Al primo piano del Palazzo Esposizioni a Roma in mostra la sessantasettesima edizione del World Press Photo: colpiscono non solo le foto esposte ma anche i movimenti delle visitatrici e dei visitatori. Sono tante le persone, tantissime, che si muovono molto lentamente di scatto in scatto, leggendo didascalie, spiegazioni, andando da una immagine all’altra, accendendo tramite i codici QR ad altre informazioni, riprendendo il percorso e riguardando con attenzione.

È un movimento che ho già notato questo, seguo da oltre vent’anni questa esibizione rincorrendola anno dopo anno in diverse città europee, non di rado visitando la stessa edizione in luoghi diversi e ho sempre riscontrato come chi la visita, per attitudine o per rimodulazione al tipo di mostra, abbia un passo diverso. Questo è da rintracciarsi nell’impegno e nella serietà che questo premio racchiude in sé e nella sua importanza per l’umanità: è un premio che nasce nel 1955 grazie a un gruppo di fotografi olandesi che decide di organizzare un concorso internazionale per esporre il proprio lavoro a un pubblico globale. Da allora a oggi ha sempre attraversato le nuove sfide, anche tecnologiche, divenendo uno dei premi di fotogiornalismo più prestigiosi al mondo. La filosofia che lo sostiene da sempre sta nell’importanza di mostrare e vedere storie visive di alta qualità; ciò vuol dire premiare non solo la serietà e la professionalità ma rispettare il preciso mandato di far circolare nel mondo le immagini selezionate, con mostre allestite in moltissime città e paesi in tempi diversi.

In sessantasette anni il World Press Photo ha mappato il mondo creando conoscenza e bellezza, impegno e cronaca, mettendo in connessione le storie catturate dai fotografi con il resto del mondo: storie talvolta così minute e preziose che sarebbe impossibile conoscerle se non attraverso esseri intrepidi muniti di apparecchiatura fotografiche che rendono ogni singolo scatto di vicende sperdute una parte di tutte e tutti noi; ma anche storie grandissime, che passano già attraverso la stampa, ma che un o una fotoreporter ha scattato da un punto di vista diverso: è il singolare che parla all’universale e l’universale che torna umano fino al singolo. Fotografi che sono giornalisti, giornalisti che sono fotografi, portatori di testimonianze che lavorano sui luoghi più roventi del pianeta, in mezzo a guerre o inondazioni, violenze e dimenticanze. Nel 2023 nel mondo 78 giornalisti sono stati uccisi, molti minacciati di incarcerazione o violenza come vendetta per il loro lavoro. Perché sono persone che vedono, vogliono vedere, e attraverso il loro lavoro fanno vedere al mondo.

Sono tutte immagini di grande impegno civile, non solo per la loro contestualizzazione ma anche per il loro parlare al mondo e del mondo: trattano di disordine politico, conflitti mostruosi, migranti, clima, razzismo di genere, marginalità, malattia, animali. Tra gli scatti vi sono anche molti sorrisi tra le persone, forse perché oramai sono momenti rari.


In questa edizione, quella del 2024, alcuni sono gli scatti singoli e alcuni sono i contest, più scatti che seguono l’evolversi di una storia che condivide tempo e spazio con le persone che ne fanno parte [come già ne abbiamo scritto qui]. Alcune di queste storie sono in progress, le immagini in mostra e dunque premiate ne rappresentano un passaggio, ma il contest continua e tramite codice QR si può approfondire e seguire la prosecuzione del lavoro. Ampie, necessariamente, sono le didascalie e i riferimenti.

Tutto ciò chiarisce perché visitatrici e visitatori abbiano un ritmo più lento e accurato di fronte a questi lavori, ci sostino più a lungo avvicinandosi ora di fronte a uno, ora di fronte all’altro.
Ma in questa anteprima nazionale qualcosa del movimento è stato diverso: nella sala grande a sinistra dopo il primo corridoio l’andamento inizia a farsi irregolare, le persone entrano e escono mai diritte ma in diagonale, non arrivavano mai dalla foto posta direttamente davanti all’entrata ma da quelle ai lati, ed entrando tagliano la foto davanti: la foto dinanzi all’entrata spesso non aveva spettatori.

Si tratta della fotografia che ha vinto il premio, una foto singola ritrae una donna palestinese che stringe il corpo avvolto in un lenzuolo della nipote: la donna è vestita di blu, un abito fino ai piedi jeans scuro, ha sulla testa chinata un copricapo giallo, è curvata sulla nipote avvolta in un lenzuolo bianco, attorno muri bianchi di obitorio. Non si vede il volto della donna, non si vedono i suoi occhi, non si vedono lacrime o tratti contratti dalla disperazione, affiora solamente una parte della mano, quella posta sul volto coperto della nipote, non si vedono piedi: nessuna parte di corpo è scoperta a urlare la disperazione. È un dolore senza espressione, muto e agghiacciante.

La didascalia ci racconta che la donna ha perso altri quattro membri della sua famiglia e che la fotografia è stata fatta il 17 ottobre dal fotografo palestinese Mohammed Salem. Riporta che “La giuria ha sottolineato come l’immagine sia stata composta con cura e rispetto, offrendo allo stesso tempo uno sguardo metaforico e letterale su una perdita inimmaginabile”.

Una immagine potentissima, parla senza didascalie, senza aggiunte, a chi la intravede anche da lontano: il dolore della perdita inimmaginabile si amplifica in pochi secondi pensando alle migliaia di perdite inimmaginabili della guerra che lo scatto ritrae, e poi ai milioni di perdite inimmaginabili di tutte le guerre. Il dolore diventa insostenibile e quella donna ricurva sul cadavere della nipote cinquenne diventa colei che sostiene su di sé i dolori inimmaginabili del mondo: una Pietà del nostro mondo contemporaneo. La potenza dello scatto, di un dolore senza tempo e senza luogo e dunque che pertiene tutti nel mondo e in ogni tempo, è così insostenibile che le persone evitano di avvicinarsi, non lo guardano; ha suscitato molte polemiche sulla stampa e sui social, e, nonostante ciò, poche persone gli si avvicinano: chi lo fa si allontana talvolta con le lacrime.

Lacrime e distanza rincuorano, ci leggo che davanti al dolore degli altri proviamo ancora empatia, così forte da non farcela, che esistiamo, che siamo vivi, che riusciamo a fare nostra questa parte di realtà. Un altro scatto senza occhi è quello della fotografa documentarista Arlette Bashizi che si occupa anche di salute delle donne: la fotografia ritrae una donna a mezzo busto, corpo e capo coperti da un telo bianco da cui spunta una maglia a righe, con una mano porta al volto un mazzo di fuori rossi a coprirsi il volto. Lei è Shila e come altre migliaia di donne è stata vittima di violenza sessuale durante la guerra nella regione etiope del Tigrè, volenze e abusi che sono durate mesi durante il conflitto.

Lei è una senza volto, pare dirci questa fotografia, senza connotati perché i pregiudizi sociali la emarginano lontano dalla comunità. Il reportage dell’anno è stato vinto da Lee-Ann Olwage che con una tenerezza senza fine parla della questione della salute mentale, della demenza, in zone per nulla coinvolte sulla questione: il reportage è ambientato ad Antananarivo in Madagascar e narra dell’anziano Paul affetto da demenza, di sua figlia Fara che lo assiste e della nipotina che vive con loro. Il titolo è “Valim-babena” e si riferisce, in malgascio, al dovere dei figli di occuparsi dei propri genitori: la compostezza della fatica e l’intimità della malattia, il sorriso e la tenacia, volti che rappresentano tutto il mondo che combatte la sofferenza psichica.

La mostra si chiude con una parte molto ampia che riporta molte delle fotografie vincitrici dal 1955 a oggi, un viaggio nella storia e nella Storia con il miglior fotogiornalismo visivo: storia e bellezza, conoscenza e impegno perché, come scrive Susan Sontag, “le immagini di un’atrocità possono suscitare reazioni opposte. Appelli per la pace. Proclami di vendetta. O semplicemente la vaga consapevolezza, continuamente alimentata da informazioni fotografiche, che accadono cose terribili”.

Fino al 9 giugno al Palazzo Esposizioni a Roma e poi in diverse città del mondo secondo un calendario sempre in aggiornamento; il catalogo, edito da Marsilio, un documento per parole e immagini prezioso.

 

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a.toscano@minima.it

Anna Toscano vive a Venezia, insegna presso l’Università Ca’ Foscari e collabora con altre università. Un’ampia parte del suo lavoro è dedicato allo studio di autrici donne, da cui nascono articoli, libri, incontri, spettacoli, corsi, conferenze, curatele, tra cui Il calendario non mi segue. Goliarda Sapienza e Con amore e con amicizia, Lisetta Carmi, Electa 2023 e le antologie Chiamami col mio nome. Antologia poetica di donne vol. I e vol. II. Molto l’impegno per la sua città, sia partecipando a trasmissioni radio e tv, sia attraverso la scrittura e la fotografia, ultimi: 111 luoghi di Venezia che devi proprio scoprire, con G. Montieri, 2023 e in The Passenger Venezia, 2023. Fa parte del direttivo della Società Italiana delle Letterate e del direttivo scientifico di Balthazar Journal; molte collaborazioni con testate e riviste, tra le altre minima&moralia, Doppiozero, Leggendaria, Artribune, Il Sole24 Ore. La sua sesta e ultima raccolta di poesie è Al buffet con la morte, 2018; liriche, racconti e saggi sono rintracciabili in riviste e antologie. Suoi scatti fotografici sono apparsi in guide, giornali, manifesti, copertine di libri, mostre personali e collettive. Varie le esperienze radiofoniche e teatrali. www.annatoscano.eu

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