Questo pezzo è uscito sulla rivista «Lo Straniero»

Per la prima volta la casa editrice Adelphi riunisce in un unico volume l’autobiografia che Thomas Bernhard affidò, tra il 1975 e il 1982, a cinque romanzi (L’origine – un accenno, La cantina – una via di scampoIl respiro – una decisione, Il freddo – una segregazione, per ultimo Un bambino) i quali, riletti oggi, dopo che sulla prosa maniacale e vorticosa del loro autore è stato detto tutto, suonano come un libro sapienziale e insieme un manifesto vivo della resistenza umana (della possibilità che il nucleo irriducibile della nostra dignità possa rifiutarsi di venire schiacciato da ciò che gli è ostile e contrario, cioè da quasi tutto) e dunque come l’antitesi dell’ossessione e del virtuosismo fini a se stessi da cui i peggiori travisatori dello scrittore austriaco si illudono di sentirsi rappresentati.

Flannery O’Connor sosteneva che chiunque sia sopravvissuto all’infanzia possiede sufficienti informazioni sulla vita per il resto dei propri giorni. Nel caso di Bernhard non solo di sopravvivenza fisica si tratta, ma di un’integrità capace di non venire intaccata oltre la misura che impedirebbe di offrire calvinianamente testimonianza di ciò che, nell’inferno che abitiamo, non lo è ancora, addirittura del non-inferno a cui (pagando un prezzo statutariamente più elevato di ciò che se ne ricava, rendendo proprio per questo il ricavato inestimabile) siamo riusciti a dare spazio. E infatti Thomas Bernhard, che tra le tappe del suo romanzo di formazione in cinque movimenti a un certo punto si ritrova in un letto d’ospedale per un male ai polmoni, ripete tra il sibillino e il beffardo (lui, che proprio a causa dei problemi polmonari morì all’età di cinquantotto anni) che l’infermità da cui siamo toccati è anche di natura spirituale. “Ogni malattia può essere definita malattia dell’anima” recita non a caso l’epigrafe di Novalis a Il freddo. Come a dire che non è importante morire – visto che tutti dobbiamo farlo – ma come si muore; vale a dire come si vive: come si può riuscire (con tenacia, pazienza, risolutezza pienamente umani, e dunque patologici in un mondo che all’uomo lascia sempre meno spazio) a superare i terribili ostacoli etici, fisici, morali, i quali, indebolendoci lungo la strada che conduce a un appuntamento inevitabile, sarebbero preposti a una caduta che a quel punto risulterebbe sempre prematura e colpevole.

Si tratta di una forma d’eroismo che è la perfetta antitesi di quello nazista. Non è un caso che l’Autobiografia – la quale non procede in ordine cronologico – prenda le mosse proprio dall’ex convitto nazionalsocialista (poi cattolico) in cui il piccolo Thomas si ritrova ad affrontare le prime spaventose prove di sopravvivenza. Un crocifisso che non ha nulla di evangelico e molto di cupamente confessionale sostituisce a un certo punto sulle pareti del convitto il ritratto di Adolf Hitler che c’era stato fino a poco tempo prima, ed è questo avvicendamento a segnare un passaggio fondamentale, dentro e fuori la letteratura. La tragicomica Cacania del grande scrittore austriaco di inizio Novecento – Robert Musil – non esiste più; al suo posto un mondo (l’Austria per il tutto) in cui l’uscita dalle due guerre mondiali non è che un passaggio di consegne tra poteri; la pace come una prosecuzione su altri piani di ciò che ottusità, follia, cupidigia e crudeltà (immutate, forse eterne) hanno fatto da insostituibile alimento.

Se questo è il mondo (nuovo e immutabile al tempo stesso) in cui l’io narrante è stato gettato, per sopravvivere bisognerà rinnovare, fin quasi a stravolgerli, i capisaldi di ogni formazione, che proprio in forma stravolta e sempre più farsesca non fa che irrompere nel bildungsroman degli ultimi due secoli. Ecco allora il bisogno di abbandonare la meschinità piccolo borghese ­– cioè totalitaria – del convitto per inseguire la vita in uno dei quartieri più malfamati di Salisburgo. È qui (“l’anticamera dell’inferno”) che il giovane Thomas trova rifugio, lavorando in un sordido negozietto di alimentari, tra reduci, reietti, mutilati, alcolizzati, strappando spazio all’insensata ipocrisia dell’irregimentazione scolastica attraverso la fatica fisica, emulo di quel Ludwig Wittgenstein tanto ammirato, del cui tormentato e parimenti geniale nipote diventerà amico e sodale fino a dedicargli un celebre romanzo (Il nipote di Wittgenstein, appunto). Ecco non la consolazione ma l’ordalia dell’arte, che in quest’Autobiografia non è ancora la scrittura ma la musica, lo studio disperato del violino (una disperazione che tornerà in forma di romanzo nel 1983, avendo questa volta a oggetto il pianoforte Steinwey del Soccombente, capace contemporaneamente di salvare ciò che distrugge persino nel genio di Glenn Gould), il quale violino per Thomas è qui lo strumento attraverso il quale corteggiare la naturale vocazione al suicidio di chi è minimamente consapevole di ciò che lo circonda, fino però a sconfiggerla, decidendo di sopravvivere. Così come (sempre lei!) la sopravvivenza, questa volta più fisica che mai, è al centro della successiva tappa del viaggio, che trova Thomas in sanatorio e che, esattamente come accade per l’arte, solo attraversando per intero un regno d’ombre – solo accucciandosi cioè nel punto più buio e profondo del ventre di balena, nell’anfratto quasi magico in cui il dolore e la disperazione diventano improvvisamente pace, ristoro, paradossali compagni di viaggio – potrà essere raggiunta.

Si tratta insomma della cronaca di un attraversamento – un Orfeo secondonovecentesco che si aggira per un mondo sotterraneo, che poi è quello misurato da Beckett e prima ancora dalla preveggenza quasi biblica di Kafka. Di questi due scrittori Bernhard possiede infatti la pazienza, la pervicacia, la vocazione alla resistenza, all’indistruttibilità, e non in forma secondaria la vocazione al comico, il quale – antitetico a ogni sottile forma di umorismo metropolitano – è tra i rari spiriti da cui la tragedia della nostra specie accetta da un certo punto in poi di lasciarsi possedere. Di tutto questo la scrittura, la lingua, la prosa insomma, diventa contemporaneamente dimostrazione e testimonianza in progress. Ecco perché i vortici linguistici di Thomas Bernhard non hanno nulla di gratuito o virtuosistico: sono la paziente (una pazienza quasi erbivora, verrebbe da dire) ruminazione del male. Più il male è grande e tenace e pietroso tanto più la lingua fatta masticazione e rigurgito e ancora masticazione dovrà impegnarsi per sfibrarlo, sfaldarlo, infine polverizzarlo in modo da proseguire il viaggio, e con esso il racconto.

L’andatura di Bernhard è così non semplicemente spiraliforme, ma discontinua nella sua commuovente coerenza – avanza, incontra l’ostacolo, ci si avvolge intorno con una pazienza e una diligenza che possono durare pagine e pagine (le quali, essendo necessarie a superare l’ostacolo in questione, difficilmente potranno risultare di conseguenza anche eccessive) ruminandolo finché non ne resti più niente – fino a quando cioè, visto che il male è eterno, un ostacolo di tipo nuovo si sia già ricomposto come una nera concrezione qualche passo più avanti.

Non si tratta di arrivare alla meta puri, ma consunti (la ruminazione del male non è indolore né a buon mercato) quel poco o quel tanto (quel tanto) che è stato necessario per non veder schiantato a ogni pié sospinto il proprio nucleo irriducibile. In questa “consunzione”, le stimmate e la prova di una sopravvivenza. Ecco perché i violentissimi attacchi di Thomas Bernhard all’Austria, fuori e dentro le pagine dei romanzi più noti, risultano credibili; perché si è meritato – e a ogni riga, pagandone il prezzo, lo dimostra – il diritto/dovere all’invettiva che, specie nel nostro paese, è invece così spesso la scorciatoia per (non) fare i conti con la propria megalomania frustrata. “Nietzsche meritò di diventare pazzo, mentre qui intorno vedo troppi pazzi che non se lo sono meritato”, diceva Carmelo Bene parlando di noi italiani. Parimenti Thomas Bernhard non ha fatto per tutta la vita che meritarsi la propria antiaustriacità, strappando un respiro dopo l’altro il biglietto che non semplicemente gli consente di prendersi la libertà persino dell’offesa (“siamo austriaci, siamo apatici, siamo la vita come volgare disinteresse alla vita”) ma – visto che nella sua letteratura non ci sono che impegni da onorare – lo obbliga persino a questo pur di restare all’altezza delle proprie ammaccature.

Soltanto così, giunti in fondo all’Autobiografia, ci si può meritare di ritrovare l’inizio. Un bambino, ultimo capitolo di questo lungo viaggio, sorprende Thomas all’età di otto anni. L’Austria è fresca di Anschluss, il Convitto nazionalsocialista si profila minaccioso all’orizzonte, ma il bambino – pronto a essere scaraventato nel caos e nella crudeltà della vita – può ancora godere momenti di semplice e perfetta felicità, come una corsa in bicicletta, la compagnia dell’amatissimo nonno, o della mamma. È solo perché in futuro sarà all’altezza del compito che gli è toccato in sorte (come hanno dimostrato i capitoli-romanzi precedenti, spostati cronologicamente più avanti) che adesso, come il Marcel del Temps retrouvé ma con tutt’altra storia e strumenti, può illuminare con forza retroattiva la bellezza dell’infanzia, una sorta di benedizione originaria, e così comprenderla dal crollante pulpito del futuro, salvarla per sempre. È questo che fa dell’Autobiografia una lezione di vita e di Thomas Bernhard lo scrittore europeo di cui dovremmo andare fieri.

 

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12 commenti

  1. Molto intenso questo commento ad un grande scrittore che probabilmente non è amato perché non è consolatorio. Io invece lo amo, anche perché non voglio distogliere gli occhi dalla crudezza, anche se costa. Grazie per aver scritto così bene.

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Autore

nicolalagioia@alice.it

Nicola Lagioia (Bari 1973), ha pubblicato i romanzi Tre sistemi per sbarazzarsi di Tolstoj (senza risparmiare se stessi) (vincitore Premio lo Straniero), Occidente per principianti (vincitore premio Scanno, finalista premio Napoli), Riportando tutto a casa (vincitore premio Viareggio-Rčpaci, vincitore premio Vittorini, vincitore premio Volponi, vincitore premio SIAE-Sindacato scrittori) e La ferocia (vincitore del Premio Mondello e del Premio Strega 2015). È una delle voci di Pagina 3, la rassegna stampa culturale di Radio3. Nel 2016 è stato nominato direttore del Salone Internazionale del Libro di Torino.

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