Questo pezzo è uscito su La Repubblica, che ringraziamo
di Nicola Lagioia
Per molto tempo, con gli amici, mi sono vantato di riconoscere la Puglia in fase R.E.M. Addormentato su un treno proveniente da una città del nord, mi risveglio non appena il convoglio irrompe nel Tavoliere. Succede in automatico. Posso presumere che il mio orologio biologico abbia imparato a calcolare i tempi di percorrenza, se non fosse che i ritardi sulle linee ferroviarie smentiscono l’ipotesi. Il fatto è che me ne accorgo, di essere arrivato, persino quando dormo in automobile mentre qualcuno, accanto a me, guida a strappi e poi diritto verso l’Adriatico. Riconosco la pianura, apro gli occhi, e – per ciò che è concesso all’età adulta – sono felice. Sento nelle profondità la linea di confine, la riconosco come fosse il passaggio dalle tenebre alla luce, dico a me stesso ci siamo, ed è la voce interiore che parla a Tommaso Fiore e a Vittorio Bodini (“Viviamo in un incantesimo / tra palazzi di tufo / in una grande pianura”). Non penso: siamo in Puglia. Penso: siamo nel mondo. Ho l’assurda sicurezza – dal Gargano al Salento, delle grotte di Castellana ai corpi luccicanti dei ragazzi in tuffo dal Ciolo – che la Puglia non sia una regione, ma un continente, forse una galassia, e che l’Italia ne faccia parte. Lo spazio geografico è una variabile dello spazio interiore. Vorrei così mettervi a disposizione la mia inattendibilità, in modo che, per pochi minuti, vediate ciò che io vedo quando attraverso la regione.
A Margherita di Savoia ritrovo i fenicotteri. Il viaggiatore che ha la ventura di percorrere la statale delle Saline può contemplare questo spettacolo alieno: decine di specchi irregolari si tingono di rosa via via che gli uccelli dal collo lunghissimo sorvolano le acque o vi sostano a gruppi. Siamo su un pianeta lontano, dove il sole non smette mai di tramontare, lasciando chi guarda in un languore eterno. A Cerignola vedo il fantasma di Giuseppe Di Vittorio. Il suo faccione sconfinato (i capelli nerissimi, il naso curvo) si estende sulle città e sui campi, rammenta a chi dimentica per convenienza – e a chi per disperazione – che la dignità non si negozia, e che la lotta è un dovere. Qualcuno ha provato a raccoglierne l’eredità, è li che la politica dovrebbe guardare per guarire.
Guarire, oppure dannarsi. Qua hora non putatis, recita la scultura di uno scheletro messo a guardia della Chiesa del Purgatorio. Lo scheletro gemello, dall’altra parte, completa l’iscrizione: veniam et metam. “In un’ora che non conoscete, verrò e mieterò”. Siamo a Bitonto, nel barese. Il capoluogo e la sua terra rappresentano un sud a parte. Concretezza, razionalità, amore per il commercio. La solidità qui è un’abilitazione all’esistenza, la mortalità una constatazione, il senso per gli affari un consiglio. Una parola è poca, due sono troppe. L’esortazione “concludi!”, rivolta all’interlocutore, unisce l’augurio per se stessi (la trattativa è andata in porto) al bisogno universale di non perdersi in chiacchiere. La bianca severità delle chiese romaniche contro l’azzurro del cielo canonizza questa filosofia.
E tuttavia, nel vento e nella luce dello spettro levantino, si indovina un movimento di segno opposto. Per sapere di che si tratta bisogna imboccare la Statale 16 e scendere lungo la costa. Polignano, Monopoli, Specchiolla. Via via che si procede verso sud ci si sente più leggeri. I pensieri, da densi che erano, iniziano a disfarsi in virtù di un movimento circolare che si apre alla visione, al sogno. Il romanico impazzisce nel barocco, i santi consapevoli (Nicola, uomo d’azione, campione di solidità) cedono il passo ai santi che volano (Desa Da Copertino, frate Asino, che si staccava da terra dimentico di sé). Siamo in Salento, il luogo più a oriente d’Italia. Accendendo l’autoradio, tra i tornanti a strapiombo sul mare, si iniziano a sentire discorsi in lingue sconosciute. Albanese. Greco. Arabo. Russo. Tutto si mescola, la vita trova senso perdendo il proprio bandolo, a Leuca l’Adriatico si annega nello Ionio.
Comincia ora una terra misteriosa, fatta di spiagge libere dalla bellezza selvaggia, di ambulanti dal viso di cuoio e affittacamere con la calcolatrice in mano. Qualche discoteca. Ecco che andiamo verso Taranto. Già da chilometri si scorge il complesso industriale più grande d’Europa. L’occhio di Sauron. Ci avviciniamo. Polvere rossa sulle case e un’invettiva: qualcuno dovrebbe pagare per ciò che ha fatto, e nessuno, che non senta la città come una propria ferita, è degno di cittadinanza.
Così come ci eravamo tenuti sul livello del mare, sappiamo che è tempo di cambiare altitudine. Ci spingiamo verso l’interno, saliamo tra vitigni e stabilimenti di birra, poi entriamo nella terra delle gravine, le gigantesche incisioni scavate dall’acqua nel corso dei millenni, quindi tra i prodigi pietrificati di Martina Franca, di Locorotondo, di Cisternino. Se la statale 16 è la nostra Higway 61, questa è la nostra Katmandu, la nostra Lhasa. Siamo nel cuore profondo della regione, nel centro di una tempesta magnetica dove, a patto di esserne all’altezza, tutto ciò che si credeva perso torna a noi trasfigurato nella sua vera essenza, prima di perderlo per sempre.
Adesso possiamo richiudere gli occhi, meditare su ciò che è successo. La Puglia è un continente plurale: persino chi la frequenta da decenni ha l’impressione che non finisca mai, che i suoi confini siano un trucco. Al tempo stesso (come la psicanalisi, i grandi libri, le cerimonie di iniziazione, gli stati alterati di coscienza) è alla portata di chiunque abbia voglia di farne esperienza. La sua bellezza va oltre l’evidenza del mare e degli ulivi, la sua natura autentica si nasconde, nella sua profondità riecheggia quella di chi la affronta con desiderio.
È il motivo per cui esiste il mal di Puglia: chi l’ha vista poco ma l’ha capita, chi l’ha dovuta abbandonare, persino chi ci vive da sempre e non se ne è mai staccato, guarda alla regione come una terra promessa, un progetto futuro, un sogno da realizzare. È il motivo per cui ne ha spesso nostalgia.
Nicola Lagioia (Bari 1973), ha pubblicato i romanzi Tre sistemi per sbarazzarsi di Tolstoj (senza risparmiare se stessi) (vincitore Premio lo Straniero), Occidente per principianti (vincitore premio Scanno, finalista premio Napoli), Riportando tutto a casa (vincitore premio Viareggio-Rčpaci, vincitore premio Vittorini, vincitore premio Volponi, vincitore premio SIAE-Sindacato scrittori) e La ferocia (vincitore del Premio Mondello e del Premio Strega 2015). È una delle voci di Pagina 3, la rassegna stampa culturale di Radio3. Nel 2016 è stato nominato direttore del Salone Internazionale del Libro di Torino.
