C’è una lunga storia di pallone, Milano e poesia, di calcio e dei poeti milanesi. A chi, come me, a Milano ci era arrivato non per nascita, ma per scelta, per destino, o come ci pare, sono state raccontate, descritte nei dettagli, a volte con eccessiva enfasi, mirabili domeniche allo stadio, partite svoltesi prima della guerra e altre di rinascita, di nuove speranze, nel dopoguerra. Era tutto un chi teneva per chi, e cosa significava per quel poeta tenere per l’Inter o per il Milan. Milo De Angelis, milanista, mi ha sempre detto che le poesie più belle sul calcio le ha scritte Franco Loi, altro milanista.
È indubbio che i testi in dialetto scritti da Loi sul calcio sono in grado di commuoverti mentre ti proiettano in un tempo che non esiste più, «tutto in bianco e nero, se Dio vuole», scriverebbe proprio Giovanni Raboni, forse pensando a quelle poesie di Loi o forse pensando alla sua prima volta allo stadio, vissuta da bambino, insieme al padre e a Livio, i fratello più grande, quando sentì la scintilla, la passione per la squadra nerazzurra che si infilava addosso proprio come una maglia da non sfilarsi più.
Hanno un titolo molto lungo gli scritti sul calcio di Raboni, pubblicati da poco da Mimesis, un titolo che viene da una sua frase: Si è tifosi della propria squadra perché si è tifosi della propria vita. La frase continua e Raboni afferma che si è tifosi di quello che si è stati e di quello che si desidera continuare a essere. Rimanere tifosi della propria vita – e Rodolfo Zucco, curatore di questo volume, forse sarebbe d’accordo – vuol dire anche ritornare per sempre al luogo in cui si è giocata la prima partita, perché è quella che ci ha resi quelli che siamo. Il calcio è un gioco, e la passione e l’amore per questo gioco restano inspiegabili, non se lo spiega (anche se ci prova) Raboni, non se lo spiega (pur avendoci provato) Vittorio Sereni.
Il volume è una vera chicca, al suo interno ci sono articoli, considerazioni, interviste e, naturalmente, le poesie sul calcio di Giovanni Raboni, la formidabile e indimenticabile Zona Cesarini, il sonetto per Roberto Baggio, forse meno noto, ma con un paio di passaggi meravigliosi. Il sonetto chiude con «l’imponderabile Baggio», e, anche se non conoscessimo i versi precedenti non potremmo che essere d’accordo con Raboni, Baggio è stato imponderabile, tra le altre cose, come i misteriosi, come certe poesie, come i fuoriclasse. La poesia più bella di Raboni sul calcio è quella dedicata al fratello Livio, inclusa in Barlumi di storia che è sempre bello riportare per intero.
«Vivi, io e te, per quanto? Non facciamola,
non ha senso questa domanda. Vivi
finché è stasera, fino a quando
continua sullo schermo la partita
e ancora si può sperare che uno
dei nostri, magari in extremis,
magari nei minuti di recupero,
riesca a segnare. Non c’è tempo
che non sia questo tempo
qui dove siamo, nella casa
che è la tua casa e che ogni tanto
la domenica sera
diventa anche la mia casa,
in questo labirinto
di secondi dove tu mi precedi
dei soliti quattro anni e cinque mesi
che una volta davano le vertigini
(tu un ragazzo e io un bambino
tu un padre e io ancora un figlio)
e adesso non sono più niente
meno della durata di un’azione
meno del tempo che ci vuole
a un mediano di spinta
per raggiungere l’area di rigore».
(a mio fratello nell’ultimo inverno)»
In questa poesia, Giovanni Raboni è al suo meglio, i versi sono retti da un equilibrio perfetto, tra la vita, la partita, il tempo, la morte a un passo. Una meraviglia. Questa poesia, come tutto il libro, fa venire nostalgia per una stagione non conosciuta. Raboni per molti anni andava allo stadio con Vittorio Sereni – si legga una poesia incantevole che inizia con «Allo stadio andavamo presto» – di quell’andare plurale facevano parte Sereni e Raboni, che si avviavano presto, partecipavano al rito, allungavano il rito, con le partite dei ragazzini che anticipavano la partita di Serie A. Dopo la morte di Sereni, Raboni allo stadio quasi non ci è andato più, e questo è un aspetto che ha a che fare, oltreché col calcio e con il tifo, con la poesia. Ho sempre pensato che quei due poeti, mentre andavano a San Siro, scrivevano, muovevano qualcosa insieme ai passi, che aveva a che fare con l’amicizia e con qualche poesia a venire.
Il calcio, i rituali, l’Inter. Raboni dice di aver amato maggiormente le stagioni nelle quali la squadra è stata in difficoltà, quasi sul baratro della retrocessione, quando fu salvata dal ritorno di Meazza, che ormai non correva più ma metteva ancora la palla dove voleva. Per Raboni, il calcio, col passare degli anni, non può essere definito né più bello né più brutto, ma è solo «qualcosa che continua ad accadere», e in quel continuare, sempre uguale sempre diverso, si perpetua l’interesse delle persone, come quello del poeta milanese.
Raboni amante di Ronaldo il fenomeno, di Moriero, di Adriano, felice dell’Inter di Herrera ma, in quel caso, non innamorato. Raboni che trova i calciatori moderni poco interessanti al di fuori del campo da gioco. Alle domande su quali di questi vedrebbe bene raccontati in un film, risponde Maradona, poco più avanti, risponde Baggio. Sono d’accordo.
Il tifo per Raboni non è tanto parteggiare quanto aderire. Si sta in un tempo e in quel tempo si sta con la propria squadra del cuore, che è una, una soltanto e una sarà sempre. Non amava le partite trasmesse in televisione, le subiva, ma non poteva farne a meno, diceva che ti trovavano quasi a tradimento, nella tua intimità, tra i libri e il divano.
Raboni marca anche una profonda differenza tra tifo e passione per il calcio. Per quanto riguarda il gioco, era capace di vedere anche le partite del campionato svizzero (chissà cosa avrebbe detto oggi dopo questi Europei deludenti), quelle a cinque, a sei dei ragazzini, del resto, come lui ha raccontato e come leggiamo anche qui, nell’introduzione di Zucco, proprio guardando i ragazzi giocare a pallone, oltre il vetro della finestra di casa, ha pensato, si è sentito spinto a voler essere un poeta: «Mi sembrava che una poesia fosse un vetro attraverso il quale si potevano vedere molte cose […] e che il vetro fosse trasparente […] che mi isolasse, mi difendesse. I giochi erano al di là del vetro, mentre io ero di qua».
Insomma, tra poesia e calcio c’è una lunga storia, esistono tante belle poesie e passeggiate e domeniche appassionate e deludenti e rivalità e amicizie profonde. Milo De Angelis che ha scritto bellissime poesie sul calcio, ed è uno dei maggiori esperti di questo sport che io conosca: ricorda le partite, i singoli e così rari gesti meravigliosi (come Raboni), ricorda i brocchi, così come li ricorda Raboni, in una poesia che amo molto ha scritto: «Sono soltanto tre, posso dirtelo, le regole del bene, / soltanto tre: portare il pallone nel soffio / della prima altalena, portare ogni dribbling in un balletto / astrologico, trovare in una stella / l’attimo giusto per il calcio di rigore». Mi piace dedicare e, in un certo senso mandare, anche se non so bene dove, questi tre versi a Giovanni Raboni, che gli arrivino come un dribbling in un balletto astrologico, portati dal soffio di un’altalena, la prima, che trovino – adesso che sono quasi vent’anni dalla sua morte, e ci manca moltissimo – in una stella, la sua, l’attimo giusto – ammesso che esista – per il calcio di rigore.
Gianni Montieri, è nato a Giugliano in provincia di Napoli. Scrive per Doppiozero, minima&moralia, Esquire Italia, Huffpost e il manifesto, tra le altre. Prova a incrociare la letteratura con lo sport per L’ultimo uomo, Rivista Undici. I suoi libri di poesia più recenti sono Ampi margini (2022) e Le cose imperfette, editi da Liberaria. Ha pubblicato per 66thand2nd due titoli Il Napoli e la terza stagione e Andrés Iniesta, come una danza. Vive a Venezia.
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