di Ade Zeno

Regista, sceneggiatore, produttore, Marco Bechis è nato a Santiago del Cile e cresciuto in Argentina. A vent’anni, nel 1977, viene sequestrato per motivi politici e imprigionato in un centro clandestino di Buenos Aires, esperienza che racconterà ne La solitudine del sovversivo (Guanda, 2019). Sopravvissuto, si trasferisce a Milano dove frequenta la scuola di cinema Albedo. Nel 1982 realizza Desparecidos, dove sono?, videoinstallazione su un campo di concentramento argentino da cui, sette anni più tardi, trae Garage Olimpo. Fra i suoi film, vincitori di molti premi internazionali, Alambrado (1991), Hijos/Figli (2001), Birdwatchers – La terra degli uomini rossi (2008), Il sorriso del capo (2011), Il rumore della memoria (2015). Nell’agosto di quest’anno è uscito per La nave di Teseo il libro Cile 1973, che insieme alla sua testimonianza raccoglie alcune strisce inedite di Alfredo Chiappori dedicate al golpe cileno.

Del tuo – anzi vostro – libro, uscito a ridosso del cinquantennale del colpo di Stato cileno, non si è parlato molto, ma mi pare che anche l’anniversario della morte di Allende sia passato piuttosto inosservato. È solo una mia impressione?

Cinquant’anni sono tanti, e l’emisfero Sud è molto lontano. Gli eventi che nel ’73 sconvolsero l’opinione pubblica italiana si sono opacizzati, anche perché nel frattempo la nostra percezione del mondo è radicalmente cambiata. Ora ci preoccupiamo di un conflitto per puro egoismo, cioè solo se temiamo che in qualche modo ci colpisca. Qualche mese fa sono tornato in Argentina, e mi ha fatto un certo effetto leggere giornali in cui si parlava pochissimo della guerra in Ucraina. La distanza geografica ha fatto sì che il problema fosse percepito come secondario. Se succede qualcosa nell’Africa estrema o a Taiwan non ce ne importa nulla. Se oggi in Cile subisse un colpo di Stato, non credo che risponderemmo con lo stesso clamore di cinquant’anni fa.

La parte che hai curato tu – l’altra è dedicata alle tavole di Chiappori – si sviluppa intorno al ritrovamento di alcune lettere che sua zia Zizi scrisse a tua madre tra la fine degli anni ’60 e la fine degli anni ’70. Si tratta di un racconto frammentario ma nitido della situazione politica in Cile, osservato dal punto di vista di una famiglia piccolo borghese che temeva in modo viscerale l’avvento del comunismo. Una prospettiva diversa, obliqua, che espone l’altro lato della medaglia.

È stata un po’ la chiave per poter scrivere a freddo questo testo, che in realtà ho immaginato come sorta di lettera a quella famiglia, la famiglia di mia madre, che ancora esiste nelle sue propaggini di nipoti e pronipoti. Una discendenza che in fondo – al netto del politically correct – la pensa ancora in quel modo, perché di fatto quando va a votare vota sempre contro il cambiamento, e ha ancora paura che gli indigeni prendano troppo spazio nella vita civile.

Persistono le stesse paure di allora, insomma, perché la popolazione è stata formata fin dalle origini nell’idea di dominio. Il Cile è un Paese in cui le contraddizioni e i traumi non sono stati mai risolti. Tutti sanno e riconoscono che durante la dittatura sono state commesse atrocità di ogni tipo, ma nessuno ne parla, le condanne ai responsabili eccellenti non ci sono state, come è successo in Argentina. Pinochet è morto nel suo letto, circondato dalla famiglia e dai generali che erano andati a tributargli l’estremo saluto, mentre Videla è morto nella cella di un carcere comune, seduto sulla tazza del cesso.

A un certo punto parli dell’autorizzazione etica e morale che si erano dati gli eserciti sudamericani per eliminare in modo sistematico i concittadini che consideravano nemici. Tu attribuisci questo meccanismo al fatto che nel loro Dna c’era già lo sterminio degli indios, la memoria storica della conquista, del più grande massacro della storia umana, la pulizia etnica. E spieghi come – nella seconda metà degli anni ’60 – con la nuova dottrina di sicurezza nazionale teorizzata dalla Cia, i nemici da esterni erano diventati interni. Ora il nemico era chi si faceva promotore di “ideologie straniere”.

Analizzando e circoscrivendo la questione sudamericana, è vero che i quadri militari si erano formati dalla Cia, ma la spietatezza che cileni, argentini, uruguayani e peruviani esercitarono sui propri cittadini fu inaudita, e viene da chiedersi cosa spingesse i torturatori e i loro complici a compiere atti così disumani senza battere ciglio. Molti di loro di dichiaravano cattolici, andavano in chiesa. Lo stesso Videla leggeva la Bibbia mentre lo processavano. La risposta sta nel fatto che consideravano gli oppositori come degli alieni da eliminare. Esattamente come per secoli si era fatto con gli indigeni. Un tempo, quando le navi viaggiavano da Punta Arenas a Santiago, i marinai sparavano nel buio in direzione dei fuochi che si vedevano sulla costa, sperando di uccidere qualche Mapuche. Ecco, io penso che quella visione dell’indio come animale fosse ancora impressa nel corredo genetico del militare pronto a seviziare e a uccidere un oppositore politico. La differenza stava solo nel fatto che la strage degli indios aveva ragioni etniche, mentre ora erano ideologiche.

Nel 1973 non avevi ancora vent’anni e vivevi in Italia, dove stavi studiando. Possiamo dire che il colpo di Stato in Cile fu un momento cruciale per la tua presa di coscienza politica?

Stavo seguendo un percorso già segnato: per seguire le orme di mio padre mi ero iscritto alla facoltà di ingegneria. Ai tempi ero sostanzialmente apolitico, ma le notizie che arrivavano – e soprattutto la preoccupazione di mia madre, che in Cile aveva tutti i suoi famigliari e i suoi legami affettivi – fecero maturare in me la consapevolezza di dovermi aprire al mondo. Cominciai a leggere i giornali per approfondire meglio la questione, così decisi di abbandonare ingegneria per spostarmi a Scienze politiche. Sentivo il bisogno di comprendere meglio certi meccanismi, volevo dare anch’io il mio contributo. Fu un periodo di apprendistato, chiamiamolo così, che allora mi sembrò lungo, ma in realtà durò due o tre anni. Quando si è giovani la percezione del tempo è falsata. Poco dopo avrei vissuto l’esperienza del sequestro in Argentina, che coincise con il periodo della militanza attiva. Ma di questo ho parlato a fondo nel mio libro precedente.

Oltre al trauma personale, l’esperienza del sequestro comportò anche un cambio di prospettiva rispetto alla tua militanza.

Se in una prima fase – quella dell’apprendistato – mi immaginavo di offrire il mio contributo in quanto intellettuale capace di analizzare e spiegare il mondo in chiave politica, dopo il sequestro capii che il mio compito sarebbe stato quello di testimoniare. Ero un sopravvissuto, e la necessità di raccontare quell’orrore anche a nome di tutti quelli che non ce l’avevano fatta si impose con forza. Lo percepivo come un obbligo morale.

Cosa hai portato con te di quell’obbligo, quando è venuto il momento di fare cinema?

Il mio cinema è nato proprio dall’urgenza di narrare questi eventi terribili che mi avevano toccato da vicino. Ma non basta fare film politici, bisogna fare film politicamente, come diceva Godard. Seguendo la linea tracciata da Francesco Rosi ho imparato che l’importante non è decidere cosa si filma, ma capire cosa è necessario omettere. Si può dire che la mia intenzione politica sia contenuta tutta in questo pensiero.

Omettere cosa?

Penso alla violenza, soprattutto. Mostrare scene crude in un film horror o splatter fa parte del gioco, è il codice del genere a richiederla. Ma quando vengono utilizzate in un film sociale per creare un effetto disturbante, rischiano di diventare pura esibizione estetica. Scegliere il linguaggio giusto è sempre un atto politico. Ogni artista ha il compito di trovare la cifra che rispecchi meglio la sua sensibilità, e penso che debba sempre sentirsi libero di dire quello che pensa, con onestà e coerenza. Ma il modo in cui agisce e si rapporta con gli elementi del set deve essere armonicamente legato al tema che intende affrontare.

Negli ultimi mesi si è parlato molto del film di Garrone, Io capitano…

È un regista che ho sempre trovato interessante, soprattutto per la forte impronta autoriale. Ma questa sua ultima opera non mi ha convinto, a mio avviso procede nella direzione diametralmente opposta rispetto a quanto ho detto finora.

Perché?

Credo sia proprio un problema di linguaggio. Pensa alla scena del deserto. Se si sta raccontando il dramma della fuga e ci sono dei cadaveri distesi sulla sabbia, perché indugiare così tanto con una ripresa da un drone sulla bellezza delle dune? E la sequenza dedicata alle torture – una carrellata sui prigionieri appesi che termina con il corpo martoriato del ragazzo – mi è parsa frutto di un eccessivo gusto per l’effetto, per l’esibizione. Non è questo che mi aspetto da un’opera che si pone come atto di denuncia politica.

Dunque contesti una contraddizione nella forma.

Sì. Mi viene in mente ciò che scrisse Jaques Rivette su Kapò di Pontecorvo, hai presente?

No.

Il film termina con un movimento di macchina, un carrello lungo il recinto del campo di concentramento, che va a scoprire la protagonista che si è suicidata aggrappandosi al filo spinato elettrificato. Quando la camera di ferma su di lei ha una specie di incertezza e va a correggere l’inquadratura perché le mani della donna restino nel campo visivo. Rivette accusò Pontecorvo di aver inscritto la tragedia all’interno di un gesto estetico che andava a confondersi con la bellezza, e definì questo atteggiamento senza mezzi termini: abietto. Ecco, io nel film di Garrone vedo l’identico problema: la forma sembra più importante del contenuto.

Di recente è uscito qualche film che rispecchia in qualche modo la tua idea di sguardo politico?

Senza dubbio Anatomie d’une chute di Justine Triet. Pur non parlando affatto di politica, e mascherato da legal thriller, affronta in modo molto innovativo alcuni temi scabrosi come la violenza di certe dinamiche familiari, l’egotismo, il mondo sclerotico in cui viviamo.

A cosa stai lavorando in questo momento?

A un film dedicato alla mia esperienza in Argentina, la storia di un sopravvissuto alle prese con il suo passato, una condizione che purtroppo sta tornando tragicamente attuale. Ma fare film è sempre più difficile, la gente non va al cinema, gli incassi sono bassissimi, dopo la pandemia le sale non si sono più riprese. Ormai la visione è confinata fra le mura domestiche, anche se poi passiamo più tempo a scegliere cosa guardare che a guardare qualcosa. L’esperienza unica di stare in una sala accanto a uno sconosciuto al tuo fianco sta tramontando, le sale sono semivuote. Piuttosto che starcene soli lì al buio preferiamo rimanere a casa.

 

Condividi

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Autore

redazione@minimaetmoralia.it

Minima&moralia è una rivista online nata nel 2009. Nel nostro spazio indipendente coesistono letteratura, teatro, arti, politica, interventi su esteri e ambiente

Articoli correlati