Questa parvenza di vita
ha reso antiquato il suicidio.

Breve invito a rinviare il suicidio –
Franco Battiato

 

“Da quando Sara se ne è andata i sintomi si sono aggravati” è l’incipit di un racconto di F.M. presente nella raccolta Vite sottopelle (Reader for Blind e Tuga Edizioni, 2019) di cui non parlerò. Se viene citato è perché si trovano, messi in fila in dodici parole, gli elementi principali delle sue narrazioni. Orizzonti temporali accennati, ma che hanno sempre un punto di partenza preciso, un momento scatenante. Protagonisti femminili, anche quando raramente la narrazione sposa la prospettiva maschile. Verbi di moto, personaggi che vanno, tornano, corrono, scappano. Sintomatologia e malattie, in ogni forma, che sia fisica, mentale, reale o immaginaria. Meglio ancora se in fase acuta, se nel momento di massimo splendore. Ridurre la raccolta in questi termini sarebbe ingiusto, ma è da qui che sono partito nel leggere Il giorno in cui diedi fuoco alla mia casa (Pidgin edizioni, 2021) di F.M. Speravo di trovare questi elementi, forse li desideravo persino. Chi ha la sfortuna di leggere, frequentare, scrivere su qualche rivista online non può non aver intercettato il nome di Francesca Mattei. Verde Rivista, l’Elzeviro, Clean, Split, Voce del Verbo, Narrandom, Malgrado le Mosche sono alcune delle riviste che hanno ospitato i racconti di F.M. ed è stato interessante, oltre che soddisfacente, osservare il passaggio dalla rete alla carta. Questo è un esordio che non viene dal nulla, anzi, conferma la tendenza oramai consolidata negli ultimi anni. Nel suo scrivere appare una continuità tra i racconti prima della raccolta e i racconti dentro la raccolta, e non solo perché alcuni sono stati ripresi, rivisti e inseriti nel libro. Che F.M. avesse delle cose da raccontare, è indubbio, perché non esiste scrittore senza ossessioni. Ed è questa la prima impressione che ho avuto dalla raccolta: che i pezzi, sebbene nati come sassi e non schegge di un mosaico, si parlino e raccontino una storia, oltre le storie. L’ordine dei racconti non pare casuale, l’inizio e la fine sembrano gli estremi di un processo di guarigione: ma da cosa? Da chi? Il preambolo è finito, vogliate seguirmi in sala operatoria.

L’immagine non è inutilmente provocatoria, ma è un gioco che ho rubato all’autrice: la capacità di spostare l’attenzione, sul finale, verso un’immagine totalmente diversa, fuori dalle pagine e dalla storia, ma perfettamente simbolica del senso di quel che si stava raccontando. Pur di non dire le cose come stanno, di non usare parole banali e prevedibili, pur di non doversi vergognare. Allora per descrivere quella che stata la mia esperienza di lettura non posso che condurvi in una bianca, disinfettata sala operatoria. È stato un lento immergersi dentro la carne, oltre gli strati di pelle, e i protagonisti che continuavano a scartarsi come cioccolatini, a spogliarsi, non soltanto a svestirsi, hanno contribuito all’impressione di viaggiare dentro un corpo umano. Epidermide, tessuto connettivo, vasi sanguigni, ossa, denti, sinapsi, arti superiori, crani. L’odore di formaldeide di certi film horror, la sospensione ironica di certi film inglesi, il sapore del sesso annoiato alle prime luci del giorno – o le ultime della notte. La gioventù che guarda se stessa e non sa cosa sia, quindi arriva il primo medico, sceglie due strumenti a caso e inizia a tagliare: la sorpresa è la mancanza di sangue, perché dalla carne ne escono solo parole. È questo il pregio della scrittura di F.M.: una risoluzione chirurgica, una freddezza estetica, il tutto misto a dita di alcol, in un mix di droghe, l’elemento onirico e impossibile che trasforma le immagini quasi scientifiche nell’ombra di un sogno, o di un incubo. Blanchot scriveva che l’autore appartiene all’opera ed è una definizione che F.M. potrebbe confermare. Userò ancora le parole di B. per rispondere alla critica che l’autrice stessa ha mosso a questi racconti: non ti pare che racconto sempre la stessa storia? Era più una paura che una verità, ma se anche così fosse poco importa. Vale quanto detto per Le ripetizioni di Giulio Mozzi, ossia: scrivere è l’interminabile, l’incessante, non è esprimersi con certezza, entro dei limiti, ma provare a perfezionare la proprio immagine del mondo. Questa frase è sempre di Blachot, ci mancherebbe, però è tutto quello che ho da dire a chi si preoccupa di leggere sempre le stesse storie o di scrivere sempre le stesse cose. Sempre gli stessi schemi per dirla alla Mattei. F. M. ha affrontato la scrittura con un’assoluta onestà, privandosi del giudizio e della tendenza al commentarsi, ma lasciando tutto ai personaggi che di volta in volta offrono finestre sulla stessa immagine del mondo. I racconti prima della raccolta e i racconti dopo la raccolta sembrano quasi un DLC di un videogame, per chi è pratico del mestiere, o semplicemente un contenuto aggiuntivo offerto al lettore.

Chi ha poco tempo potrebbe limitarsi alla lettura di Smalto, il racconto che meglio riassume la raccolta e, senza doverlo nascondere, il mio preferito perché l’autrice riesce a rappresentare tutte le sue ossessioni: una grazia e una delicatezza narrativa che quasi sorprende per la durezza dei contenuti, perseguitati dalla morte che incombe e minaccia. Sposta i piani narrativi, sfrutta un oggetto, un movimento, lo smalto e il dover ritoccare il colore alle unghie, come elemento sostitutivo delle emozioni provate dalla protagonista, offrendo dialoghi surreali e un confronto impossibile tra medico e paziente: tra chi soffre e chi cura, non si parla la stessa lingua. Eppure, nonostante tutto, spunta la voglia di lieto fine: l’incantesimo si rompe quando alle parole si sostituiscono i gesti, semplici, banali, come il sedersi accanto, il piangere insieme, lasciandosi andare e sentirsi per la prima volta bella, bellissima. F. M. ha un cuore e sembra di sentire Piero Ciampi, stiamo rovinando tutto con le parole, queste maledette parole.

Il giorno in cui diedi fuoco alla mia casa avrebbe reso felice Eric Fromm, offrendogli spunti per qualche altra pagina, ma in questa sede glisseremo, riportando soltanto le parole che qualcuno aveva scelto per introdurre Malaparte. Il poeta persuade che è vero il suo linguaggio e non la favola che di quel linguaggio è pretesto, parole da ripetersi prima, durante e dopo la lettura di F. M. perché il vero elemento distintivo in una scrittura punk come la sua non è tanto l’eccezionalità, e quindi la verità dell’episodio raccontato, quanto il modo in cui è scritto. I racconti sfidano il senso del reale, sono distorti e disturbanti, ma sempre realistici, esattamente come accade con i conigli di un famoso racconto di Cortàzar. Sapere che vomitare coniglietti è impossibile eppure arrivare a crederci, convinti dall’autore che non solo è possibile, ma addirittura vero, diventare fermi difensori di questa verità, arrivare ad aggredire chi si azzarda a parlare di fantasia. Vomitare o ingoiare conigli è credere nell’incredibile. E a F. M. bisogna dare almeno questo merito: aver reso credibili delle storie altrimenti spesso raccontate con tono paternalista, giustificativo, sminuente. Rendere l’anomalia normalità attraverso l’uso preciso della violenza, dell’abuso, della famiglia, della casa. In questo ho ritrovato la sofferenza di A. D. e della sua bestia, di un morbo che colpisce prima la testa e poi il corpo, la provincia che ha dei tentacoli lunghissimi e la casa che diventa una trappola. Con una differenza non da poco: è assente qualsiasi forma di euforia, la confusione e l’esasperazione maschile, ma è rassegnazione nel subire, nell’essere vittima anche quando la violenza viene raramente commessa. È una violenza meritata, normale, quanto meno prevista. Spunti che fanno più male di qualsiasi reportage giornalistico.

M. si allontana da una certa letteratura borghese che vive la vaghezza del sentimento con il desiderio di affrontarsi senza razionalità e un atteggiamento quasi compiaciuto. Qualcuno diceva, parlando di Moravia o Antonioni, che la loro era un’angoscia senza motivo. I personaggi di F. M. di motivi ne hanno a decine, quelli che Boll chiamava fenditure attraverso cui il nulla penetra nell’uomo e l’uomo quindi si svuota arrivando arrivando ad accettare di sembrare qualsiasi cosa, pur di non sembrare me stessa (My only sunshine, p. 154). Perché i protagonisti sono indiavolati, impossessati, andrebbero esorcizzati, assolutamente refrattari al convenzionale, a quello che ci si aspetta da loro, dalla giovinezza piena di vita e belle speranza. Un tempo, forse. Ma non si commetta l’errore di cedere alla rassegnazione, anzi. Si può leggere tra le righe un certo desiderio di qualcosa di positivo o di un elemento risolutivo che arrivi a rompere la routine, come scrive nel racconto La babysitter. A proposito di questo racconto, prima di andare dritti nelle pagine, ho voglia di un’ultima piroetta. Quali sono i riferimenti della Mattei? Più leggo autori under 35 più mi accorgo che i riferimenti tornano a essere poco letterari e figli di altre forme, la musica, magari il cinema. Gli unici nomi letterari che mi vengono in mente sono Ellis e Nove, ma con le dovute e benedette distanze. Troppo spesso si è finito per cercare l’Ellis italiano, il desiderio imitativo di una scrittura irripetibile, ma la spontaneità della Mattei – non l’ho mai letto – è la strada migliore per dire che in questi racconti se ne ritrova qualcosa. Così come il collutorio, per un bianco splendente e duraturo, ricorda il bagnoschiuma di Nove, ma è soltanto un attimo, qualche pagina, poche righe, poi l’autrice torna a essere irriconoscibile e per questo autentica. Adesso fate entrare il paziente, non c’è più tempo da perdere.

Nella maggior parte degli incipit di questa raccolta troviamo i protagonisti alle prese con dei movimenti frettolosi e la contrapposizione con la staticità dei loro destini ricorda i criceti in gabbia. Non possono uscire eppure non la smettono di muoversi con frenesia. Esco di casa in ritardo. C’è un conflitto con quello che il mondo vuole e quello che i protagonisti possono dare. Uno scarto. La scorsa notte la voce mi ha detto Corri. Qualcosa di ossessivo e irrazionale perseguita i protagonisti, li mangia dall’interno. Se la ferita dà prurito. Quando non è il movimento, è il corpo stesso a imporsi: unghie, piedi, denti, ferite, graffi, tagli. L’eccesso, l’estremo, il disagio raccontato con naturalezza, tanto diretta da risultare credibile anche quando il racconto si fa eccessivo e borderline. È punk nella sua forma più umana. Autolesionismo, alcolismo, droghe, come un modo per conoscersi, attività delle quali non si fa a meno, o non si riesce a fare a meno. In una totale e benedetta sospensione di giudizio. La prospettiva è inclinata, inusuale, un approccio che rende sempre viva la lettura come quando lascia dire a una protagonista ho un teschio bellissimo, una frase impossibile, malata, poetica, nella misura in cui diventa la lingua delle protagoniste che stanno sempre a guardare da un’altra parte. Sapevo di star leggendo qualcosa di perverso, ma non ho mai trovato un distacco, un momento di scollamento tra quelle storie e la narrazione. F. M. non ha fatto un passo indietro, non ha messo distanza tra sé e quelle storie, rendendole avvolgenti e disturbanti.

L’ossessione del corpo però non passa soltanto attraverso i continui riferimenti alle sue parti, ma addirittura alle tracce – l’acqua lascia orme, il sangue lascia tracce, il corpo morto lascia ossa – o addirittura nei suoi contrappassi – l’ombra, il riflesso. Non il corpo in sé, se non come il luogo di esperimenti maldestri, dei tentativi di conoscersi e riconoscersi, di non appartenersi. Potrei riportare decine di esempi, mi limiterò a quello presente a pagina 32 perché è stato piuttosto inquietante: un gioco di specchi tra un bambino e la protagonista. Seguiamo l’uno i movimenti dell’altro, identici e speculari, in un gioco senza sorrisi e arrivato al punto mi sono accorto che stavo toccando gli zigomi con un dito, come i personaggi. Nello stesso racconto – che ha un titolo bellissimo, Struttura ossea – intercetto uno dei pochi momenti in cui l’autrice si espone e lo fa riferendosi proprio alla questione del movimento: non sentivo l’esigenza di muovermi, di respirare o di esistere – tutte necessità, peraltro, che non avverto quasi mai. Una sottile ironia, vicina alla disperazione, che permette di restare sempre nella storia. Nessuna delle protagoniste dice mai d’aver bisogno di aiuto, di essere in difficoltà, ma tutte si muovono invocandolo in ogni gesto e ogni racconto finisce in un abbraccio con se stesse, con personaggi ambigui, con uomini sbagliati ma necessari. Le protagoniste sono sole e tutto quello che desiderano è essere raggiunte, se non fisicamente, almeno dentro di loro, di spegnersi. La periferia non colpisce soltanto le città, ma anche i sentimenti.

Il controllo, il dover obbedire a delle voci, o a delle forze. Tanto potere su di me, su quello che credo di essere e quindi sono, è una dichiarazione di una lucidità sconfinata. A tratti ti preoccupi per l’autrice, non tanto per l’autobiografismo che forse riconosco soltanto nella timidezza e reticenza nell’usare certe parole, quanto per la capacità di restare dentro la storia. Donne e uomini ripiegati su se stessi tanto che la città è un pretesto contrapposto al dettaglio quasi ossessivo delle case, delle stanze, delle tane dei personaggi. Un conflitto tra dentro e fuori che non è solo concettuale: la città non ti appartiene, tu appartieni alla città, mentre la casa in qualche modo è l’immagine di te stesso, vive a tua immagine e somiglianza.  Non c’è rassegnazione, ma una precisa contezza del disagio: una costante ricerca della felicità, anche se non è proprio felicità, anzi l’autrice avrebbe usato sicuramente un’altra parola. E non è un caso se in tutti i racconti questa non appare mai, non c’è e quindi si nota. Senza dirlo mai, forse per l’imbarazzo che traspare in passaggi come Ti voglio bene, papà. Chi dice mai frasi del genere?. I finali giocano con similitudini visive, ma anche emotive e non è un caso se l’ultimo racconto, che vive di alcolismo, preveda un cambio di prospettiva e si concentri sul gatto che mi rovina tutti i vestiti, ma io lo lascio fare. Non riesco a dirgli di no. Quale lettore non si accorge che questa è la più onesta, colpevole, imbarazzata confessione? Di quelle che ognuno di noi ha detto almeno una volta nella vita e per la quale prova ancora vergogna. Un imbarazzo che l’autrice può superare soltanto in un racconto Ninnananna sfruttando un pretesto molto intelligente: il narratore è un uomo e questo le permette di far parlare in modo chiaro e diretto la donna, Elena, protagonista effettiva del racconto. L’uomo senza nome è infatti spettatore, pretesto e quel che può fare è reagire: ad agire è Elena, che si espone come non mai. Perché non mi sostieni? Non mi capisci. Dove me ne vado. Non sono parole che appartengono soltanto ad Elena, ma a tutte le protagoniste, in un modo o nell’altro. Mattei le pone a tutte, ma senza risposta.

Questo racconto mi offre la sponda per una considerazione: solo altri due racconti presentano protagonisti maschili, ma Salvo appare più la controparte di Poco, pochissimo che un racconto autonomo e In trappola ci sono Anna, perché incinta, e la madre, perché chiusa in casa. La forza di. F. M. è anche quella di riuscire a raccontare l’universo femminile, nella sua forma più dannata, sofferente, senza patemi e sentimentalismi, anzi. Persino nel racconto forse più estremo, Nata per questo, la narrazione è talmente lucida, precisa, tanto da spingere i lettore a credere che sia tutto normale: quella normalità che nell’ultimo racconto della raccolta l’autrice mette in chiaro. A quanto pare, molte cose che trovavo normali della mia infanzia non lo sono e lo fa con un’ironia che continua a spiazzare. È davvero tutto normale? Se guardiamo oltre le pagine e ci immergiamo nella realtà, di storie simili ne troviamo tantissime, e basta questo numero spropositato per rendere l’abuso una normalità, la violenza una normalità? Cos’è davvero la normalità?

C’è tutto l’essere giovani in questi racconti: quella voglia di essere sempre altro da sé, persino animali, pur di distrarsi e uscire, quel processo di rimozione emotiva e di presenza soltanto periferica dei sentimenti, lontani, abbandonati, esiliati. L’alcol, i falò, il ballo che spesso tornano tra le pagine hanno qualcosa di bambinesco, adolescenziale, primitivo, un tentativo poco razionale di sentirsi vivi. E felici come solo i bambini sanno fare. Mattei cerca la felicità dove già sa che non potrà trovarla, ma non si arrende e poco importa se la vita è una festa, allora non ho voglia di ridere, di divertirmi, mi annoio.

Prima, durante e dopo la lettura, ho avuto la possibilità di molestare l’autrice. Di ciò che avete letto qui, comunque, mi assumo la totale responsabilità perché, citando F. M., questa è un’ottima domanda, ma lo sai che non lo so? E forse il senso di queste pagine è tutto qua: cercare qualcosa che non c’è, proprio come la felicità o almeno un po’ di stabilità, sì la stabilità, quell’onesto stare a galla è di una fragilità come cantavano i 99 Posse.

Condividi

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Autore

yy@hi.com

Francesco Spiedo (1992) nasce a Napoli, da madre ansiosa e padre operaio, sperimentando fin da subito le conseguenze dell’iperattività. Cresciuto a San Giorgio a Cremano, studia per diventare ingegnere anche se non praticherà mai. Precedentemente animatore, cameriere, concierge, addetto alla sicurezza e ad altre attività non riconosciute dal Ministero del Lavoro, inizia a scrivere su commissione e su riviste, sotto falso nome e come ghostwriter. Stiamo abbastanza bene (Fandango Libri, 2020) è il suo primo romanzo. Crede in Maradona e Woody Allen.

Articoli correlati