potere individuale. Corpi senza organi, per citare Artaud e Deleuze, che sono spazi di sperimentazione e divenire fuori dalle logiche di sistema.
Non ho mai pensato di scrivere letteratura (se consideriamo il teatro forma ibrida e non puramente letteraria), non credo sarei capace di riempire così fittamente le pagine. Il cinema l’ho solo sfiorato. Per molti anni mi sono occupata di scrittura televisiva di serie.
Quali sono i testi teatrali di “maestri” che ti hanno influenzato o che hai amato di più?
Cambiano in continuazione ma tre sono pochi [tre è l’indicazione data in termini di spazio, ndr]. Ne scrivo sei.
Medea/Euripide
L’importanza di chiamarsi Ernesto di Oscar Wilde
Dannati di Sarah Kane
La Duchessa di Amalfi di John Webster
Un bel numero di Caryl Churchill
Il lavoro del dramaturg. Nel teatro dei testi con le ruote di Claudio Meldolesi e Renata Molinari
Quali sono gli spettacoli importanti della tua vita di spettatrice?
Hommelette for Hamlet da Jules Laforgue, di Carmelo Bene. I miei genitori erano grandi fan di Carmelo Bene ma non si occupavano di teatro. A otto anni avevo già grandi aspettative da questo Amleto, almeno di vedere il più grande di tutti mangiare delle vere omelette sul palco.
The Rocky Horror Picture Show di Richard O’Brian Il mio film preferito è anche uno spettacolo. Nato al piano meno nobile del Royal Court Theatre di Londra, è stato un immediato successo teatrale, poi è diventato un film musicale di culto. Da cinquant’anni precisi è presente nelle programmazioni dei cinema di tutto il mondo. Spesso alla visione del film si accompagna sotto allo schermo anche una rappresentazione teatrale che coinvolge il pubblico (spesso travestito come i personaggi) in un rituale codificato. Un fenomeno che ha influenzato in modo indelebile l’immaginario, allora camp, ora queer.
Splendid’s di Jean Genet, ideato e diretto da Daniela Nicolò e Enrico Casagrande. Questo è uno spettacolo importante per la mia vita da spettatrice e poi anche da drammaturga. Nel 2002 Renata Molinari, che considero la mia maestra, mi portò a vedere questo spettacolo sensuale e mortifero al Grand Hotel di Rimini. Negli spazi di un lussuoso hotel si assiste, corpo a corpo, alle ultime ore di vita di una banda di otto affascinanti gangsters asserragliati, la polizia circonda l’edificio. La consulenza letteraria era di Luca Scarlini. Quindici anni più tardi firmerò insieme a Scarlini una nuova versione di Splendid’s per Motus: un testo originale che si ispira a quello di Genet, dove i gangsters sono diventate otto splendide attiviste transfemministe armate di mitra che si chiamano Le Raffiche.
Hamletas diWilliam Shakespeare, regia di Eimuntas Necrosius
Barbarico, antinaturalistico, pieno di invenzioni sceniche memorabili. Ricordo questo Amleto come un sogno ancestrale. Il pugnale con cui Amleto uccide Polonio è dentro a un cubo di ghiaccio appeso al centro della scena che pian piano si scioglie goccia a goccia sull’“essere o non essere” di Amleto. L’attore che recitava Amleto era una pop star lituana e la sua energia da non attore sul palco era quella del front man di un concerto rock che lotta con la sua musica contro la religione arcaica dei padri.
Attentati alla vita di lei di Martin Crimp, regia di Fabrizio Arcuri/Accademia degli Artefatti. Grazie allo spettacolo conobbi questo testo importante che ha ispirato buona parte del teatro scritto negli anni Duemila e ancora oggi rimane un modello. Ma soprattutto, grazie a questo spettacolo ho scoperto, anche grazie allo stile con cui gli Artefatti indagavano i testi, che grandissimo divertimento è vedere che in scena tutto si trasforma, niente è definito a priori, le identità sfuggono, le linee della trama si interrompono e si confondono, la materia interroga sé stessa e tutto è così eloquente.
Trilogia Cadela Força – Capitolo I. La Sposa e Buonanotte Cenerentola. Nel solco della performance art femminile, Carolina Bianchi è oggi la nuova idola delle folle del teatro di ricerca. La sua discesa personale negli inferi della violenza sessista ha stregato anche me.
Cosa non deve mai fare un’autrice/autore teatrale?
Pensare di avere scritto lo spettacolo e di averne così determinato il successo o l’insuccesso. Pensare di avere scritto battute indimenticabili, scene madri e scene figlie. Daria Deflorian una volta mi disse una cosa che custodisco ancora e che all’epoca non capii completamente. Eravamo al Teatro di Roma per un evento teatrale collettivo ispirato alle Primavere Arabe. A una decina di autrici e autori era stato commissionato un corto teatrale. Deflorian, che avevo avuto la fortuna di conoscere durante le prove di One Day, mi stava dicendo cosa pensasse del mio testo e io ho accennato a una battuta che avevo scritto come “la battuta fondamentale o chiave di tutto”. Lei si è come ritratta all’idea di una visione gerarchica delle parti di un testo: non esiste niente del genere! Né la battuta importante, né la scena madre. Ero un po’ giovane per capirlo, tutta presa dalle mie belle battute… ma poi mi ci sono ritrovata. Non ci sono battute più importanti di altre, né scene chiave che aprono i significati. Il testo è un tessuto organico di inizi, trasformazioni, accadimenti che è la matassa di tutte le possibilità poetiche che succedono al suo interno. Quella conversazione è stata il prodromo di un’idea di teatro non drammatico – dunque non basato solo sul conflitto, la riuscita di un effetto o lo scatenamento calcolato di un’emozione – che oggi è diventata anche la mia strada.
Cosa non può mancare in un testo teatrale che consideri ben fatto?
Il rispetto per chi viene a vedere lo spettacolo. Al pubblico si chiedono molte cose, di presentarsi a teatro, di stare al buio, magari seduto scomodo, per ore e di concentrarsi sulla rappresentazione, di stare al gioco, di applaudire, di andare via quando è finito. Mi piace molto l’usanza anglosassone di inserire nella programmazione repliche teatrali più rilassate, con le luci di mezza sala, e l’idea che chi ne senta il bisogno per esigenze diverse sia libero di alzarsi, starnutire, andare in bagno o uscire a prendere aria. Il teatro come gesto collettivo educa in molti modi; la coercizione al buio e al silenzio per alcun di noi sono regole complicate da osservare.
Aggiungo che un testo teatrale ben fatto deve rispettare le persone che lo abiteranno. Non credo nei testi che sono costruiti come montagne da scalare o sfide estenuanti per attori e attrici. Il testo è come una pelle che si indossa, deve offrire spazio per il respiro, per muoversi comodi e protetti.
Si può davvero insegnare a scrivere un testo teatrale? Fino a che punto?
Insegno Tecniche di scritture drammaturgiche alla Scuola Civica di Teatro Paolo Grassi di Milano da tanti anni e dal 2020 sono coordinatrice del Corso di Scrittura per lo Spettacolo. Questo corso di studi è una laurea triennale, unica in Italia, che unisce materie teoriche e tecniche, laboratori pratici interdisciplinari e l’opportunità di seguire il processo di messa in scena dei testi scritti a lezione grazie alla preziosa compresenza dei corsi di recitazione, regia, danza e organizzazione teatrale. Tornando alla domanda, non credo si possa insegnare a “scrivere” tout court se non c’è già una vocazione. Credo invece che si possa insegnare a scrivere un testo teatrale a chi già scrive e ha una connessione con la dimensione tridimensionale della scena. La scrittura teatrale è un’arte di pieni e vuoti, è una letteratura ibrida, che deve fare i conti con l’incontro imprescindibile di tutti gli altri linguaggi della scena e deve saper creare le condizioni per questo incontro. Si può insegnare certamente a modellare, scolpire, scarnificare un testo per farlo diventare un’antenna per onde invisibili di luce, suono e energia fisica. Poi sicuramente la grazia con cui si arriva a fare questo non si insegna ma si può coltivare. I drammaturghi e le drammaturghe che non vanno a teatro o leggono poco alla lunga difficilmente avranno molte frecce al loro arco creativo.
Se vuoi, aggiungi una tua riflessione.
Nel teatro, purtroppo, resiste il pregiudizio che i temi “umanistici universali” e quindi di per sé teorici e astratti, dunque maschili, siano ancora i più nobili e lo spazio dedicato al femminile rimane un orpello del patriarcato. Mi auguro che le nuove direttrici e direttori artistici dei teatri italiani aprano le grandi sale teatrali, non solo le rassegne a latere, a prospettive consapevolmente più situate e periferiche, e al riconoscimento di una riflessione (già in atto) sulle nuove modalità di racconto.
Graziano Graziani (Roma, 1978) è scrittore e critico teatrale. Collabora con Radio 3 Rai (Fahrenheit, Tre Soldi) e Rai 5 (Memo). Caporedattore del mensile Quaderni del Teatro di Roma, ha collaborato con Paese Sera, Frigidaire, Il Nuovo Male, Carta e ha scritto per diverse altre testate (Opera Mundi, Lo Straniero, Diario). Ha pubblicato vari saggi di teatro e curato volumi per Editoria&Spettacolo e Titivillus. Ha pubblicato l’opera narrativa Esperia (Gaffi, 2008); una prosa teatralizzata sugli ultimi giorni di vita di Van Gogh dal titolo Il ritratto del dottor Gachet (La Camera Verde, 2009); I sonetti der Corvaccio (La Camera Verde, 2011), una Spoon River in 108 sonetti romaneschi; i reportage narrativi sulla micronazioni Stati d’eccezione. Cosa sono le micronazioni? (Edizioni dell’Asino, Roma, 2012). Cura un blog intitolato anch’esso Stati d’Eccezione.
