di Francesca Corno
Il giorno dell’attacco ho scavato tra i vetri rotti e i mattoni bollenti fino a spaccarmi le mani. Ogni bambino che tiravo su era morto, e sembrava l’avessi ammazzato io. (p. 69)
Non è un mondo lontano, quello che crea Maria Gaia Belli con i suoi libri e nei suoi racconti: prende la forma della nostra esperienza e inizia che «è molto semplice» (La dorsale. L’anno del ferro, effequ, 2021, p. 13) e poi impariamo che bisogna tenere d’occhio il contesto e il particolare, che in questo mondo si chiama Accademia (La dorsale. L’anno dell’oro, effequ, 2022), e ora si conferma così grande che non può stare «tutto sulla carta» (La dorsale. L’anno del sale, effequ, 2023, p. 11). È un mondo geografico, ma anche storico e politico – esiste una geografia senza storia e senza politica? – e, ancor più, economico. Un’economia di commercio e di profitto, ma anche di vite.
In breve, la trilogia de La dorsale che in questo mondo è contenuta è la storia intrecciata di una manciata di persone in un paio di luoghi attraverso un certo numero di anni – eppure non può essere né un bildungsroman né una saga familiare. Volontà, desideri e aspirazioni sono estromessi, le regole del gioco le ha decise qualcunə che ormai a questa storia non prende più parte, anche il riscatto personale ha la forma di un riscatto economico concesso da chi detiene il potere. Quello che rimane da fare, a chi questo mondo lo abita, è trovarne le falle e le zone d’ombra, infilarcisi dentro per farne rifugio o per farlo fallire ancora più forte.
In una realtà come questa, che più ci addentriamo con la lettura e più ci diventa stranamente familiare, ti devi guadagnare pure la più piccola cosa ma non possiedi niente, nemmeno il tuo corpo, nemmeno il tuo cuore – figurarsi i tuoi pensieri. Nel tuo corpo ci cresci e lo curi ogni giorno, ossessivamente, ma non per te o per farci qualcosa che ti piace, come raccogliere conchiglie o vestirti più leggero quando fa caldo, ma per l’Accademia: per andare in guerra, per vincere gare, per guadagnare trofei, per proteggere un superiore, per fare figli quando non ce ne sono abbastanza per mandare avanti il sistema. Non disponi del tuo tempo libero o di quello che impieghi a lavoro, non disponi del tuo futuro e nemmeno del tuo presente, perché il più delle volte in Accademia ci sei finitə per non dover continuare a stare nel tuo passato. Non è un ricatto: è un accordo firmato.
L’Accademia che abbiamo imparato a temere nel primo libro e ad abitare nel secondo ora ci torna indietro opaca, raccolta attorno al suo meccanismo inceppato. Il controllo continua, ma è demandato a chi fino a ieri ci era al fianco e ora ci stacca di tutta una sala e ci è diventatə di colpo imperscrutabile. Dall’Accademia – ma chi è, ora, l’Accademia? – continuiamo a essere osservatə e con il tempo abbiamo dovuto imparare a interiorizzare il suo sguardo, farlo aderire al nostro, al punto che alcunə hanno scelto di incarnarlo in modo totalizzante. Ma con L’anno del sale scopriamo la possibilità di uno strabismo che minaccia un meccanismo già infragilito, che inizia a sapere di sabotaggio e che allo stesso tempo ci ricorda che sempre abbiamo due occhi: quello che ci guarda da fuori e quello che ci guarda direttamente da dentro.
Drago buono rompe dieci corde. (p. 589)
Per ora, tutto poco fantastico e tutto molto dolorosamente realistico. Perché quello de La dorsale è, a detta di Maria Gaia Belli, un fantasy sciapo, ma forse sarebbe meglio dire ridotto all’osso. Gli elementi fantasy tradizionali, che insaporirebbero ogni racconto, in effetti mancano: sì, certo, ci sono i draghi, ma sono bestie da soma, animali da monta, campioni da gara, merce di scambio e premio di carriera. Non del tutto dissimili agli umani che abitano questo mondo: creature al servizio del sistema.
Vengono spazzolati, allenati, alimentati; vengono pesati, contrattati, venduti; vengono fatti nascere, fatti crescere, fatti morire. Il meglio che l’Accademia può dare, in forma di cibo, di trattamento e di strumenti è per i draghi. A loro il sale non è riservato: il sale è per l’umano. A bruciarci sempre più i tagli in bocca, proprio come se stessimo mangiando con loro sale e neve e sangue sulla dorsale, è ciò che succede alle persone, anzi: ciò che questo mondo ha bisogno che succeda loro per mantenere sé stesso in vita. Se La dorsale è una trilogia su qualcosa, lo è sullo sfruttamento incondizionato e cieco, ma allo stesso tempo spietatamente regolato. Sfruttamento dei luoghi, degli animali, delle persone, sfruttamento fino all’esaurimento delle risorse, fino al prosciugamento delle energie, fino alla morte. E poi tocca allə prossimə.
Abbiamo appeso i morti a testa in giù, e ora sembrano frutti gonfi sugli alberi. Serve a tenerli interi, congelati, in modo che non ci arrivino i lupi. Così forse un giorno potremo tornare a prenderli. Cancello i loro nomi dalla lista. Per questa sciocchezza abbiamo sprecato una giornata di cammino. La squadra ora è stanca, tirano fuori le cose per accamparci sotto i morti. (p. 624)
Il terzo libro di tre è quello che dovrebbe tirare le fila, a rigor di logica. Ma alla logica Maria Gaia Belli preferisce la Giustizia, quella della carta otto dei Tarocchi: una giustizia che non è prescritta dalle istituzioni e a tratti sembra più simile a quella che regola il mondo animale, una giustizia che, come dice bene Francesca Matteoni, non possiamo né interrogare né interpellare, perché corrisponde solo al nostro urlo di pancia, quello che messo in parole suonerebbe tipo questo non è giusto. E la persona che ci tiene in mano tuttə dal primo, Kam, in questo libro non ci parla. Come l’Accademia e la Giustizia ci è opaca, mostrata nelle sue azioni solo attraverso gli occhi e le parole altrui, fino quasi alla fine.
Il tempo solo nostro, ne L’anno del sale, è il tempo del sogno – e non a caso è il tempo in cui ritroviamo Kam. Allucinato, dilatato, contratto, rimandato, è comunque l’unico spazio in cui possiamo esercitare un’azione, un potere, una presenza, per quanto insoddisfacenti. È pieno di sogni, L’anno del sale, che siano incubi, aspirazioni o fantasie, le uniche fughe possibili dal mondo di giorno, fisiologici tentativi di digestione dell’orrore, della negazione e del lutto, di opposizione al meccanismo. E se il fantastico per Maria Gaia Belli è, per sua stessa ammissione, un tentativo di rielaborazione del mondo in cui viviamo tu e io e lei, un mondo che è difficile da digerire e continua a rimanerci sullo stomaco, allora, forse, i sogni di Kam e di Luk sono la versione ridotta all’osso di quello che sappiamo.
«Vieni?» vuole.
«Sei matta?»
Mi indica il cappotto appeso.
«Neanche morto esco adesso» provo. Ma lei dice una cosa senza voce, muovendo solo la bocca, capisco le parole dalla forma. Mi tira fuori casa come mi avesse preso per le budella. (pp. 350-351)
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