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Con quasi 8 milioni di incasso, una strategia di promozione gutturale, un indotto crescente di pensose stroncature vergate intingendo il pennino nel Prozac, Io sono la fine del mondo si è conquistato sul campo il titolo, ambitissimo dai tempi dei grandi successi di Checco Zalone e prima ancora dei cinepanettoni, di “segno dei tempi”.

“Ghigno trumpiano”, “bullismo di destra”, “narcisismo aggressivo”. Su Angelo Duro, vorremmo dire incolpevole ma non ce la sentiamo, si è riversato il dizionario dei sinonimi e contrari dei nostri malesseri pubblici e privati, come se fosse la prima volta che un film brutto e sciatto, di impianto televisivo, fa incassi da record nell’inverno del nostro scontento cinematografico.

La verità è che sono le piccole cose che ci scoraggiano. Restiamo baldanzosi e prolissi di fronte a eversioni oligarchiche, saluti romani, guerre etniche, deportazioni di massa, ma dinanzi alle famigliole che sghignazzano con Angelo Duro che insulta un obeso in aeroporto ci incupiamo, diventiamo tutti Nanni Moretti che se la prende con la Bigelow nel sonno, Woody Allen che evoca Marshall McLuhan.

Da tempo la destra italiana mirava all’egemonia culturale, ma sembrava che lo sforzo si limitasse a mettersi il papillon al posto del bomber, diffondersi in lugubri elucubrazioni sulla teoria gender, maltrattare Fratoianni su Rete4, occupare polverose fondazioni culturali per invitare Simone Cristicchi a parlare delle foibe, armare di scolapasta le attempate redazioni di quotidiani un tempo progressisti. Roba troppo seria, in un certo senso, per essere presa sul serio.

Che la destra al potere si appropriasse invece della comicità, irriducibile bastione progressista dal ‘68 in poi, non l’avevamo messo in conto ed è un colpo esistenziale.

In Italia il discorso pubblico sulla risata, o peggio sulla satira, aderisce come una piattola a quello sul potere, ed è altrettanto puerile e violento. Le rivoluzioni di questo paese immobile, cioè le parvenze di rivoluzione, si sono quasi sempre insinuate a corte nascoste sotto il cappello dei giullari: dagli indiani metropolitani a Il Male, da Striscia la Notizia a Beppe Grillo, gli appetiti politici degli italiani, a ben vedere quasi sempre variazioni di un primario istinto edonistico, individualista, antisociale, si sono sempre manifestati prima in farsa e solo molto dopo, eventualmente, in tragedia (cosa non faremmo, da queste parti, per dare torto a Marx).

Angelo Duro è davvero peggiore di altri grugniti di quell’eterna calata dei barbari che è stato l’ultimo quarto di secolo italiano? Forse no, anche se Io sono la fine del mondo è un film particolarmente insulso e stolido, così arroccato dietro il presunto “umorismo scorretto” del suo demiurgo da non peritarsi di costruire una drammaturgia, e il più delle volte nemmeno delle vere e proprie gag.

È interessante notare che, per esempio rispetto a quella dei buoni vecchi cinepanettoni ma perfino rispetto a Pieraccioni o Zalone, quella di Duro è una comicità puramente verbale. Viene dalla stand-up, forma nativa americana a cui si può dire che – salvo eccezioni virtuose – noi abbiamo contribuito come segue: se gli americani hanno portato i comici nei bar, noi abbiamo portato il camparino sul palco.

Angelo Duro non se la prende davvero coi deboli. Per sfottere qualcuno bisogna provare per lui almeno un briciolo di interesse. La comicità di Angelo Duro riguarda esclusivamente Angelo Duro e il suo pubblico, almeno in questo senso è nevrotica quanto quella di un Woody Allen o Larry David, solo che è insofferente a qualsiasi approfondimento esistenziale. Esprime invece un vago e flatulento desiderio di emancipazione linguistica, una sedizione lucignolesca contro un’autorità semantica non bene identificata, percepita come oppressiva, si direbbe, soprattutto per noia.

In senso ancora più ampio, il suo film è la declinazione meloniana di una proto-narrazione che in Italia ha valore quasi archetipico, e effonde la storia del cinema nazional-popolare collegando delizie come Ricomincio da tre di Troisi, brodini come quelli di Siani o Pieraccioni, vere e proprie trivialità come questa di Duro: quella del maschio adulto che non vuole crescere, improvvisamente costretto a misurarsi con un mondo esterno che gli appare come un girone di stramberie, eccentricità, grottesche discordanze, semplicemente perché è orgogliosamente incapace di affrontarlo.

L’ultimo dei problemi di un film come Io sono la fine del mondo è insomma quello di essere offensivo o eccessivamente scorretto. Il politicamente scorretto, quello vero, fa molto ridere, proprio perché è una licenza per esplorare gli estremi del mondo, dei nostri impulsi, dei nostri desideri, ma della lezione di Louis Ck il buon Duro ha invertito l’“of course”, e rimosso il “but maybe”.

E anche per definire Io sono la fine del mondo un film di destra dovremmo prima definire la destra, in modo forse ingiusto nel paese che è stato di Guareschi e Longanesi, come rifiuto di affrontare la complessità del mondo.

“Il solo comico di destra sono io”, ha invece rivendicato di recente con insolito slancio Andrea Pucci, l’anima buonsensista, ganassa e molto meneghina di questa new wave, una sorta di Doppelgänger malvagio di Enrico Bertolino che infila sold out al Repower di Milano uno dietro l’altro e delizia il suo pubblico con facezie sui tatuaggi dei neri (che non si vedono), l’aspetto fisico di Elly Schlein (“tra Alvaro Vitali e Pippo Franco”), gli immigrati (che parlano strano e non si capisce cosa dicono ma – questa scommetto che non l’avete mai sentita – hanno il pene grande, mentre noi italiani abbiamo “il gamberetto da cocktail”). Insignito nel 2023 di un Ambrogino d’Oro su iniziativa della Lega, Pucci ha oltre 1 milione di follower su Instagram, non ha ancora fatto il film ma c’è da scommettere che è solo questione di tempo.

Se Pucci rappresenta l’anima riformista della nuova galassia, un po’ alla Forza Italia (“non sono certo fascista e non ce l’ho con Sala, vorrei solo vedere questa bellissima città amministrata meglio”), Fratelli d’Italia è senz’altro Maurizio Battista: romano, neanche lui di primissimo pelo (classe 1957), ha raggiunto tardi il successo trasversale, con la partecipazione nel 2018 al GF Vip, dove però Eleonora Giorgi si è fatta sfuggire in un fuori onda che è “un fascista dichiarato. Un Duce”. Lo stesso genere di impacci che capitano ogni tanto a ministri e alte personalità dell’attuale governo. Secondo l’Huffington Post il suo marchio di fabbrica è “la comicità genuina”, il salto di qualità non l’ha fatto nei teatri ma su Facebook e la consacrazione è arrivata quando nel 2020 ha querelato Selvaggia Lucarelli e Dagospia ha dedicato un articolo alla faccenda, un vero e proprio rito di passaggio per la celebrità nazionale.

I bersagli di Battista sono invece le donne di una certa età che ancora si vestono sexy, mentre farebbero meglio a starsene a casa, e il patriarcato che non esiste perché, dai, voi avete mai conosciuto un uomo che in casa non è comandato a bacchetta dalla moglie?

Il primo sasso di questa vandea fu lanciato probabilmente dai più celebri di tutti, Pio e Amedeo, in un famigerato monologo su Mediaset nel 2021, nel quale peraltro i due comici pugliesi assumevano la postura curiosa, e forse rivelatoria, di uno scimmiottamento in chiave reazionaria del duo Fazio-Littizzetto: Amedeo diceva le cose, Pio faceva finta di indignarsi. Tra gli applausi scroscianti dello studio, al grido di “il politically correct ha rott’o cazz’”, si praticava l’uso della n-word perché “conta la cattiveria, non le parole”, si canzonava il Pride perché “io non vado in strada a gridare ‘viva la figa!’”, si celebrava con strana insistenza il piacere di indirizzare facezie a tema anale a Cristiano Malgioglio, “perché lui ha il senso dell’umorismo”.

Prontamente interivistati da una troupe di La7 i due ebbero a commentare che “i comici devono essere superficiali” e che il loro mestiere è “parlare alla pancia della gente”. E rivelarono che “la sinistra intelligente” (ridacchiando dell’evidente ossimoro), ce l’aveva con loro perché li aveva ritwittati Salvini che dunque “evidentemente, evidentemente, è una persona intelligente”.

A me, più che all’egemonia della destra, viene da ripensare a una cosa che sentii dire anni fa da un amico che stimo, se non sbaglio sui cinepanettoni, e che non ho ancora capito se sia la più snob o la più democratica che ho mai sentito in argomento: “Senti”, rispose a qualcuno che stava esibendo indignazione un po’ affettata per qualche prodezza di Boldi o De Sica, o forse per i loro incassi, “pure quelli senza senso dell’umorismo hanno bisogno di ridere, altrimenti si ammalano”.

 

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  1. Nella vigilia dell’otto marzo 2024, riflettiamo su come l’evoluzione delle reti 1G-5G stia trasformando non solo il mondo della tecnologia, ma anche la società e l’educazione, come esplorato qui

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stefanop@minima.it

Stefano Piri è nato a Genova nel 1984, ha studiato a Torino, da qualche anno vive a Bruxelles dove lavora per i sindacati europei. Collabora con diverse riviste online tra cui "Pandora" e "L'Ultimo Uomo".

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