Vivere è vedere. Di fronte a un romanzo in tre parti dalle temporalità e voci multiple come Trilogia della guerra dello spagnolo Augustìn Fernández Mallo, abilmente tradotto da Silvia Lavina per Utopia, travolti da un’inventiva strabordante quanto lineare con digressioni che trasportano il lettore dentro paesaggi mentali sconcertanti per riportarlo a casa prima che si smarrisca, c’è bisogno di una chiave. La formula per rientrare in pagine che provocano il desiderio, l’ansia di esserne cambiati. Sapendo che si tratta di una scelta arbitraria, è un verbo: Mallo ha descritto conseguenze e promesse insite nell’aver visto: «vedere è il grande tema, vedere è ciò che ci occupa, vedere è ciò che ci ha occupati sempre». E ha scritto un testo visionario sui prodigi della fotografia.

I protagonisti di tre vicende che s’intrecciano come vettori oscillanti tra i diversi momenti dell’esistenza, hanno bisogno di vederci chiaro. Capiscono per esempio che soltanto arrivando a riempire con corpi delle vittime le fotografie scattate su un’isola spagnola ora deserta e settant’anni dopo che era stata esilio e tomba dei prigionieri dell’esercito di Franco, potranno ritrovare un amore allo stato puro, l’odore della cellula da cui provengono. Perché nel presente, all’invettiva lanciata su Twitter, all’affabulazione che rende soli o alle parole senza vita scambiate tra studiosi, si dà un potere esagerato e che corrompe. Il protagonista usa le fotografie cercando i corpi esclusi da queste per viaggiare nel tempo, perché le fotografie sono macchine per ricreare ciò che abbiamo perduto; avviano un dialogo tra vivi e morti, trovando in quell’orchestra rivolta indietro che è la memoria, la nota familiare. Ma così sembra che il triplice romanzo abbia una missione univoca.

Dall’esergo del poeta Carlos Oroza «È un errore dare per scontato ciò che fu contemplato» si deduce il contrario: le immagini dei prigionieri legano sì presente e passato, restituendo all’isolotto al largo della Galizia il peso di una testimonianza, ma danno anche origine a un viaggio nelle conseguenze di questo legame ritrovato, a una scossa che risveglia ciò che dal testimone era dimenticato, perché sopito. Ricordare si trasmette: non rispetta i confini del tempo, nemmeno quello dei corpi.

Non poter dare per scontato ciò che è stato contemplato è la dannazione che accompagna il protagonista del secondo capitolo: il quarto, invisibile astronauta del primo allunaggio del 1969, spedito sul satellite soltanto per fotografare la missione, fornendo le prove dell’exploit di Armstrong e Aldrin. Cos’è più destabilizzante di essere andato sulla Luna ma non poterlo affermare perché non si appartiene alle immagini, fino a dubitarne? E non è ciò che stiamo vivendo, per cui ci stiamo trasferendo in documenti, meme, file e presto meta; per cui le fotografie pesano su di noi e le memorie digitali ci contengono? Lo dice un personaggio che somiglia a Dalì. Guarda la corrente dell’East River mentre trasporta i rifiuti di Manhattan, caldeggiando la nascita di una lega per la conservazione della materia: altrimenti le fotografie finiranno per soppiantarci, «Sono il nostro Alien», dice a Kurt, l’astronauta senza prove. Vedere è al contrario confermare le radici. Il quarto uomo lunare ormai vecchio e instabile non ricorda il volto della madre e lo sostituisce con altri. L’angoscia se ne va quando torna alla mente una foto che era appesa nel salotto di casa, in cui lei sorride. Una foto da album di famiglia, un rettangolo sbiadito e potente in mezzo a una serie di bagliori.

Sostenere che la Trilogia della guerra sia un testo sulle immagini e su come queste permettano d’attraversare mille strade fino a risvegliare l’impeto della memoria. è un po’ una follia. Ma una follia indotta. Le banali sfocate fotine incluse nel testo e simili a foglie o sabbia rimasta tra le pagine, sono essenziali. Consentono a Mallo, fisico, lui sperimentatore da sempre, di tentare difficili connessioni tra la coscienza di un tempo, e di quello che l’ha preceduto e quello ancora prima in un carosello di rimandi, e intanto rassicurarci: guarda, sto descrivendo questo, seguimi. Diventano i punti della rotta dell’autore, tracce delle emozioni che i protagonisti non sempre riconoscono e noi sì. E svelano la morale imbarazzante del passare del tempo: quando ritraggono il palazzo di Torino davanti al quale Nietzsche uscì per abbracciare un cavallo, palazzo contro cui nel ventunesimo secolo si appoggiano alcuni operai in pausa pranzo.
La donna del terzo episodio costeggia a piedi la Normandia degli sbarchi alleati con l’emozione di un addio al proprio uomo scomparso e con cui pochi anni prima aveva compiuto lo stesso itinerario. Ritrova nelle forme della costa la lussureggiante progressione dei frattali di Mandelbrot, per cui il suo avanzare si traduce nel vedere ogni oggetto e persona nei singoli dettagli, un così preciso pedinare anse e coste frastagliate da risultare illimitato. Vedere annulla così la scomparsa.

La guerra del titolo domina l’esperienza dei protagonisti, è diventata «una sedimentazione di strati geologici, botanici, biologici e persino informatici», una rete sospesa nel tempo su cui procediamo, in cui cerchiamo una sicurezza e intanto moriamo di paura. Nel nostro viaggio senza ritorno, le fotografie possono dare il via a un sogno a ritroso, rammentando però che «sognare un ricordo è una cosa strana» scrive Mallo. Ogni volta che si posa il libro per riprenderlo e tanto più quando si finisce di leggerlo, ci si sente come personaggi di un sogno, una smorfia di tristezza addosso, perché il sognatore, il libro, sta per svegliarsi. Mentre leggevo le ultime pagine, mi sono interrotto per guardare un terribile video della BBC da Bucha. Davanti al palazzo sventrato da un missile e che aveva distrutto la sua casa, un’anziana donna piangeva disperata. Gridava che non le era rimasto nulla, «nemmeno una foto».

 

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Autore

micheleneri@minima.it

È nato a Milano nel 1959. Giornalista culturale e professionista in campo fotografico, ha pubblicato Scazzi (Mondadori), scritto insieme al figlio, i saggi Photo Generation (Gallucci) e L’ultima foto, un dialogo con Enrico Ratto (Seipersei), i romanzi Sospensione (Centauria) e Come un mattino texano (Polidoro Editore), il saggio biografico Ballardland (Italo Svevo - Biblioteca di letteratura inutile) oltre a racconti su «Nazione Indiana» e «minima&moralia».

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