In tutte le scuole di scrittura si studiano capolavori realizzati da autori che non ne hanno mai frequentata una; basterebbe tenere a mente questo per capire quanto sia inutile provare a insegnare come si scrive un romanzo. Spiegare come prepararlo è invece forse possibile, ed è quello che ha fatto Roland Barthes dedicando a questo tema due corsi al Collège de France, tra il 1978 e il 1980. I testi relativi a quei due anni di insegnamento sono raccolti in “La preparazione del romanzo”, ora in libreria grazie a Mimesis nella traduzione di Emiliana Galiani e Julia Ponzio.
Il percorso di studio parte da lontano: il primo anno viene trascorso, praticamente nella sua interezza, analizzando molti haiku. Senza che sia chiaro dove voglia arrivare, né quale legame possa essere stabilito con la preparazione di un romanzo, per mesi e mesi Barthes ne prende in esame un centinaio almeno, insistendo in particolar modo su una sensazione, difficile da descrivere, spesso associata alla loro lettura. A volte la chiama tilt, altre satori; ma forse la chiarisce meglio di ogni parola un’esclamazione: “è questo!”. Un’illuminazione improvvisa che forse è possibile capire davvero solo attraverso il suo caso più estremo, la tautologia.
L’esempio utilizzato nel corso è quello di una parabola zen che recita, in un primo momento: le montagne sono delle montagne. Poi: le montagne non sono più delle montagne. In conclusione: le montagne sono delle montagne. Sembra un movimento circolare che torna laddove era partito; per Barthes invece siamo passati dal momento della stupidità, «della tautologia arrogante, anti-intellettualista, un soldo è un soldo, ecc.» al momento dell’interpretazione, per giungere infine all’haiku. Potremmo dire altrimenti: siamo passati dalla banalità di ciò che è ovvio alla complessità del linguaggio figurato, per arrivare alla semplicità di una verità profonda.
La forza dell’haiku – il satori, il tilt che provoca – risiederebbe proprio nel non richiedere un’interpretazione, nel restituire il vero in maniera diretta. Questa immediatezza e la sua forma breve ricordano gli appunti presi dallo scrittore quando qualcosa lo colpisce. Scrive Barthes: «Voglio raccontare una serata: in principio, materia aneddotica: delle persone nuove, delle persone molto tipizzate, delle conversazioni, riti, ecc. Ma se mi metto a raccontare, tutto si riempie di cose “necessarie” da dire (per la logica della narrazione) ma che annoiano persino me che racconto. Difatti, della serata non ho “ritenuto” che due notazioni: l’abito giallo della padrona di casa (caftano) e l’addormentamento affaticato degli occhi, delle pupille del padrone di casa, una specie di haiku realista che non si esaurisce nel dire».
Ecco allora come si arriva alla preparazione del romanzo partendo dall’haiku: il mondo è un’inesauribile riserva di materiale a disposizione dello scrittore propenso a farsi ispirare dalla realtà, dalla vita vissuta; ma quando trova qualcosa di vero, che lo porta a esclamare “è questo!”, le sue notazioni si rivelano inservibili. Perché diventino funzionali alla scrittura, dovrà mescolare quei preziosi frammenti con il falso, con l’invenzione, con ciò che serve solo alla logica della narrazione.
«Forse quindi: arrivare a creare un romanzo (tale è la prospettiva – il punto di fuga – del nostro corso), è in fondo accettare di mentire, arrivare a mentire (e mentire può essere molto difficile) – mentire con una menzogna nuova e perversa che consiste nel mescolare il vero e il falso», scrive Barthes; e conclude: «In definitiva, allora, la resistenza al romanzo, l’impotenza al romanzo (alla sua pratica) sarebbe una resistenza morale». Parole che echeggiano quanto scriveva Giorgio Manganelli: «Forse è vero: la letteratura è immorale, è immorale attendervi». Poco dopo: «La sua coerenza nasce dall’assenza di sincerità», in “La letteratura come menzogna”.
Vinta la resistenza morale, lo scrittore magari finalmente convinto di scrivere – singolare caso di un verbo che ha smesso di essere transitivo, eppure continua a chiedere un complemento oggetto – incontra subito un’altra questione, relativa al desiderio da cui è mosso e alle sue possibili conseguenze. La spinta che lo porta a intraprendere un simile lavoro viene prima inquadrata da Barthes «a partire da nozioni psicanalitiche»; poi si rende conto di poterla descrivere («credo in maniera più sorprendente») anche in termini sartriani: «Gli altri, secondo Sartre, sono quelli che vi determinano oggettivamente, che ignorano irrevocabilmente la vostra Soggettività, vale a dire la vostra libertà». Perciò «Scrivere non è saggio (l’ho detto all’inizio) per il suo affidarsi interamente, completamente allo sguardo (= alla lettura) dell’Altro».
Superato anche questo problema, non sono comunque finiti gli ostacoli per lo scrittore; perché ad attenderlo, come in una favola dei fratelli Grimm, ci sono ancora tre prove da superare: il Dubbio, la Pazienza, e la Separazione. Il Dubbio riguarda alcune decisioni da prendere; la forma innanzitutto, che per Barthes viene prima del contenuto: «Nella misura in cui la visione, l’esca, l’appetito di una Forma è ciò che mette in moto la fabbricazione dell’opera – la forma è qui molto vicino alla Formula: formula di una medicina, di una costruzione, di una operazione magica; ciò che fa uscire, ciò che libera, ciò che sbroglia ciò che si vuole scrivere». Poi, certo, anche la grande domanda sul contenuto: «perché questa storia e non un’altra?».
Altro dubbio importante: è possibile portare a termine il lavoro che si ha in mente? Lo scrittore dovrebbe fare un’autovalutazione del proprio talento: «Ricordatevi di una citazione di Heidegger: nella Natura, ogni cosa resta nel cerchio destinato al suo Possibile; solo la “volontà” fa uscire dal Possibile. Avevo detto che la scrittura, come Volontà, era Impossibile (che opponevo allora all’Oziosità come Natura)». Conclude Barthes: «Adesso possiamo dire: anche all’interno della volontà di scrivere, cioè del suo Impossibile, il compito del Talento è di non uscire dal suo Possibile». Lo scrittore allora deve restare nel suo possibile; e poi tenere duro.
La seconda prova, la Pazienza, riguarda infatti il tempo, e in particolare la sua mancanza. La vita è fatta di impegni, di imprevisti, di situazioni che sembrano far parte di un formidabile complotto contro la scrittura. «Flaubert (1853, 32 anni): “Mi serve, per scrivere, l’impossibilità (anche quando lo vorrei) di essere disturbato”». Scatta allora la ricerca di un metodo, di una regola; fosse anche quella di inseguire la quiete, l’impossibilità di essere disturbati, negli orari più strani. «Balzac (1833): “Mi corico alle sei di sera o alle sette, come i polli; mi svegliano all’una del mattino e lavoro sino alle otto; alle otto dormo ancora un’ora e mezza; poi prendo qualcosa di sostanza, una tazza di caffè puro e poi mi attacco al mio giogo sino alle quattro”».
Inoltre, per affrontare le crisi – che arrivano sempre – e assecondare invece i momenti in cui la scrittura “prende”, lo scrittore deve avere la pazienza di predisporre un ambiente che rispetti la struttura del suo lavoro. «Il disordine deve essere conforme alla struttura, io voglio immaginare che sia questo ciò che vuole dire Kafka quando si lamenta di un certo disordine del suo tavolo da lavoro: “Ora ho guardato più attentamente la mia scrivania e ho scoperto che non vi si può fare nulla di buono. Ci sono tante cose sparse, che costituiscono un disordine senza uniformità e senza quell’accordo tra le cose disordinate che di solito rendono sopportabile ogni disordine”». Oggi che alla scrivania si sovrappone quel suo doppio che è il desktop, sarebbe interessante fare una ricognizione degli spazi, dei software, delle disposizioni delle finestre, degli ordini e dei disordini in cui si trovano comodi e a loro agio gli scrittori; sembra che finora una simile indagine non sia ancora mai stata intrapresa.
Giunge infine la prova della Separazione: durante la lavorazione del suo romanzo, lo scrittore tenderà a isolarsi, ad azzerare quanto più possibile la propria vita sociale; a evitare amanti, famigliari, amici, conoscenti, feste, o a dedicare loro poco tempo; è un vero e proprio ritiro dal mondo che, a seconda del carattere, potrà essere vissuto come un periodo di sacrificio e costrizione o come una felice opportunità. In ogni caso, il grado di separazione raggiunto si rifletterà nella scrittura. Di fronte all’attuale mercato editoriale alcune parole di Barthes suonano profetiche: «lo scritto non è più la messa in scena di un Valore, di una Forza attiva; non è più, o lo è male, connesso a un sistema, a una dottrina, a una fede, a un’etica, a una filosofia, a una cultura». Dopo il talento, viene il momento di misurare il coraggio: «Lo scritto si produce in un flusso ideologico (del mondo) che non si ha il coraggio di bloccare; ora l’Opera (e la Scrittura che ne è la mediazione) = precisamente il coraggio di bloccare».
In quella che a tratti sembra, e in un certo senso è, un’apologia in cui Barthes spiega per quali motivi non abbia mai voluto scrivere un romanzo, pur accarezzando certamente l’idea, resta centrale il tema di una tensione costante tra frammento e grande opera. «Valéry: “È strano come il susseguirsi dei tempi trasformi ogni opera – dunque ogni uomo – in frammenti. Niente di integro sopravvive – esattamente come nel ricordo il quale è sempre macerie e si delinea solo attraverso simulacri”». A noi rimane il diletto di immaginare, attraverso queste pagine, come lui l’avrebbe risolta; forse trovando una strada nuova per dare vita a un romanzo attraverso l’associazione di brevi notazioni, magari seguendo l’esempio di uno dei più grandi compositori del suo secolo. «John Cage: si dice che il suo interesse per i funghi provenga dal fatto che, nel dizionario, music e mushroom sono vicine; sono presenti l’un l’altra e tuttavia non sono legate; è un tipo di co-presenza ancora molto difficile da pensare: pensare una co-presenza che non sia metonimica, antitetica, causale, ecc.; una successione senza logica e tuttavia che non significhi la distruzione della logica».
Gilles Nicoli è nato a Roma sette giorni prima che Julio Cortázar morisse a Parigi. Scrive soprattutto di libri, cinema e videogiochi.
