Il giorno in cui ho capito di soffrire di dismorfofobia non sapevo ancora niente della vita. Era il 1976 e nei cinema era appena uscito un rifacimento di King Kong. Il film era diretto da John Guillermin ed era interpretato da Jeff Bridges, Charles Grodin e Jessica Lange. Raccontava la storia di una spedizione petrolifera che approda su un’isola perennemente celata da un banco di nebbia. Qui i membri della spedizione catturano un gigantesco gorilla, temuto e venerato da una tribù locale, e lo portano a New York per farne un fenomeno da baraccone. Ma il gorilla, che nel frattempo si è innamorato di Dwan, un’aspirante attrice tratta in salvo mentre vagava alla deriva su una scialuppa di salvataggio, la rapisce e si arrampica sulla cima di una delle due torri del World Trade Center, dove finirà crivellato dai colpi degli elicotteri da guerra.
Il film non aveva alcun pregio artistico. La critica lo stroncò, ma gli incassi superarono tre volte l’investimento iniziale. Non era neppure paragonabile al film di Merian C. Cooper del ’33. Non lo era per le innumerevoli differenze di trama, per l’ambientazione e per la qualità artistica. Una qualità non solo lontana anni luce dall’originale, ma che si posizionava abbondantemente al di sotto della soglia minima di decenza.
Eppure nell’estetica scombinata, bizzarra, grottesca del King Kong di Guillermin c’è qualcosa. Perlomeno io trovo qualcosa. Un’affinità con i b-movies giapponesi in voga negli anni Sessanta e Settanta, con gli eroi della televisione Tokusatsu – Ultraman, Kamen Rider, Megaloman, Gambaron – ma anche con i mostri devastatori kaiju protagonisti di film come Odissea sulla Terra di Kazui Nihonmatsu, e con altri rettiloidi alti come palazzi, il più famoso dei quali è senza dubbio Godzilla a cui la cinematografia ha dedicato la bellezza di trentadue film ufficiali. La grossolanità di queste macchine sceniche ha condizionato tutto il mio immaginario fantastico di bambino degli anni Settanta. Il Kong di John Guillermin, un animatrone alto dodici metri realizzato da Carlo Rambaldi, non si discosta più di tanto da questa estetica.
Nel 1976 ho tre anni. Mi trovo in un cinema di piazza Verbano a Roma. King Kong è il primo film che guardo sul grande schermo. Sarà anche la prima e ultima volta che vado al cinema coi miei genitori. La cosa avrà delle ripercussioni serie sulla mia psiche e sulla formazione della mia identità, giocherà un ruolo importante su una significativa parte delle sofferenze che proverò per via del modo alterato in cui, da quel giorno, inizierò a percepire il mio corpo e la mia collocazione nel mondo. Il tutto mi polverizza come farebbe un meteorite scagliato a velocità supersonica contro la superficie di un pianeta vergine. Soprattutto la visione di Jessica Lange che viene tratta in salvo dall’equipaggio della Petrox, il suo corpo voluttuosamente esanime abbandonato a bordo della scialuppa, il vestito nero con due fasce verticali a coprirle i seni, la collana con il medaglione, oltre a distruggermi, determinerà l’imprinting genomico di ogni mia futura pulsione erotica.
Jessica Lange allora aveva ventisei anni, faceva la cameriera e aveva un passato di mimo in Europa. Tra le dita dello scimmione divenne una diva di Hollywood, ma pagò l’insuccesso di critica che travolse il film e dovette aspettare anni per avere una nuova possibilità. Possibilità che arrivò nel 1981 con Il postino suona sempre due volte (un titolo, un destino). Ammiccando a Jeff Bridges negli angusti spazi a bordo della petroliera, abbandonandosi poi a un quasi deliquio mistico sotto gli occhi ardenti e perduti del mostro, in quel momento diventò nelle profondità della mia psiche non tanto la prima donna nel senso biologico del termine, quanto l’anima del mondo, lo stupore iniziale per la vita. Quando il marinaio gli scosta una spallina mettendo in mostra un’etichetta di Beverly Hills, il mio spirito interiore ancora avvolto nelle tenebre puerili del pre-mondo s’illumina di una sorta di mysterium lucis. È l’irruzione della forza, la prova di una necessaria verità razionale che mi definirà come essere umano, è l’archè e il telos da cui ogni cosa proviene e a cui tutto ritornerà. In poche parole, mi innamoro disperatamente di lei. Non di quell’amore distratto, scialbo, che anima Jack Prescott (il personaggio interpretato da Jeff Bridges). Ma dell’amore del mostro.
Ho tre anni, sono seduto tra mamma e papà in un cinema di Roma, sono un pulcino implume e guardo King Kong, la cui visione mi tramuta all’istante in ciò che sono e che da quel momento non potrò più fare a meno di essere: una creatura goffa, di dimensioni smisurate, venuto al mondo per chissà quale disgrazia della storia, che occupa indegnamente uno spazio fisico e di cui la gente ha timore (questo è ciò di cui sono da sempre convinto). Soprattutto, in quell’istante scopro di avere la disgrazia di saper scorgere la bellezza, quella estrema, prepotente, dolorosa, sciagurata, spasmodica, e di potermi innamorare. E cos’è l’amore per un proto-essere umano a cui è stata appena rivelata una così disastrosa percezione di sé? L’amore è un dolore implacabile, è l’aspirazione dell’imperfetto verso il perfetto. Ma un imperfetto che tuttavia non crede nell’idea della perfezione. Un imperfetto di natura senza la fede necessaria per immaginare la perfezione. O forse no, la perfezione in quel momento è davanti ai miei occhi e non devo affatto immaginarla, ma semplicemente contemplarla: è Jessica Lange, delittuosamente in short e canotta a righe bianche e rosse sopra l’ombelico, che corre con i piedi nella risacca dopo essere sbarcata sull’isola misteriosa.
La bestia no, la bestia appare solo dopo un’ora di film. Di lui scorgo gli occhi rossi, poi immagini mosse di rami spazzati via come fuscelli, e ancora lei, Dwan, stordita, che si dimena su una specie di altare sacrificale su cui gli indigeni l’hanno costretta nel tentativo di placare l’ira di Kong. Il mostro la afferra e la solleva. È un’altra immagine germinativa: lei piccola come una bambola nella mano enorme di lui. Questa composizione impossibile, l’oggetto d’amore contenuto nel palmo di una mano, ha dentro di me l’impatto e la potenza di una raffigurazione sacra. La replicherò per anni nel corso dei miei giochi solitari, sollevando da terra per un istante, non veduto, le Barbie delle mie compagne di scuola, giocando continuamente con le proporzioni. Irraggiungibile non è ciò che sta lontano, ma ciò che è minuscolo.
Sono alto, più alto della media dei miei coetanei, ma mi percepisco ancora più alto di quel che sono. Nella mia mente sono un gigante. Alto come i palazzi, cammino tra i miei giochi disseminati sul pavimento, come fa Kong, schiacciando uomini e macchine tra le vie di New York. Afferro i miei trenini e li scuoto con la sua stessa furia. E tutto ciò mi serve per confermare una certezza appena affiorata in me: il mio corpo non fa che indicarmi la via verso una completa estraneità al mondo.
È l’alba del tempo, mi trovo nel cinema di piazza Verbano. Kong è lo specchio in cui all’improvviso mi riconosco. Non mi identifico in Jack Prescott, come fanno tutti, l’eroe biondo, l’avventuriero, il salvatore impavido che sfida Kong per amore di Dwan, e che sfida la multinazionale del petrolio che a sua volta vorrebbe fare di Kong e Dwan uno spettacolo per la folla. Io mi identifico nell’unico personaggio tragico di questa storia, il Cristo in forma di scimmia ipertrofica che si sacrifica sulla sterminata croce del grattacielo sud del World Trade Center per amore di Dwan, che da sola – ci potete scommettere – vale l’umanità intera. È il 1976, ho tre anni, e ho appena riconosciuto in King Kong un surrogato della crocifissione.
D’altronde nelle scene finali del film ci sono alcune inquadrature che sono delle inquietanti premonizioni: l’elicottero che si schianta sulla Torre Nord emettendo lo stesso lampo di luce provocato dal volo American Airlines l’undici settembre del 2001, lo scimmione ormai cadavere circondato dalla folla, il cerchio che evoca l’epicentro desertico del grande vuoto, nel punto esatto che passerà alla storia come Ground zero. E tutto questo nel film del ’33 non c’è, anche perché in quel caso Kong non scalava le torri gemelle, ma l’Empire State Building.
Un’amica da poco tornata da New York mi ha raccontato che sulla cima dell’Empire State Building si aggira un uomo travestito da gorilla con il compito di intrattenere i visitatori. Nel 1976 non posso ancora immaginare che anch’io da adulto finirò per passare le mie giornate in un grattacielo, come quel pover’uomo. In questi casi si dice ironia della sorte, ma nel mio caso sarebbe più corretto dire della morte, la morte mentale che mi procura il mio lavoro triste da passacarte salariato. Il grattacielo in cui mi tocca salire ogni giorno, come Kong (ma senza Dwan), per sottrarmi altrimenti alla disoccupazione e alla povertà che ne conseguirebbero. I grattacieli sono trappole che non portano da nessuna parte, tanto per Kong quanto per me. E sa Dio il batticuore che provo il giorno in cui, al di là della finestra dell’ufficio, vedo passare l’acrobata lavavetri sospeso a cinquanta metri d’altezza e sorretto da una complicata imbracatura di funi e rocchetti, lo stesso pauroso incanto che affiora negli occhi di Jack Prescott all’interno della Torre Sud quando vede Kong arrampicarsi oltre la finestra, la sua enorme ombra scalante.
Kong è Cristo, va bene, ma è soprattutto un disperato. Lo si capisce quando in cima al grattacielo fissa la luna. Il brivido che gli scuote la mascella, il luccichio negli occhi, tutto è sostanza di questa sua estrema, caratterizzante tragicità. Kong soprattutto è un incompreso, non parla la lingua del mondo, è una creatura sproporzionata, l’ultimo sopravvissuto di una specie primitiva ormai estinta. Per certi versi lo si può dire anche di Cristo, ma lo si può dire di tutti noi che ci battiamo il petto in atto penitenziale per qualche colpa che nemmeno ricordiamo più. Kong è tutti gli alienati, gli isolati, i disadattati, ossia è tutti gli innamorati. Perché alla fine il film si rivela per quello che è: una sconnessa, tragica e impossibile storia d’amore. Non a caso si chiude con il rumore del cuore del mostro che batte sempre più lento, fino a fermarsi, mentre ci vengono rivelati i suoi denti digrignanti e sporchi di sangue, e gli occhi di Dwan, gonfi di lacrime.
È significativo che molto di me io lo abbia appreso guardando uno dei film più ridicoli della storia.
È nato a Roma quando c’erano gli anni di piombo. Ha pubblicato monografie su Caravaggio e su Van Gogh, il saggio sulla povertà 10 modi per imparare a essere poveri ma felici (Laurana, 2012) e i romanzi La misura del danno (Fernandel, 2013) e Anni luce (add editore, 2018).

Buffo percepire la medesima sensazione di inadeguatezza pur trovandosi nella posizione della Lange… anni isterici passati ad imbruttirmi per rendermi più socialmente accettabile, perché altrimenti è troppo, bella e intelligente, la gente odia l’insolito, troppa fatica. Piuttosto che farti emarginare da quattro idioti, finisce che ti autoemargini e con la sicumera dei samurai scegli la sociopatia.
Com’era ? “ La bellezza salverà il mondo”.