di Salvatore Ditaranto

Caro Emanuele,

si può recensire un tramonto? Ogni volta che qualcuno su Instagram o Facebook pubblica la foto di un tramonto penso a questa tua domanda e alla lettera che ne è scaturita esattamente trenta anni fa. Era proprio così che iniziavi a scrivere a Marco Lodoli, in una intensa lettera poi diventata un libro dal misterioso titolo “Istruzioni per l’uso del lupo” (Castelvecchi 2004 & Elliot 2012). La mia copia della prima edizioni l’ho persa in uno dei miei nove o dieci traslochi fatti mentre vivevo a Roma e qualche anno fa ho ricomprato una copia nell’edizione di Elliot. È una lettera che rileggo, e consiglio, spesso a molti perché seconde me ha ancora molte cose da dire, soprattutto a chi legge i libri. Si può recensire un tramonto, dunque? Credo che siamo in tanti, come te, a sentirci davanti alla Natura, come quella “persona che viaggi in autobus senza biglietto: piacere di un trasporto rapido e indolore, ineffabile attesa del castigo”. Su Instagram ci sono più di undici milioni di ricorrenze (le chiamano così quelli che lavorano sui social) dell’hashtag #tramonto in italiano per non dire delle bellissime foto che gente da tutti il mondo scatta e condivide. Il fatto è che, nonostante tutte le foto di tramonti con quelle che tu chiami geniali variazioni che postiamo, nonostante tutti i principeschi paesaggi che conserviamo nei nostri smartphone, nonostante gli imprendibili e imperdibili scorci marini, montani, di borghi che non vediamo l’ora di immortalare e poi condividere sui social, ecco nonostante tutto questo dispendio di bellezza, niente e riscrivo niente, sembra ancora averci convinto che dovremmo cambiare le nostre abitudini per rispettare la Natura (in tutte le sue forme) e magari iniziare ad invertire la rotta della nostra efferata violenza anche sulle città storiche, ormai sempre di più trasformate in esperienze turistiche (anche nelle migliori intenzioni).

Mi verrebbe da scriverti che no, non sarà affatto la bellezza a salvare il mondo, per fare il verso a tutti quelli che invece sono convinti che sarà così. Sembra proprio che viviamo scissi: da una parte riusciamo ancora a meravigliarci davanti alla gratuita bellezza della Natura e delle cose prodotte dall’Uomo ma dall’altra ci sentiamo davvero temporanei passeggeri che non appartengono ai mondi che attraversano.

Ti scrivo, caro Emanuele, perché la tua lettera-libro nata per occuparsi “soltanto” di critica letteraria, in realtà trova parole perfette per raccontare l’esperienza del lupo, quella metafora che ci ricorda l’incontro fra la scoperta di essere minacciati e la necessità di continuare a respirare. Quella tua lettera e tutte le cose che tu hai seminato scrivendola, mi sembrano ancora più che mai attuali perché ribadiscono un legame tra la letteratura e le cose dell’uomo. Mi viene da dirti che sì, è ancora viva la lezione di Pier Vittorio Tondelli, perché c’è sempre bisogno che qualcuno abiti quel discrimine quel confine molto difficile a volte largo come un burrone a volte sottile come un capello: quello che unisce e separa le cose che si scrivono e le cose che accadono. Pensa che mentre tu ti chiedevi trent’anni fa se ci fossero ancora lettori di Tondelli, il magazine Rivista Studio ha organizzato la lettura di tutto “Altri Libertini” in una notte alla Triennale di Milano. Ma allora cosa c’entrano i tramonti con la cura del creato, la minaccia del riscaldamento globale con Tondelli, l’esperienza del lupo con la letteratura e i libri?

Come lettore anche io sento di avere un grandissimo debito con la letteratura e insieme al debito ho anche un grande timore: io non vorrei che tra un dibattito sulla troppa autofiction che si pubblica e un’altra discussione su quanto il mercato editoriale sia parcellizzato e atomizzato, che tra articoli in difesa sull’efficacia dei booktoker o uno di denuncia sul proliferare delle scuole di scrittura e su tutte quello che riguarda l’industria culturale, io non vorrei proprio che mentre si discute e si parla più dell’efficacia narrativa di alcuni testi che sono poi perfetti per diventare film e serie tv per le piattaforme digitali, ecco io ho paura che non ci rendessimo conto che tutti i libri del mondo non ci stanno difendendo. Nel dicembre del ‘93 tu eri stato profetico e rileggerti è un voler prendere in prestito quelle parole di un uomo che grida nel deserto “perché la nostra civiltà si sentiva difesa dalla letteratura, e invece la letteratura ci sta abbandonando. Pensavamo che Primo Levi avesse scritto in quella sua prosa meravigliosa ‘Se questo è un uomo’ perché non ci fossero più campi di sterminio. E invece li abbiamo rivisti in televisione: gli stessi fili spinati – ma a colori, mentre quelli nazisti erano in bianco nero. Vuol dire che ‘Se questo è un uomo’ o ‘il Diario di Anna Frank’ hanno perso la loro guerra.  Sono diventati dei libri: oggetti di ipotesi e di valutazioni tutte astratta, magari difformi, ma comunque complici di un’ideologia a basso rischio, nella quale un libro sta in un luogo e la Bosnia in un altro”.

Mentre rileggevo queste tue parole, di trenta anni fa, davanti a me scorrevano le immagini dei campi dei migranti in Libia e quelli qui in Italia, la strage di Cutro, il corpo del piccolo Alan Kurdi in Turchia, l’invasione delll’Ucraina, i nomi di tutte le donne vittime dei femminicidi, i talk in tv in cui si parlava di un libro di successo in cui è scritto che gli omosessuali non sono normali. Mentre scrivevo questa lettera è accaduto poi l’inaudito: ad un violento attacco di Hamas in Israele, che ha rapito più di 240 ostaggi tra cui bambini e anziani operatore di pace e ha causato migliaia di morti, è seguita una terribile risposta del governo Netanyahu nella Striscia di Gaza, e nonostante gli sforzi per una tregua e le incessanti richieste di un cessate il fuoco, si continuano a contare anche a Gaza migliaia e migliaia di morti di palestinesi innocenti. In questo periodo pronunciare la parola PACE è così banale, si passa per essere degli sprovveduti, ingenui e incapaci di comprendere la complessità della GUERRA.  E così dal tramonto, con i suoi colori che vanno dal rame al rosso di un incendio, si è fatto buio anche in questa lettera e siamo in balia di feroci bestie affamate.

Karl Ove Knausgård, nel suo libro FINE, racconta l’ascesa di Hitler e dell’antisemitismo in Germania come qualcosa che prima ha avvelenato il linguaggio e solo in un secondo momento è diventato un progetto sistematico, e tutto questo fa paura se pensiamo che nelle scorse settimane a Parigi, su alcune case, sono state dipinte delle stelle di David mentre al cimitero ebraico di Vienna sono state disegnate delle svastiche. Ma allora è vero che “Se questo è un uomo” non ci proteggerà? Mi sembra a volte che tutti i libri che mettiamo in bella mostra sulle nostre pagine social siano come le foto dei tramonti e degli scorci marini. Da una parte le cose che leggiamo e le bellezze che immortaliamo, dall’altra ben distante le scelte di vita che facciamo giorno dopo giorno. Giorni che diventano settimane, settimane che diventano mesi e poi anni. Anni che sembrano così incomprensibili, malvagi, carichi di odio e opachi.

Decenni dove tutti i cambiamenti, così carichi di promesse di progresso, si stanno svelando quali presagi da incubo. Si possono amare questi tempi? Dalla pubblicazione della prima edizione di “Istruzioni per l’uso del lupo” forse c’è stato solo un grande ‘evento’ che ha riguardato tutto il mondo: la pervasività di Internet. Ma quella che ci sembrava la nuova grande rivoluzione, capace di democratizzare alcuni processi della società, di cancellare le distanze e avvicinarci, di ripensare i confini e di arricchirci con le diversità e inaugurare e sviluppare la globalizzazione in cui la guerra è inutile perché fa male agli affari, si sta rivelando una falsa promessa. Non sappiamo ancora bene cosa significhi affidare ad un algoritmo la scelta di cosa sia meglio leggere, vedere, ascoltare. Per non dire delle tematiche più delicate come la salute pubblica e la creazione del consenso democratico. La pandemia e il successo di partiti populisti ha aumentato l’odio sui social network dove si può spandere il proprio veleno in libertà e dire le cose più orribile, nell’anonimato più o meno organizzato (forse finanziato da qualche dittatore). Su Internet si possono condividere false notizie e quello che ci sembrava un nuovo modo per costituire relazioni, intessute su reali interessi, ora ci appaiono tante solitudini organizzate da un algoritmo che sa come monetizzare tutto, anche le passioni che dovrebbero essere le meno remunerative.

Si possono amare questi tempi? Ogni volta, grazie a te, prendo in prestito la risposta di Cristina Campo “eppure amo il mio tempo perché è il tempo in cui tutto vien meno ed è forse, proprio per questo, il vero tempo della fiaba. E certo non intendo con questo l’era dei tappeti volanti e degli specchi magici, che l’uomo ha distrutto per sempre nell’atto di fabbricarli, ma l’era della bellezza in fuga, della grazia e del mistero sul punto di scomparire, come le apparizione e i segni arcani della fiaba (…)”

Caro Emanuele, quando ho iniziato a pensare di scriverti una lettera, per ricordare l’anniversario di un libro che ha significato molto per me, mi stavo convincendo che non basteranno mai tutti i libri del mondo, la poesia, l’arte, la musica e nemmeno i tramonti a proteggerci e si stava insinuato in me il dubbio che forse è davvero inutile continuare a leggere, scrivere, fare arte e comporre musica. È vero, come scrivi tu, che non abbiamo ancora nulla che sostituisca tutte le cose che ho elencato, ma forse è dai tempi delle caverne che continuiamo a abbozzare graffiti alle pareti e oggi sottolineiamo frasi nei libri, ripetiamo a memoria versi, fotografiamo un particolare di un dipinto, e intoniamo canzoni perché potrebbero liberarci dalla paura dell’inermità. Chi mi ha fatto cambiare idea è ancora  Karl Ove Knausgård, che tu hai intervistato a Milano e ricordo che se non ti avessero fermato gli organizzatori di Book City, saresti andato avanti a dialogare con lui per tutta la serata. In uno dei suoi sei romanzi de “La Mia Battaglia” leggo “quando un attimo dopo mi fermai in cima al pendio a guardare la città che giaceva sotto di me, la sensazione di felicità era così selvaggia che non riuscivo a capire dove avrei trovato la forza di andare a casa, la forza di starmene seduto dentro il monolocale a scrivere, la forza di mangiare, la forza di dormire. Ma il mondo è disposto in modo tale che ti viene incontro proprio in momenti come quelli, la felicità interiore cerca una corrispondenza esterna, e la trova, la trova sempre, anche negli angoli più desolati del mondo, perché la cosa più relativa di tutte è la bellezza. Se il mondo fosse stato un altro, intendo dire, senza montagne, né mari, senza pianure né laghi, deserti né boschi, e fosse consistito di qualcosa di completamente diverso, per noi impensabile, dal momento che non conosciamo altro che questo, lo avremmo trovato comunque bello. Un mondo di gljo e raie, avanbilit e koniulama, per esempio, o ibiteitra, prolufn e lopsit, indipendentemente da cosa diavolo avrebbero mai potuto essere: lo avremmo comunque decantato perché noi siamo così, noi glorifichiamo il mondo e lo amiamo anche se non è necessario, il mondo è il mondo, l’unica cosa che abbiamo”. Questo non è l’unico passo in cui Karl Ove rinnova la sua promessa d’amore nel mondo e nel futuro, ma in questo passaggio, rileggendolo, la mia mente ha sostituito la parola mondo con la parola tempo. E quindi credo che sì, si può continuare ad amare il nostro tempo perché è l’unico tempo in cui ci è permesso leggere, scrivere, cambiare, fare arte, provare paura e vivere. Il nostro tempo è l’unica cosa che abbiamo.

 

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2 commenti

  1. gentile salvatore,

    ti scrivo qui pubblicamente perché non saprei come rintracciarti in modo altrettanto veloce. per fortuna leggo sempre questo sito, dove trovo tante cose interessanti, e quindi ho potuto intercettare la tua lettera, che mi ha fatto moltissimo piacere. sono d’accordo con te, tutto va trasformato in tempo, anche il mondo. gli stessi libri sono periodi della vita, lunghi mesi o anni, in cui vengono scritti.
    non ci avevo fatto caso, ma come mi ricordi sono passati trent’anni da quando uscì quel libretto. pensa che lo avevo scritto a mano, da capo a fondo, cosa che non mi è più nemmeno passata per l’anticamera del cervello. nel frattempo sono invecchiato, ma riesco ancora a riconoscere la fortuna che ha avuto quel giovane, che è stata quella di avere diviso vita e aspirazioni con persone come marco, o alberto castelvecchi che ha stampato il libro, e intorno a noi una piccola repubblica di svitati. niente “industria culturale” insomma, niente promozione, niente consenso. quel libretto poteva anche non leggerlo nessuno, tutto quello che facevamo rasentava spesso e volentieri la nullità. poi le cose sono diventate più complesse e solitarie, ma il centro di quell’operetta, che hai colto così empaticamente, sta in una sola domanda, che riguarda un’idea dell’artista come persona che vive effettivamente la propria vita. “fino in fondo” è un’espressione retorica, preferisco l’idea di qualcuno che, pur accettando la fondamentale illusorietà e casualità della vita, è pronto a coglierne i momenti di intensità. se vuoi un esempio di persona che ha vissuto la sua vita quanto ha potuto, mi viene in mente uno come peter handke.

    spero che questo pensiero risponda in qualche modo alla tua domanda,

    e ti ringrazio ancora per il pensiero,

    buon natale

    emanuele

  2. Grazie Emanuele,
    a proposito di ‘trasformato in tempo, anche il mondo’ rileggerò di peter handke il suo Canto alla durata, per continuare ad allenarmi a cogliere tutti i momenti di intensità.

    buon 2024

    Salvatore

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