Pubblichiamo, ringraziando autore ed editore, un estratto da Non è un pranzo di gala. Indagine sulla letteratura working class di Alberto Prunetti, uscito per minimum fax.
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Chiudo questa appendice con tre consigli per aspiranti scrittrici e scrittori working class. Lasciano il tempo che trovano e non prendetemi per il grillo parlante. Se non vi convincono, tirateli ai maiali. Prima però vi racconto la storia di una scrittrice working class americana.
Probabilmente avrete visto Maid, la serie Netflix, ma il memoir di Stephanie Land a cui si ispira è ancora più bello. Al contrario di quel che succede nella serie Netflix, nel racconto di Land nessuna donna ricca ed etnicamente caratterizzata salva la protagonista. Stephanie si fa il culo da sola e si salva con l’aiuto di qualche persona amichevole e una borsa di studio per studenti poveri (quanto sono importanti le borse di studio!). Al massimo dai ricchi ottiene qualche piccolo regalo, qualche atto di gentilezza, ma sono i poveri quelli che più l’aiutano. Il centro di assistenza per donne vittime di violenza nella serie Netflix è un posto paradisiaco, la signora anziana e nera che lo gestisce è una figura che offre sicurezza e la musica della colonna sonora ogni volta che lei compare sullo schermo si eleva su un timbro quasi spirituale. Nel romanzo invece Stephanie parla di un posto piccolo e sudicio in cui il fatto di essere povera la espone a controlli notturni polizieschi sulle proprie urine (se sei povera devi essere per forza anche alcolista e tossica).
Leggetelo, quel libro. Stephanie Land racconta cosa significa essere una donna povera nell’America dei nostri giorni. Racconta cosa significa prendersi cura delle case dei ricchi senza riuscire ad avere una casa per sé che non sia un monolocale muffoso. Cosa significa non poter dedicare attenzioni alla propria figlia e tirarla su da sola perdendosi nei mille ricatti dei programmi di assistenza sociale e di workfare. Ne esce. Come, nel libro lo capiamo poco. La solidarietà di altre donne povere conta. L’amore per sua figlia le fa fare sforzi disumani. La scrittura l’aiuta. Oggi è una scrittrice working class nota in tutto il mondo, grazie soprattutto al successo della serie Maid. Ma quando era povera se provava a leggere un libro le persone middleclass la guardavano male, perché quelle come lei che non hanno i soldi per curare l’otite della figlia e fanno la spesa con gli aiuti sociali non si meritano di leggere libri. Figurarsi se possono scrivere e pubblicarli. Ecco come ricorda quei giorni:
Era come se certi membri della società cercassero l’occasione buona per giudicare e rimproverare i poveri per quello che, a parere loro, non si meritavano. […] Di sicuro qualcuno teneva d’occhio quel che facevo io. A volte avevo l’impressione che lo facessero anche in quella che doveva essere l’intimità della mia casa. […] Era come se starmene seduta volesse dire che non stavo facendo abbastanza, la pigra beneficiaria di sussidi pubblici che si presumeva fossi. Poltrire a leggere un libro sembrava una concessione eccessiva; come se un tale lusso fosse riservato a un’altra classe sociale. Io dovevo lavorare di continuo.
Stephanie scrive il suo libro rubando le ore al sonno, piena di ibuprofene per non sentire i dolori alla schiena causati dai turni estenuanti di pulizie di cessi. Racconta la durezza della sua vita e quanto sono stronzi i padroni delle case che pulisce. Oggi quel libro è un capolavoro working class. Chiamatelo anche in Italia col suo nome. Un fottuto bestseller di letteratura working class.
Detto questo, il primo consiglio è fare quello che ha fatto lei: leggete nonostante tutto. Leggete tantissimo. Leggete nel bus mentre andate al lavoro. Chiudetevi nel cesso simulando una diarrea e leggete. Leggete a lavoro se capite che stanno per licenziarvi. Leggete sempre, prima di scrivere. Assumerete per osmosi le strutture del racconto. E, soprattutto, leggete la letteratura working class. Nel corso degli ultimi anni ho accumulato una serie di titoli in svariate lingue, assieme ad alcuni saggi sulla letteratura di classe lavoratrice. Queste opere hanno occupato un’intera libreria, che ho chiamato l’armadio dei libri working class. Alcuni titoli li avete già incontrati nei capitoli precedenti, ma li ritroverete tutti, insieme a molti altri, nelle prossime pagine, in cui faccio l’inventario di quell’armadio, senza preoccuparmi troppo di discernere tra le lingue in cui le opere sono state scritte o dividere tra saggi critici e opere letterarie o tra monografie, riviste, antologie eccetera. Ho aggiunto alcuni titoli che pur non essendo letteratura working class mi hanno fornito degli attrezzi utili a scandagliare il fondo della mia ricerca. Quell’armadio è l’impalcatura su cui ho cstruito una buona parte del mio lavoro ed è a vostra disposizione. Prendete da lì e cominciate a leggere.
Secondo consiglio: oltre a leggere tantissimo, dovete fare qualcosa di importante. Non credete alle stronzate romantiche che i ricchi si sono inventati sugli scrittori poveri chiusi in una camera d’albergo a immaginare mondi di fantasia. Cazzate. Neanche gli scrittori fighetti di classe media stanno chiusi nella torre d’avorio a fare i vati, ormai. Per scrivere dovete tenere il naso e il culo nel mondo. E dovrete aprirvi al mondo. Facile a dirsi, lo so, per chi non se ne sta murato vivo in un ristorante. Purtroppo in certi lavori il mondo non entra. Nelle cucine ad esempio, che sono carceri coi fornelli e la lavastoviglie. Sforzatevi però di frequentare sindacati, centri sociali, associazioni di base. Andate alle manifestazioni, fate attivismo. Leggete i giornali. Sono cose che servono per stare coi piedi dentro la realtà. È lì che troverete l’ingrediente che manca alle vostre storie di fame e di rabbia. Serve il lievito della ribellione e della solidarietà a far sollevare le nostre storie.
Detto questo, facciamo due conti: lavorate dieci ore al giorno. E vi ho appena detto che per scrivere un libro dovete leggere tanto, e pure fare attivismo, e ancora a scrivere non avete cominciato. È un macello. È questa una delle ragioni per cui siamo fuori dai giochi della narrativa. Però se riuscite a rubare ore al sonno, si può fare. Tutta questa fatica, questa rabbia, questa dedizione vi torneranno indietro. Infine, non vergognatevi di scrivere. Ci hanno raccontato che scrivere è roba da iniziati (ossia da privilegiati), ma in realtà gestire una cucina in linea con trecento persone in sala è difficile tanto quanto scrivere un racconto breve. Mandate un qualsiasi scrittore laureato il sabato sera nella cucina di un ristorante e getterà la spugna dopo cinque minuti. Scrivere è più facile che spedire dieci comande in sala in tempi da cucina express. Quindi non abbattetevi e provate, provate, provate. Scrivete non per vanità, ma per fare il culo al capo. O alla professoressa snob che vi umiliava. O al fighetto con la villa che andava in settimana bianca che vi bullizzava a scuola. Ce la farete. I piedi nella realtà, il culo sulla sedia, la penna sulla carta. Dategliene secche.
Stephanie Land, mentre ancora lavorava come donna delle pulizie, se l’era tatuato sulle dita della mano destra: «s-o-w-r-i-t-e», «E allora scrivi», lettera per lettera, una per ogni dito. Therry White, scrittrice working class britannica, lo dice così: «I’ve read and heard a lot of writing advice over the years, and the only advice that actually makes any real sense/works is just write the fucking thing». Tradotto: scrivi quel cazzo di libro, maremmacane! E ha ragione lei: è l’unico consiglio che conta.
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