di Leonardo Merlini

A quel punto penso ai buchi neri e all’orizzonte degli eventi, dove il tempo rallenta fino quasi a fermarsi; penso alla seconda parte del Don Chisciotte che fonda il romanzo moderno e al tempo stesso già lo esaurisce; penso alla Nazione delle piante di Stefano Mancuso; penso al viaggio oltre le stelle dell’astronauta Bowman e all’idea platonica della playlist, così aderente alla vita contemporanea. Penso alle scelte mancate, alle occasioni perdute, al fatto che tutto accade una sola volta e che Milan Kundera ci ha in segnato che una volta è nessuna volta, quindi tutto è più leggero, pur nel suo ostinato dramma. Penso soprattutto che, comunque, questa sorta di Big Bang è – entro certi limiti – controllata e voluta, è parte di un copione (vuoto, ma comunque esistente, previsto), penso che, sebbene potenzialmente infinito, lo spettacolo a un certo punto finirà – e così poi succede e, confesso, resto un po’ disorientato quando i performer tornano sul palco a ricevere i sacrosanti applausi, che, lo so, hanno il compito di ricordare a tutti, me in primis, che siamo comunque a un festival e che quello che è accaduto nell’ultima ora era una messa in scena. Una parte di me avrebbe voluto restare per sempre sul bordo di quel buco nero, per una quantità di motivi che hanno anche a che fare con le mie nevrosi personali, è ovvio, ma non solo. Però è giusto così.

Torniamo un attimo indietro: sono seduto in quinta fila nel momento in cui la coreografa Francesca Pennini spiega le nuove regole che governano la seconda parte del Manifesto cannibale del CollettivO CineticO, portato dalla compagnia al Santarcangelo festival 2023. In quel momento, dopo avere costruito una serie di scene che usano come materiale coreografico la musica di Schubert, lo spettacolo termina ufficialmente, ma al tempo stesso diventa infinito, esce da ogni possibile cornice e si impossessa dell’idea stessa del tempo. I ballerini sono infatti invitati a sfidarsi a restare il più possibile immobili, a fare come piante, che rinunciano al movimento per radicarsi, fino a che riusciranno, fino a che il loro corpo reggerà la posizione, decisa da un improvviso stop alla musica sulla quale stanno ballando. Fino a che reggeranno, resteranno in scena. Già questa è una potente inversione dei poli del campo magnetico che il teatro, e in particolare la danza, crea tra se stesso e il pubblico. Ma a prendere una piega difficile da raccontare è proprio il fatto che lo spettacolo in sé, con la coreografia puntigliosa e colta che lo ha sostenuto fino a quel momento, decida di farsi assorbire completamente da un atto di recitazione apparentemente in negativo – la rinuncia a ogni forma di azione e di interpretazione, il dire no a un intero mondo e alla sua narrazione, nemmeno stessimo parlando di Bartleby – che però in realtà si riversa nel proprio opposto, nella più grande e sconfinata forma di utilizzo del palcoscenico, lo spettacolo senza limiti che trasforma tutto in un’appendice della (non) recitazione, che diventa molto semplicemente opera totale. Il pubblico, ha spiegato Francesca, è libero di andarsene o di restare, perché “lo spettacolo è finito”, e quindi chi resta, come me, decide a sua volta di ribaltare il proprio ruolo nello schema classico, si assume un rischio profondo, compie – magari segretamente e in modo apparentemente irrilevante – un gesto sovversivo. Credo che sia questo pensiero a inebriarmi, nonostante il caldo, oltre al fatto che mi ostino a cercare immagini per raccontare di esserci stato, di avere assistito a questo momento, che è per me fondativo, ma, grazie al cielo, si ripeterà ogni volta che Manifesto cannibale andrà in scena, diventando, come potrebbero dire Primo Levi o Italo Calvino, periodico.

Proprio questa seconda parte del Manifesto cambia le cose in maniera radicale. Succede qualcosa che ha del romanzesco, anzi, del metaletterario. L’idea di teatro esplode davanti a me in maniera del tutto inattesa, con la forza di un lampo, rapido e folgorante. Resto sorpreso, ma, dato che vivo per raccontarla, cerco di trovare dei rimandi, dei riferimenti, cerco di darmi delle spiegazioni, che poi potranno diventare un pezzo sullo spettacolo. Forse è l’errore di fondo, forse è il motivo che allontana sempre la vita “reale”, per come ce la presentano, dall’esperienza effettiva, la mia. Le cose diventano “vere”, a un certo punto, solo se le scrivo; scriverle, come diceva anche David Shields (in un saggio magnifico e trascurato intitolato How Literature Saved My Life, e a me viene in mente anche quel pezzo dei R.E.M. intitolato How the West Was Won and Where It Got Us), è l’unico modo perché assumano una dimensione di effettiva realtà. Forse il problema è tutto qui, ma siccome scrivere è un’avventura – nel senso del film di Antonioni più che di qualcosa di rocambolesco – so che non posso fare altrimenti: si fanno delle scelte, si decide chi essere (o chi fare finta di essere che, come ci ha insegnato Kurt Vonnegut, in fondo è esattamente la stessa cosa, al netto della sindrome dell’impostore) e io ho deciso di essere quello che scrive e dice “io” in questo pezzo, che forse parlerà di danza e teatro contemporaneo, forse di altro, forse solo delle folgorazioni di una sera afosa a Santarcangelo, guardando il lavoro straordinario di Francesca. E cercando di ricordare che siamo comunque sul terreno della performance e della scrittura, siamo sul terreno letterario, nel senso più ampio del termine. E ogni buona letteratura è anche una – grande, verissima, sconvolgente e poderosa – finzione.

Bang!

Mia figlia corre sulla spiaggia, tira molto vento e sembra di stare su un qualche mondo alieno: alberi sradicati, sassi scuri, il mare verde e spumeggiante. I suoi capelli, il modo in cui muove le gambe e appoggia, molto brevemente, i piedi a terra. Si volta e mi sorride, due denti non le sono ancora scesi del tutto, ma i suoi occhi mi parlano di libertà. Mentre la osservo sento fisicamente addosso la realtà del momento, l’indiscutibile (per quanto sempre insondabile) evidenza del fatto che io sono lì con lei in quel momento, in quel luogo reale. Vorrei saperlo raccontare con la stessa evidenza, trovare le parole per il suo modo di muovere il collo un attimo prima di girarsi verso di me, per la sabbia che solleva correndo, per l’odore che sentirò nei suoi capelli quando, arrivati a destinazione, mi abbraccerà.

La mattina dopo lo spettacolo incontro Francesca Pennini per intervistarla. A un certo punto, nel mezzo di uno dei mesi di luglio più caldi della storia umana, mentre stiamo parlando comincia a piovere, gocce grasse, cariche di malinconia. Andiamo avanti lo stesso, anche se i nostri occhiali sono rigati da qualcosa che sembrano lacrime venute da fuori di noi, seppure molto personali. “Io ho sempre avuto tantissima necessità di controllare le cose – mi ha detto a un certo punto – e forse proprio per questo motivo artisticamente ho sempre cercato di boicottare questo aspetto, per cui ho voluto sempre creare dei piani perfetti con delle valvole che li rendessero irrealizzabili. Ti trovi in una situazione di magnetismo dove continui a orchestrare, ma è un orchestrare senza controllare, e a quel punto forse si riesce a entrare in risonanza con le cose, per lasciarsi modificare da esse e non per modificarle”. L’opera che modifica il suo autore, l’arte che prende il posto della vita e costruisce la vita in profondità, ce la restituisce senza controllo, perché anche il controllo, alla fine è impossibile. Di questo stiamo parlando sotto questo cielo romagnolo. Eppure stiamo parlando anche di qualcosa che rimane un’operazione del tutto autoriale, resta un oggetto d’arte, che solo in virtù di questa oggettivazione – e mi vengono in mente i filosofi dell’Ontologia orientata agli oggetti, OOO – può farsi soggetto. La funzione di complemento che, lei sola, può diventare guida del ragionamento e del discorso. “Mi piace pensare di essere attraversata – ha aggiunto la coreografa – cioè di fare delle scelte anche molto radicali, molto forti, in cui credo. Però è come vederle crescere da sole poi, cioè rimanere di lato e guardare cosa succede”. Forse continua a piovere, mentre lei parla, ma non importa, va benissimo così.

(Nessuna delle nostre azioni merita la nostra adesione, diceva, più o meno, Emil Cioran).

È passato un mese da quei giorni di Santarcangelo, ma ho continuato a pensare allo spettacolo del CollettivO CineticO e all’incontro con Francesca. E tutto è riemerso con ancora maggiore chiarezza quando, lavorando a uno spettacolo su Philip Roth, sono tornato a leggere la memorabile intervista dello scrittore con la Paris Review uscita nel 1984 nella quale raccontava, per esempio, la sua ricerca per “essere ambiguo e chiaro allo stesso tempo”. Si sta parlando di Nathan Zuckerman – uno dei più noti personaggi di Roth che abbiamo sempre chiamato, forse con eccesso di semplificazione (o di imprecisione) il suo alter ego – e lo scrittore spiega che “siamo tutti scissi, ma pochi in modo esplicito come lui. Tutti noi siamo pieni di crepe e spaccature, ma di solito cerchiamo in ogni maniera di nasconderle”. Lo spettacolo di Santarcangelo, mi dico adesso, mentre martorio di sottolineature con il pastello rosso l’intervista al buon Philip, faceva esattamente questo: smetteva di nascondere, forse addirittura di nascondersi, e in tal modo trovava quella sintesi un po’ chimerica tra l’idea della realtà e della sua stessa rappresentazione. Tra il controllo e l’imprevedibile, tra la misura e la follia. E, mi ripeto in stato quasi di esaltazione culturale, per arrivare a questo grado tendente all’assoluto di approssimazione alla verità dell’opera d’arte, la parola chiave la dice Roth poco dopo: “Fingere”, to pretend nella versione originale. “Io sono uno scrittore – spiega a proposito del romanzo La lezione di anatomia – che scrive un libro in cui mi spaccio per uno che vuole essere un medico che si spaccia per un pornografo, che a sua volta, per confondere la personificazione, per renderla più graffiante, finge di essere un noto critico letterario”. E poi: “Costruire una falsa biografia, una storia fasulla, escogitare un’esistenza semi-immaginaria a partire dai reali accadimenti della mia vita è la mia vita”. Per chi ha anche solo una vaga idea della biografia e della bibliografia di Roth, che è arrivato alla fama con lo “scandaloso” Lamento di Portnoy e nei romanzi successivi ha raccontato una storia credibile, ma totalmente falsa rispetto alla propria vicenda, su tutto ciò che avere scritto un libro che assomigliava a Portnoy avrebbe provocato di devastante alla vita di Zuckerman (di Nathan Zuckerman, non di Philip Roth), per chi si è posto delle domande sulla relazione così stratta tra autore e personaggio, ecco, queste parole sono una specie di Santo Graal. Roth c’è ma non è lui, la verità letteraria vive oltre l’autore e da lui prende le distanze. Si radica altrove, come i ballerini di Francesca Pennini (e come lei stessa, perché essere compromessi con la materia della propria arte è un altro degli aspetti chiave), che cambiano improvvisamente le regole del gioco in modo profondo, rompendo il patto narrativo classico tra palco e platea per crearne uno nuovo, per mettersi in gioco in prima persona, senza dimenticare, ancora Roth, “che uno scrittore è un attore che recita la parte che sa fare meglio, anche quando indossa la maschera della prima persona singolare”. Guardo i ballerini del CollettivO CineticO e penso che anche un attore è un attore che recita la parte che sa fare meglio.

La mia.

(Già, perché il miracolo dell’arte è individuale, e ha a che fare con il modo in cui parla di te stesso con una chiarezza che tu non riusciresti mai a trovare, molto semplicemente).

Poscritto.

Sono anni che scrivo pezzi in prima persona singolare. Le parole di Roth sono state una specie di faro, un po’ per rassicurarmi, un po’ per combattere il retrogusto di impostura strisciante che ogni volta che scrivo “io” provo nei confronti del mondo (ma anche di me stesso). Nel mio mestiere di critico culturale (oscuro e irrilevante a piacere, non è questo il punto) ho scelto di percorrere una strada: quella di calarmi con il mio stesso corpo dentro le cose di cui devo scrivere, il più possibile per lo meno. Ho scelto di arrivare a una forma di compromissione con l’opera per poi poterla – forse – raccontare con un certo grado di onestà (in senso hemingwayano, ovviamente, non di roba tipo Mani Pulite). Ma tale onestà può essere solo figlia di quel “fare finta” di Philip Roth, e questa idea, vi assicuro, mi dà felicità. (Insomma io c’ero, ma non c’ero; ho danzato, ma senza farlo; non ero io, ma nello specchio mi sono riconosciuto).

E la seconda parte di Manifesto cannibale mi piace perché obbliga i performer a smettere completamente di fare finta – li blocca fisicamente nel proprio corpo di persone prima che di ballerini – ma, al tempo stesso, costruisce un livello superiore e meraviglioso di opera d’arte, vera come solo la finzione può essere. E allora mando un pensiero a Franz Kafka – forse il più grande in assoluto in questo campo, colui che aveva raccontato il Teatro Naturale dell’Oklahoma, dove ognuno recita se stesso – e digito sulla tastiera le ultime lettere di questo pezzo: arrivederci.

(Amore, ciao

Le nubi sono già più là)

 

Condividi

1 commento

  1. ho letto tutta d’un fiato questo bellissimo scritto veramente toccante e struggente! bellissima scrittura fluente ed emozionante che non incespica nei meandri del banale ma rimane densa ed entusiasmante viene voglia di continuate a leggere e quando finisce il sentimento che si prova è di dispiacere che è finito il pezzo! mentre leggevo sentivo i suoi pensieri la voce e il cuore! veramente molto bello! bravissimo merlino

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Autore

redazione@minimaetmoralia.it

Minima&moralia è una rivista online nata nel 2009. Nel nostro spazio indipendente coesistono letteratura, teatro, arti, politica, interventi su esteri e ambiente

Articoli correlati