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di Mario De Santis

Tutta l’arte è impegnata. Tutta l’arte in fondo ci viene offerta come pegno dall’artista che riceve da noi spettatori, dalle istituzioni museali, dai galleristi e dai collezionisti, l’attenzione e la fruizione. Questa poi, quasi un automatismo, si traduce in denaro  – chi per comprare l’oggetto artistico, chi solo per vederlo o esporlo. Del resto l’etimologia stessa di “Pegno” rimanda al tema pittura:  pignus  deriva pingĕre  ovvero proprio “dipingere” perché in origine c’era un segno fatto su una tavola per ricordare un impegno preso, poi traslato nel contratto di scambio.

La bellissima mostra di “Monte di Pietà” ideato dall’artista svizzero Christoph Büchel per la Fondazione Prada e visibile fino al 24 novembre nella sede di Venezia, scava nel cuore della contraddizione non solo tra arte e mercato, ma di tutta la nostra relazione con gli oggetti, con l’accumulazione di beni e con il loro consumo forsennato, eccessivo.

Lo fa a partire dalla memoria fantasmatica del luogo, perché la Fondazione Prada nel 2011 ha trasformato in sede museale il palazzo settecentesco Ca’ Corner della Regina che è stato sede del Monte di Pietà di Venezia dal 1834 al 1969.

Büchel in qualche modo lo ha riportato teatralmente alla sua antica destinazione, a partire dall’ ingresso, mascherato da negozio “Compro Oro”. Dentro, un’esplosione in accumulo di oggetti, apparentemente disordinata, ma con una logica citazionista precisa. È un antro delle meraviglie, un percorso infantile in soffitta. Qui troviamo i bauli della modernità, oggi che viviamo il tempo postumo della relazione spesso virtuale col mercato dell’acquisto  (vedi Temu, Amazon su tutti).

Allargando il discorso Büchel va al cuore delle questioni economiche globali, ponendo al centro il tema del debito ( c’è uno schermo su cui scorre in tempo reale l’incremento, espresso in trilioni, del debito mondiale e se si sosta davanti anche solo per un minuto il senso di progressione è vertiginoso).

Se la storia della modernità ha inizio con i prestiti dei primi banchieri (tra cui i genovesi e i toscani) ai monarchi d’Europa, che potevano così finanziare guerre di conquista con cui poi ripagare gli stessi debiti, creando di fatto l’economia capitalista, l’equilibrio dei conti tra dare e avere è la questione  politica centrale dei nostri anni, con le istituzioni sovranazionali del mercato che impongono un regolamento di controllo delle finanze nazionali (e dall’altro la spinta sovranista che invece reclama la possibilità di svincolarsi da questi obblighi).

Büchel tiene questo punto critico bene presente, ma lo fa da artista, dispiegando il dono artistico, l’eccesso simbolico che trascina una vertigine metaforica: del palazzo e del suo contenuto, un “site specific” dove il visitatore troverà, tra il piano terra e il primo piano nobile, una serie di ambienti, stanze che nel complesso riversano su chi le attraversa un senso esaltante e insieme oppressivo della stratificazione ipertrofica di oggetti.

I significati sono spesso evidenti (tavoli da gioco, slot machine, montagne di abiti, quadri, catenine) a volte più reconditi. Interessante il parallelo di libri: si passa da saggi sul tema economico alla stanza dei “libri mastri” provenienti dal Monte dei Pegni di Napoli. Lenzuoli a terra che vendono borse tarocche, accumulo di vestiti di grandi catene usati e gettati. Alcune stanze sembrano cantine con accumulo di scarti, nel cortile panni stesi e un accumulo di bici (vietate a Venezia, simbolo di disvalore) un’intera sala controllo di navigazione, stanzette di prostitute entro cui un vecchio televisore trasmette televendite, una stanza di grossi Pc, che da un lato mostrano videogiochi dall’altra generano con dischi colorati in diretta dei Bitcoin, una sala di banchetto, con il tavolo su cui giacciono i resti di una festa di persone ricche, poi un grande emporio che vende di tutto ma soprattutto armi e in cui è presente uno degli obiettivi ricorrenti di Buchel, Donald Trump, e molto, molto altro. L’accumulo è il nostro incubo ma pure la meraviglia della mostra.

C’è anche una cappella, con tanto di madonna, candele (le reliquie sono feticci, come gli oggetti che consumiamo) ma che è un nucleo concettuale della mostra: infatti il Monte di pietà è stata un’invenzione medievale di microcredito per poveri dell’ordine francescano, permessa dal papa perché non si restituivano interessi. Le  carrozzine da invalidi o stampelle, appese al soffitto, i cuori ex-voto (anche il miracolo va “ripagato” con offerte e oggi quei cuori sono gioielli e decorazioni fashion).

L’artista svizzero è noto (e temuto)  per le sue installazioni provocatorie: nel recente passato ha creato una moschea islamica all’interno di un’ex chiesa cattolica sconsacrata in occasione della Biennale d’arte di Venezia (ne scrisse qui Tomaso Montanari) . Poi con “Invite Yourself” ha creato un sito di aste su e-bay o  per la mostra “Capital Affair”  ha destinato l’intero budget al visitatore della galleria che avesse trovato l’assegno nascosto (fa venire in mente che oggi una delle challenge social più note  è la “Catch Cash” , caccia al tesoro urbana per scovare banconote).

“Monte di pietà” ci sfida a trovare il filo e i significati dei mille oggetti, in un carosello di contraddizioni conseguenti all’accumulazione eccessiva, fantasmagorica. Lo fa dietro pagamento, ovvio, del biglietto. Büchel gioca anche sulle ambiguità dell’arte, il suo mercato, che esiste da sempre. Lo fa mettendosi in gioco: al centro del grande emporio sta “The Diamond Maker”  un’ opera del 2020 fatta di una serie di diamanti sintetici, ottenuti processando il materiale di opere d’arte distrutte dell’artista svizzero, mescolate alle sue feci (evocando la provocazione storica di Piero Manzoni, citato in mostra con copie-souvenir  della “Merda d’artista” spesso venduta nei bookshop dei musei). Insomma tra distruzione e ricapitalizzazione, anche l’arte è oggetto è consumo, rifiuto e riciclo – e come avviene con i rifiuti, la loro trasformazione in energia o carburanti (o qui diamanti) può essere una nuova rendita economica.

Gli oggetti tramandano la memoria e insieme ne sono lo scarto. Nel gesto che sarebbe piaciuto a Walter Benjamin di recuperare e dare valore di feticcio, come un collezionista di brica-a-brac,  Büchel ci offre il moto perpetuo non solo di un modello economico ma anche – all’opposto – di un’interrogazione critica che la smaschera e sempre la deve accompagnare.  Tra custodia, uso, riuso del reale, propone una mostra dove fondamentale però è il rallentamento, l’ascolto, indugiare e pensare, ragionare sul dettaglio simbolico di quella massa di materia. Pur nella linea discendente da Duchamp, gli oggetti di Büchel però danno per già acquisita l’ambivalenza del ready made tra scarto e sacro. Il suo è più un caleidoscopio in cui le riflessioni superano i dualismi. La forza (anche magnetica di questo antro incantato) sta proprio nella minuzia realista, i mille risvolti del mosaico di una realtà che necessita di attenzione e riflessione, nello scambio simbolico tra arte e storia.

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