
Pubblichiamo, ringraziando l’autore e l’editore minimum fax, un estratto dal romanzo d’esordio di Dario Lanfranca, Il vento ara il cielo.
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Tornato da scuola, subito dopo pranzo, ogni pomeriggio Marco all’insaputa del padre scavalcava il muretto da poco rifatto oltre il quale s’estendeva il regno incantato di sua madre: come gli arredi in una chiesa richiamano l’incombere del divino, così nello Iardinè la vegetazione, spontanea e rigurgitante, la rievocava in ogni angolo del grande giardino abbandonato. Il torpore che regnava tra gli alberi mai potati, il silenzio che pesava su quel groviglio a tratti inestricabile di piante inselvatichite, rotto di tanto in tanto dai versi inarticolati della fauna segreta che lo popolava, erano i segni della sua presenza.
Ogni giorno che passava Marco imparava cose nuove e inattese: mai avrebbe immaginato che l’odore del limone, da lui associato alla brezza fresca dei fiori bianchi che in primavera crescevano sugli alberi dietro casa, potesse essere così intenso da risultare nauseabondo; e che, al contrario, gli escrementi delle bestie abbandonati sotto la calura del vecchio fico nascosto nel folto del fogliame evocassero qualcosa di antico e benigno. Si sarebbe detto che in quel labirinto di frutti marci e fiori maleodoranti il bene puzzava e il male profumava. Marco sentiva confusamente che per il tramite di quell’esibizione selvaggia di germinazione e degenerazione, sua madre gli stava impartendo una lezione. Era un apprendistato di segni, nell’intersecarsi dell’ombra e della luce, nell’assenza di parole, al cospetto del divino. Era mistero e preghiera.
Liana lo vedeva arrivare da dietro la persiana della foresteria e le veniva l’impulso di chiamarlo, ma quel bambino triste che andava seguendo col capo chino per terra l’ordito degli enigmi della sua età acerba, la turbava. Rinchiusa in quello spazio esiguo riadattato a stanza, lei aveva smesso di cercare; sovrastata da un profondo senso d’inutilità, non invocava più i santi né si affidava al Signore: parlava con la propria solitudine. Un forte mal di testa di tanto in tanto le provocava delle fitte, ma il dolore aveva perso i connotati del sacro e non rimandava ad alcuna trascendenza: quei lampi improvvisi non schiudevano aperture verso il bagliore di un altro mondo; si dissolvevano in scie indistinte che la lasciavano esanime. L’altrove e il sempre si erano dissolti nel qui e nell’ora. La gravità della contingenza la schiacciava a letto senza che riuscisse a muovere un passo. Si rianimava quando intravedeva il bambino erratico o le rare volte che suonava il telefono: erano i suoi figli che, del resto, la chiamavano solamente per regolare i loro conti, senza neppure chiederle come stava. Di quei due non avvertiva alcuna mancanza, ma sorprendentemente cominciava a sentire vicina la figlia di cui s’era sempre vergognata: nello squallore in cui si trovava, quell’anima non finita condivideva forse la sua stessa condizione… anche lei doveva essere oppressa dallo stesso indicibile vuoto. Provava un crescente senso di colpa nei suoi confronti, via via che prendeva coscienza delle cause che l’avevano spinta a trattarla tanto duramente e che ora le apparivano in tutta la loro chiarezza: il disagio per la sua scandalosa disabilità certo, ma anche l’invidia per la prorompente femminilità che lei non aveva mai posseduto. Non la crucciava più solo l’essere stata una credente bigotta e una moglie sprovveduta; ora l’angustiava anche il percepirsi, senza il beneficio di un’attenuante, come una madre snaturata. Nelle sue ore d’inedia, il pensiero di Sabrina la visitava sempre più spesso con l’evidenza del rimorso.
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