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Nel mondo del giornalismo culturale, dove spesso ormai alle recensioni si preferiscono le segnalazioni e le anticipazioni, una delle cose che non accade praticamente mai è che si parli due volte dopo dello stesso oggetto, e questo è tanto più vero se questo oggetto è una cosa piccola, un film indipendente, un libro uscito in sordina, etc… Anche per questo postiamo qui un altro articolo su uno dei più bei film di quest’anno. Se non l’avete fatto, andatelo a vedere, anche perché è facile che ne continueremo a parlare.

di Paola Soriga

Cate ci crede davvero che la luna la possa ascoltare, che da là in alto arrivi a sentire la sua voce di ragazzina affacciata alla finestra di un appartamento sgangherato in un palazzone di periferia.

Ha dodici anni e vive con una sorella piccola, una più grande che lavora la notte eppure è ancora bella come un angelo, e i suoi due bambini. Nell’appartamento, i letti uno sull’altro, ci sono anche il fratello più grande che la adora e, come lei, vuole fare il cantante, quello più piccolo, che si fa l’ultima dose di eroina a letto, prima di dormire, un altro che è un romantico e gioca a pallone e poi Tonio, che pensa solo alle donne e vuole uccidere “Gigi del quinto piano l’innamorato mio”. Il padre ha una pensione di invalidità anche invalido non è e non fa niente tutto il giorno, se non salire sugli autobus per strusciarsi addosso alle ragazze, mentre la madre è disabile davvero ma ugualmente lavora a casa e fuori. Cate parla guardando dritta negli occhi, e dallo schermo viene forte la disperazione che lei sa trasformare in forza.

Con ironia e grazia, Bellas Mariposas, il nuovo film di Salvatore Mereu, racconta la storia di una ragazzina che conosce le percosse della vita eppure sa mantenere l’incanto, la storia di un quartiere difficile, isolato anche fisicamente dal resto della città, la storia di questa città che è Cagliari allagata di luce. Cate e Luna, che sono “come sorelle e più che sorelle”, la mattina del 3 agosto “giorno dell’ammazzamento di Gigi”, se ne vanno a nuotare al Poetto, la spiaggia cittadina che con i suoi stabilimenti ricrea le separazioni sociali della città, tiene lontani i ricchi dai poveri, da quelli dei paesi. Arrivano la mattina alle nove, quando ci sono “soltanto mamme con bambini piccoli – i maschi si svegliano tardi”, e il mare le salva dalle mura svilenti in cui vivono, il mare che le accoglie ed è grembo trasparente che protegge, “quando nuoto dimentico casa quartiere futuro mio babbo il mondo – dovevo nascere pesce.” Se ne vanno per le strade deserte di Cagliari, i sandali sull’asfalto bollente e il bianco delle mura e le torri, a mangiare gelati e rispondere ai maschi, che anche se loro ancora sono piccole “e non c’è niente da vedere o da nascondere”, comunque le scocciano. I loro corpi normali, di adolescenti un po’ brutte e un po’ belle, protetti da un costume olimpionico, che è “come una corazza da guerriera”, la battuta sempre pronta, una trovata sfrontata. Vivono con madri e sorelle sfruttate e stanche, ma capaci di cantare e preparare un sugo speciale quando sono felici. Attorno a loro si muovono pigri gli uomini, legati a una cultura che esalta il sopruso e la violenza, l’assenza di parole per spiegare e raccontare. Tranne pochi. Per questo Cate è vergine e l’uomo se lo sceglierà dopo, quando sarà già una rock star, “come Marco Carta, che è sardo come noi”.

I personaggi del film, quasi tutti interpretati da attori non protagonisti che il regista ha saputo guidare e seguire, e che guidano noi nel loro difficile mondo, sono capaci di creare risate e tenerezza. Bravissime le due protagoniste, Sara Podda e Maya Mulas, ma anche gli altri, come Luciano Curreli, che interpreta il padre di Cate, e la piccola Giulia Coni, che è Luisella nel film. Tutti parlano quel garbuglio di italiano e cagliaritano che determina l’ironia, la leggerezza, fuor di retorica e senza crudezza, delle cose, che sono loro a essere crude, e bastano da sole.

Così è anche l’omonimo racconto lungo di Sergio Atzeni, da cui è tratto il film, pubblicato da Sellerio dopo la morte dello scrittore, annegato a 43 anni nel mare di Carloforte, nel 1995. L’ultimo libro di un autore che di Cagliari ha saputo raccontare, per primo, particolarità e contraddizioni, a partire da quel mare da cui è circondata, barriera che isola ma anche porta verso il mondo, che il mondo include in un meticciato lontano da ogni idea o mito di purezza identitaria o linguistica. Atzeni che ha cantato il groviglio di terre che si sono incontrate nella nostra, Cagliari che abbaglia, che ha una bellezza capace di stregare, anche quando respinge, e che appare all’improvviso vera e viva, nelle pagine di Atzeni, e diventa di tutti, entrando nei romanzi, nei libri in cui non era ancora stata, per anni nascosta dalla narrazione di una Sardegna interna, arcaica e immobile nei gesti e nei pensieri.

Bellas Mariposas è al cinema da poco più di un mese e soltanto in poche sale, a Roma al cinema Alcazar, in Sardegna in varie sale che non sono, come succede di solito per le piccole produzioni, le sale piccole dei cinema d’essai, ma quelle dei nuovissimi multisala, capaci di attirare un pubblico vasto e vario, perché per la Sardegna questo è un film importante, chissà che non lo diventi anche per il resto d’Italia, in cui arriverà presto. Il produttore, Gianluca Arcopinto, che già aveva lavorato nell’isola assieme a Mereu per Sonetàula, ha scritto che non basta fare un film sardo per avere successo in Sardegna, ed è vero, Bellas Mariposas, girato con pochi soldi e molta cura, sta dimostrando di essere in grado di arrivare lontano. È anche il primo film di Mereu di ambientazione cittadina, in un quartiere, Sant’Elia, che aveva conosciuto, due anni fa, girando Tabajone, un film documentario realizzato da ragazzini delle scuole medie, soprattutto figli di immigrati. Prima, invece, si era misurato con le storie della sua Barbagia e colpisce una scena di Bellas Mariposas, assente nel libro, in cui la madre di Cate spegne la tv che Luisella guarda mentre fa colazione, un programma di balli e canti sardi che la irrita, e la irrita perché “sembra che la Sardegna sia solo Nuoro, e a Iglesias, e a Cagliari, cosa siamo?”. Una battuta che, nel suo essere esemplare di questo aspetto della poetica atzeniana, l’aver dato cioè dignità letteraria a una parte di Sardegna un po’ fuori dal mito, considerata sempre troppo poco sarda, e che ha aperto la strada alla generazione successiva di narratori, come Milena Agus e Francesco Abate, mostra l’ironia del regista nuorese. Nel film Cagliari si mostra allo spettatore attraverso scorci dei quartieri antichi e di quelli moderni, luci accese e vento, e un impasto linguistico che è quello della quotidianità, niente è enfatico, l’identità passa attraverso l’amore per lo scherzo e la comicità, incroci e gomitoli di storie e parole. Così gli attori del film portano i loro accenti e le loro espressioni, alveare di voci come alveare è il quartiere, gli appartamenti piccoli dentro palazzoni enormi, fra campi di erba ingiallita dal sole, su una collina da cui si vede il mare, che dà quiete alle vite schiacciate e impotenti. Ambientato ai giorni nostri, quasi vent’anni dopo quindi rispetto al libro, mantiene lo stesso nome fittizio per il quartiere, che viene chiamato Santa Lamenera ma è in realtà Sant’Elia, quasi un altro protagonista della storia. Un set naturale che, come alcune favelas di Rio de Janeiro, si trova in uno dei punti più belli della città, periferia di dolore in cui non si entra se non si conosce qualcuno, o se non si ha da comprare il fumo o la coca. Non è stato semplice neanche girarlo, questo film, occorreva esseri attenti a ogni inquadratura, non sbagliare a girare la macchina da presa per le strade o i sottoscala, non filmare per caso le persone sbagliate.

Da qui prima o poi se ne andranno, Cate e Luna, che hanno sempre gli stessi pensieri e sanno che una sera d’estate può arrivare una strega a leggere il futuro nelle mani, che le giornate possono finire in modi imprevedibili e che la luna tonda dell’estate le può ascoltare e portare lontano. “E Luna ha detto Le nostre labbra sembrano farfalle. Ho risposto Anche noi sembriamo farfalle. Luna ha detto Bellas mariposas. E ci siamo addormentate.”

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2 commenti

  1. Concordo: splendido film, e articolo esemplare. Magnifiche le giovani attrici la cui recitazione fa impallidire quella di una Micaela Ramazzotti fuori ruolo. Se non l’avete ancora visto fatelo!

  2. Complimenti a Paola Soriga, bellissimo articolo (vedere il film è ancora più necessario).

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Autore

fandzu@gmail.com

Christian Raimo (1975) è nato a Roma, dove vive e insegna. Ha pubblicato per minimum fax le raccolte di racconti Latte (2001), Dov'eri tu quando le stelle del mattino gioivano in coro? (2004) e Le persone, soltanto le persone (2014). Insieme a Francesco Pacifico, Nicola Lagioia e Francesco Longo - sotto lo pseudonimo collettivo di Babette Factory - ha pubblicato il romanzo 2005 dopo Cristo (Einaudi Stile Libero, 2005). Ha anche scritto il libro per bambini La solita storia di animali? (Mup, 2006) illustrato dal collettivo Serpe in seno. È un redattore di minima&moralia e Internazionale. Nel 2012 ha pubblicato per Einaudi Il peso della grazia (Supercoralli) e nel 2015 Tranquillo prof, la richiamo io (L'Arcipelago). È fra gli autori di Figuracce (Einaudi Stile Libero 2014).

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